04 Dicembre 2024

“DA KAIROS AD ANANKE”

Sembra che finalmente si sia aperta una nuova stagione nella storia della costruzione europea. Fino a un paio di anni fa le istituzioni dell'UE e i governi degli Stati che ne fanno parte non parevano avere la minima intenzione di deflettere dall'osservanza dei dogmi neoliberisti impostisi nel corso dell'ultimo trentennio. Allo stesso modo, nelle opinioni pubbliche dei diversi paesi questo atteggiamento miope aveva alimentato un'ostilità sempre maggiore nei confronti delle istituzioni europee e delle politiche da queste messe in atto. Questo trend è ancor più evidente se si considera che dalle elezioni del 1994 la maggioranza degli europei diserta le urne con un picco negativo nel 1999 quando l'affluenza generale scende dal 56,7% al 49,5% (questo pur tenendo presente che negli anni il numero dei paesi chiamati al voto aumenta dai 9 del 1979 ai 27 del 2009).

Frutto marcio di questa situazione è il mai troppo vituperato ‘sovranismo', di cui, secondo la Treccani, questa è la definizione: “posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.

Ora, a mio parere è necessario preliminarmente distinguere tra le pulsioni sovraniste presenti nei paesi dell'Europa occidentale (Francia, Germania, Italia, Spagna) e quelle emerse negli ex-paesi del blocco orientale (principalmente Polonia e Ungheria ma anche i länder dell'ex-Germania est).

Nei paesi dell'Europa dell'est il sovranismo nasce e mette radici come reazione alla violazione alla propria autonomia nazionale che l'Unione Sovietica aveva loro imposto per quarant'anni. Il combinato disposto di questo precedente storico e di un allargamento verso est in funzione antirussa necessario ma fin troppo precipitoso - osservazione all'epoca rilevata da pochi ma ormai condivisa dalla maggior parte degli osservatori - ha costituito la miscela esplosiva su cui hanno fatto la loro fortuna autocrati come Orban in Ungheria e Kaczynski in Polonia. Un commentatore sagace e certo non sospettabile di simpatie sovraniste come Maurizio Ferrera ha scritto sulla ‘Lettura' del 14 novembre scorso che ‘a parere di molti commentatori l'incorporazione democratica dei Paesi centro-orientali è stata il più grande successo dell'integrazione ma che, tuttavia, l'adesione all'UE non è (ancora?) riuscita ad agganciare i Paesi dell'Europa centro-orientale ai valori liberali e democratici' e aggiunge ‘La transizione di regime c'è stata sul piano formale, molto meno su quello sostanziale. Il conflitto sullo “Stato di diritto” che oggi divide Bruxelles da un lato, Varsavia e Budapest dall'altro lato, la dice lunga sull'inerzia delle diversità e gli ostacoli all'unità' (1).

In questi paesi sarà molto difficile estirpare le tendenze nazionaliste (in Polonia collegate strettamente anche al ruolo esercitato dalla Chiesa cattolica) che almeno dalla fine dell'Ottocento sono presenti e che riemergono costantemente. Osservazioni simili valgono per l'Ungheria in cui Orban governa facendo propri toni xenofobi e antisemiti. In questi casi si tratterà di lavorare a lungo, presumibilmente molto a lungo, sui processi di democratizzazione interna e sulla memoria nazionale di questi paesi. Sulle questioni delle memorie divise dell'Europa sulle quali qui non è possibile dilungarsi consiglio la lettura del libro Nazismo, comunismo, antifascismo. Memorie e rimozioni d'Europa di Carlo Spagnolo e altri autori (2).

Molto diverso è, invece, il discorso per i paesi dell'Europa occidentale per i quali si tratta di un fenomeno transeunte, collegato alle conseguenze delle politiche europee degli ultimi 15/20 anni. In questo caso l'emersione e la fortuna di partiti d'ispirazione sovranista sono riconducibili – ad esempio in un paese come l'Italia nota, peraltro, per essere sempre stata in testa nelle classifiche di gradimento riguardo alle politiche europee – a elemento contingente della lotta politica, significativo finché utile, ossia finché l'Unione Europea non tornerà ad adottare delle politiche di sostegno al lavoro e di tutela dei diritti sociali, ovvero da quando l'Europa, fattasi matrigna non tornerà ad essere la madre soccorrevole che avevamo conosciuto, certo in termini molto diversi da quelli adottati nei trente glorieuses a causa dei mutati scenari geopolitici internazionali.

