LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA di Paolo Bagnoli
di Paolo Bagnoli
25-09-2025 - EDITORIALE
E' un dato inquietante, ma, guardandoci intorno non si può non constatare l'affanno dei sistemi democratici: vale a dire, la crisi della democrazia rappresentativa.
Il fenomeno, anche se diversamente coniugato da situazione a situazione, è oramai molto esteso e ciò dovrebbe far suonare una sirena d'allarme forte. Perdere la democrazia nella sostanza del suo valore, da cui dipendono procedure e garanzie che altro non sono se non il nocciolo dello “stato di diritto”, significa perdere la libertà. Significa perdere il bene più grande su cui si basa la civiltà non solo per quanto essa ha permesso di conquistare tramite dure e aspre lotte – la lotta di classe non l'ha certo inventata Carlo Marx – ma per quanto, in termini di progresso civile, di acquisizione di diritti, di giustizia sociale essa, con il metodo della democrazia ci permette di convivere civilmente e progredire socialmente.
La democrazia rappresentativa non è certo perfetta, ma se i suoi mali da fisiologici divengono patologici le cose cambiano; la gente non vi si identifica più, grandi interessi privati si infiltrano nelle sue pieghe e, con il distacco della gente dal sistema, sull'ondata del populismo, prende campo la demagogia. Così si insinua l'idea che essa non funzioni, che non sia al passo dei tempi, dei cambiamenti che questi nel loro svilupparsi pongono sul tappeto e se essa non è in grado di dare risposta a tali fenomeni tanto vale che si affermi un ordine autocratico.
La ragione della politica, della politica democratica, piano piano sfuma e per gestire il potere occorre un autocrate. Il presupposto culturale che lo giustifica è il nazionalismo; accettarne la realtà significa frantumare il multilateralismo, la guerra viene considerata una conseguenza inevitabile. I drammi dell'Ucraina e di Gaza lo confermano. In quest'ultimo caso va detto che al 7 ottobre una reazione forte e decisa ci dovesse essere, ma liberare gli, ostaggi andava in parallelo con la liberazione del popolo di Gaza da Hamas che, paradosso della vicenda, essendo diventata grazie alla politica assassina del governo israeliano la rappresentante del popolo palestinese. costituisce pure quello di cui ha bisogno Netanyahu per autocratizzare la propria posizione. Lo dimostra il fatto di come nel paese abbia messo la mordacchia alla libera informazione e voglia sottomettere la giurisdizione. La protesta popolare in Israele però è forte. Le forze della democrazia, non solo europea, devono riuscire a legare politicamente il dato della protesta interna con la legittimità di uno Stato palestinese che già diversi governi hanno dichiarato. Il fatto che ancora esso non esista come struttura è solo un misero pretesto per non indispettire Trump da cui c'è da aspettarsi solo sciagure. Per la serietà e la rilevanza di quanto è in gioco il momento per fare seriamente, al di fuori di furberie, interessi e baracconate varie, di porre sul tavolo la ridefinizione dei rapporti dell'Occidente – ossia dell'Europa – con l'America ultrapotente, ma la potenza non è la chiave della storia né tantomeno della moralità politica.
La rabbia sociale e civile che è alla base della crisi della democrazia rappresentativa è il terreno di coltura su cui nascono i regimi autocratici. E' da lì che nasce il potere autocratico come avviene in Russia, Egitto, Cina, Turchia, India, Corea del Nord: tutti paesi che hanno presenziato alla parata di Pechino. Anche se non presenti potremmo benissimo aggiungere l'America di Trump, l'Ungheria di Orban – al proposito, la commissione del Parlamento Europeo che ha respinto la richiesta di estradizione per Ilaria Salis, non solo ha fatto una scelta giusta, ma ha anche compiuto in atto di difesa del principio dello “stato di diritto” - e l'Argentina di Milei.
Evidentemente si tratterebbe di una soluzione peggiore del male, ma allora viene spontanea la domanda: esiste un altro sistema, non autocratico, che può sostituirsi alla democrazia rappresentativa? Un sistema, cioè. basato sulla sovranità popolare, sui diritti delle minoranze, sull'indipendenza della giurisdizione, sulla libertà di opinione e i suoi modi di manifestarsi? Su un sistema che veda nascere dalla collettività delle vere classi dirigenti attraverso processi di selezione da cui emergano i migliori che, se poi non risultano all'altezza, possano essere sostituiti?
Certezze e interrogativi vanno in parallelo. E' il momento che la “ragione” di ognuno di noi si ponga la questione prima che la crisi diventi non più agguantabile. Questo primo indispensabile passo ci sembra, però, essere il più difficile da farsi.