Adottiamo uno sguardo diacronico. Nella primavera 1989 – da dati di Euro barometro – l'adesione alla Comunità europea era considerata una ‘buona cosa' da due cittadini europei su tre, tuttavia nell'autunno del 2011 – nel pieno della più grave crisi finanziaria globale degli ultimi anni – se l'Unione Europa continuava ad essere vista come l'attore più impegnato a combattere la recessione, la frammentazione fra i diversi paesi era molto aumentata: i dati parlano di un 24% in Grecia e in Ungheria fino ad arrivare all'85% in Olanda, all'88% in Finlandia, all'89% in Danimarca e al 90% in Svezia.

Cos'era successo? Nel giugno 2007 le conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo stabiliscono chiaramente che d'ora in avanti nei documenti ufficiali non si parlerà più di ‘Costituzione'. Si dà mandato a una nuova conferenza intergovernativa di tracciare i termini del nuovo trattato. Si va, cioè, in direzione opposta e contraria a quanto previsto dalla dichiarazione di Laeken del 2001. Così facendo si abdica definitivamente all'idea che le sorti dell'Europa siano affidate a un documento dotato di sostanza costituzionale.

Dalla firma del trattato di Maastricht, poi, emergono vincoli sempre più stretti alle politiche di bilancio degli Stati nazionali e vincente risulta essere l'ideologia – perché di ideologia si tratta – dell'austerità espansiva (una teoria economica basata su presupposti empirici risultati poi sbagliati - come rileverà più avanti anche il FMI, basti qui ricordare le dichiarazioni dell'economista Olivier Blanchard - secondo cui il saldo positivo delle entrate pubbliche rappresenta la strategia che genera un clima positivo per consumatori e investitori che rialimentano così la domanda di beni e servizi rilanciando la crescita.)

Il processo d'integrazione europea comincia a slittare su un piano inclinato all'indomani della firma del Trattato di Maastricht di cui tra pochi mesi si celebrerà il trentennale della firma. La fine della contrapposizione tra Est e Ovest, il processo, sia pure lento e travagliato, di democratizzazione dei paesi dell'Europa orientale e l'affacciarsi dei primi segnali della globalizzazione contribuiscono a fare del neoliberismo lo sfondo privilegiato su cui viene tessuto l'ordito e la trama della costruzione europea. Allo stesso tempo viene marginalizzato ogni momento espressione della partecipazione democratica. In definitiva dopo Maastricht prevale l'idea di ridurre la cittadinanza europea alla volontà dell'homo oeconomicus (3). Eppure il progetto europeo era nato con ben altre ambizioni, a partire da quella di porre fine, una volta per tutte, ai conflitti che nel XX secolo avevano insanguinato il continente (4).

Tuttavia, il primo trentennio di vita della Comunità europea consolida, anziché annullare, le prerogative dello Stato nazionale che si vede costretto, per rilegittimarsi sul piano nazionale, ‘a proiettarsi al di fuori delle proprie frontiere' (queste le parole dello storico britannico Alan Milward) per offrire il sostegno a quello che sarà chiamato ‘il compromesso socialdemocratico', ossia la creazione del cosiddetto ‘modello sociale europeo' (‘Dar da mangiare alla pecora per poi poterla tosare', come avrebbe detto il leader socialista svedese Olof Palme).

Uno studio recente di Alfredo D'Attorre ha colto il segno caratteristico di questa esperienza nella creazione di uno spazio giuridico europeo, frutto non dell'attività politico-legislativa ma dell'opera congiunta dell'iniziativa del mercato, dell'attività giurisdizionale della Corte di Giustizia e delle decisioni burocratico-amministrative prese dalle tecnostrutture europee. In realtà, sostiene D'Attorre, non ha senso contrapporre il dato economico al dato politico – come si è soliti fare in quest'ambito sostenendo che l'economia ha occupato lo spazio della politica - perché, nel momento in cui è diventata prassi comune l'intervento dello Stato nell'economia, il dato politico si sostanzia principalmente del dato economico (5).

Data dunque dall'inizio degli anni Novanta la progressiva perdita di consenso delle istituzioni europee nelle opinioni pubbliche nazionali. L'Europa, che fino ad allora era sempre stata considerata come la soluzione dei problemi, comincia ad essere vista, essa stessa come il problema. Dopo l'approvazione del trattato di Maastricht la forbice tra le istituzioni europee e i cittadini degli Stati membri si allarga sempre più. Si tenta allora di riconnettersi alle istanze che provengono dal basso attraverso l'approvazione di una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Con questo passo si cerca ricostituire un legame virtuoso che sembra perduto.

Purtroppo, però, la Carta dimostra di non essere all'altezza delle aspettative. In particolare i diritti sociali, ancora una volta, rimangono sullo sfondo e il testo è oggetto di numerose critiche che - a detta di molti osservatori - avrebbero potuto essere superate solo attraverso la scrittura di una autentica Costituzione europea (6).

Lo stesso trattato di Maastricht abbandona ogni prospettiva di unificazione federale, esplicita o celata, essendo finalizzato alla ‘realizzazione delle condizioni ottimali del mercato unico'.

È, nella sostanza, con questo armamentario ideologico e giuridico che l'Unione Europea si è trovata ad affrontare le due gravissime crisi finanziarie globali del 2008 e del 2011. Inutile, qui, ripercorrere le stazioni del calvario subito dalla Grecia tra il 2009 e il 2015. Ho trattato nel dettaglio le tappe di questo processo nel mio libro L'Europa tra luci e ombre e del ruolo che vi ha avuto (o meglio che non vi ha avuto) la sinistra europea (7).

L'adesione acritica al modello neoliberale da parte delle istituzioni europee aveva posto la sinistra – ugualmente irretita dal totem del mercato - di fronte a un bivio: rifiutare in blocco una situazione che sembrava irriformabile o, al contrario, analizzare con attenzione la realtà per poter intervenire, dove possibile, per restituire dignità al lavoro e spazio ai diritti sociali.

Alcuni autori hanno voluto vedere negli avvenimenti che si sono susseguiti dalla Brexit in avanti i segnali di un ritorno del ‘politico' nella misura in cui nuove istanze si sono affacciate per reclamare un livello di maggiore prossimità rispetto al luogo dove vengono assunte le decisioni nel modello della globalizzazione neoliberale.

Purtroppo questa sinistra non è stata finora capace di elaborare un'alternativa a questo tipo di governance europea. È stata necessaria la pandemia perché l'Europa prendesse pienamente coscienza dei suoi limiti e delle sue aporie: 1.400.000 morti per Covid in Europa hanno rischiarato le menti dei decisori o almeno così pare.

È apparsa per la prima volta all'orizzonte una prima forma di mutualizzazione del debito europeo. Il Piano Next Generation EU si finanzierà, infatti, tramite il ricorso al mercato nel reperimento dei fondi e sarà ripagato in gran parte mediante nuove tipologie di risorse proprie da parte della Commissione Europea, indirizzate in special modo, verso la transizione ecologica e digitale.

Al di là di giudizi sulla necessità o meno del ritorno a una sovranità nazionale necessaria quale unico terreno su cui finora è stato capace di svilupparsi il conflitto sociale – come sostenuto da una parte della sinistra più critica verso questo modello di Europa - o di valutazioni circa il sovranismo come segnale del fallimento della mediazione politica attraverso i canali tradizionali, una cosa sola ci sentiamo di affermare: per l'Europa è già trascorso anche il ‘momento opportuno', quello che i greci chiamavano il Kairos, ormai ci troviamo di fronte ad Ananke, la dea della necessità ineluttabile.

Grazie

  1. M. Ferrera, Post Europa, in «La Lettura, Corriere della Sera», 14 novembre 2021.
  2. D. Conti, C. Spagnolo, C. Vercelli, Nazismo, comunismo, antifascismo. Memorie e rimozioni d'Europa, Bari, Radici future, 2020.
  3. C. De Fiores, Il fallimento della Costituzione europea. Note a margine del Trattato di Lisbona, in Il fallimento della Costituzione europea. Note a margine del Trattato di Lisbona. | Costituzionalismo.it
  4. Per una lettura completamente diversa del processo d'integrazione europea, si veda M. Gilbert, La storicizzazione della storia dell'integrazione europea, in «Il mestiere di storico», XII / 2, 2020.
  5. A. D'Attorre, L'Europa e il ritorno del ‘politico'. Diritto e sovranità nel processo d'integrazione, Torino, Giappichelli, 2020.
  6. C. Pinelli, Il momento della scrittura. Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2002.
  7. A. Becherucci, L'Europa tra luci e ombre, Milano, Biblion, 2020.


Fonte: di ANDREA BECHERUCCI
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