Il fenomeno, anche se diversamente coniugato da situazione a situazione, è oramai molto esteso e ciò dovrebbe far suonare una sirena d'allarme forte. Perdere la democrazia nella sostanza del suo valore, da cui dipendono procedure e garanzie che altro non sono se non il nocciolo dello “stato di diritto”, significa perdere la libertà. Significa perdere il bene più grande su cui si basa la civiltà non solo per quanto essa ha permesso di conquistare tramite dure e aspre lotte – la lotta di classe non l'ha certo inventata Carlo Marx – ma per quanto, in termini di progresso civile, di acquisizione di diritti, di giustizia sociale essa, con il metodo della democrazia ci permette di convivere civilmente e progredire socialmente.
La democrazia rappresentativa non è certo perfetta, ma se i suoi mali da fisiologici divengono patologici le cose cambiano; la gente non vi si identifica più, grandi interessi privati si infiltrano nelle sue pieghe e, con il distacco della gente dal sistema, sull'ondata del populismo, prende campo la demagogia. Così si insinua l'idea che essa non funzioni, che non sia al passo dei tempi, dei cambiamenti che questi nel loro svilupparsi pongono sul tappeto e se essa non è in grado di dare risposta a tali fenomeni tanto vale che si affermi un ordine autocratico.
La ragione della politica, della politica democratica, piano piano sfuma e per gestire il potere occorre un autocrate. Il presupposto culturale che lo giustifica è il nazionalismo; accettarne la realtà significa frantumare il multilateralismo, la guerra viene considerata una conseguenza inevitabile. I drammi dell'Ucraina e di Gaza lo confermano. In quest'ultimo caso va detto che al 7 ottobre una reazione forte e decisa ci dovesse essere, ma liberare gli, ostaggi andava in parallelo con la liberazione del popolo di Gaza da Hamas che, paradosso della vicenda, essendo diventata grazie alla politica assassina del governo israeliano la rappresentante del popolo palestinese. costituisce pure quello di cui ha bisogno Netanyahu per autocratizzare la propria posizione. Lo dimostra il fatto di come nel paese abbia messo la mordacchia alla libera informazione e voglia sottomettere la giurisdizione. La protesta popolare in Israele però è forte. Le forze della democrazia, non solo europea, devono riuscire a legare politicamente il dato della protesta interna con la legittimità di uno Stato palestinese che già diversi governi hanno dichiarato. Il fatto che ancora esso non esista come struttura è solo un misero pretesto per non indispettire Trump da cui c'è da aspettarsi solo sciagure. Per la serietà e la rilevanza di quanto è in gioco il momento per fare seriamente, al di fuori di furberie, interessi e baracconate varie, di porre sul tavolo la ridefinizione dei rapporti dell'Occidente – ossia dell'Europa – con l'America ultrapotente, ma la potenza non è la chiave della storia né tantomeno della moralità politica.
La rabbia sociale e civile che è alla base della crisi della democrazia rappresentativa è il terreno di coltura su cui nascono i regimi autocratici. E' da lì che nasce il potere autocratico come avviene in Russia, Egitto, Cina, Turchia, India, Corea del Nord: tutti paesi che hanno presenziato alla parata di Pechino. Anche se non presenti potremmo benissimo aggiungere l'America di Trump, l'Ungheria di Orban – al proposito, la commissione del Parlamento Europeo che ha respinto la richiesta di estradizione per Ilaria Salis, non solo ha fatto una scelta giusta, ma ha anche compiuto in atto di difesa del principio dello “stato di diritto” - e l'Argentina di Milei.
Evidentemente si tratterebbe di una soluzione peggiore del male, ma allora viene spontanea la domanda: esiste un altro sistema, non autocratico, che può sostituirsi alla democrazia rappresentativa? Un sistema, cioè. basato sulla sovranità popolare, sui diritti delle minoranze, sull'indipendenza della giurisdizione, sulla libertà di opinione e i suoi modi di manifestarsi? Su un sistema che veda nascere dalla collettività delle vere classi dirigenti attraverso processi di selezione da cui emergano i migliori che, se poi non risultano all'altezza, possano essere sostituiti?
Certezze e interrogativi vanno in parallelo. E' il momento che la “ragione” di ognuno di noi si ponga la questione prima che la crisi diventi non più agguantabile. Questo primo indispensabile passo ci sembra, però, essere il più difficile da farsi.
Fonte: di Paolo Bagnoli