EFFETTO TRUMP: COSA POTREBBE CAMBIARE? di Salvatore Rondello
di Salvatore Rondello
24-11-2024 - UNO SGUARDO SUL MONDO di Salvatore Rondello
Con la rielezione di Donald Trump a 47esimo presidente degli Stati Uniti, torna l'incubo dei dazi e delle guerre commerciali. In campagna elettorale, Trump ha promesso tariffe fino al 20% su tutte le importazioni europee se fosse stato rieletto. Una minaccia che pende come una spada di Damocle sul Vecchio Continente e soprattutto sull'Italia, considerando che gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco per il made in Italy, con un export che nel 2024 vale oltre 67 miliardi di euro.
Donald Trump ha compiuto un ritorno senza precedenti alla Casa Bianca, segnato da un contesto legale complesso. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un presidente eletto ha affrontato accuse penali, sollevando interrogativi su come la sua nuova carica potrà influenzare i procedimenti in corso. Attualmente, Trump è colpevole di 34 capi d'imputazione relativi a frodi aziendali e sta affrontando diversi altri processi legali sia penali che civili. A questo si aggiungono le molteplici indagini che potrebbero portare a ulteriori responsabilità, incluse accuse per tentativo di sovvertimento dei risultati elettorali e per la gestione impropria di documenti classificati.
Quando il 6 gennaio 2021 i suoi sostenitori prendevano d'assalto Capitol Hill a Washington chiedendo che non venisse riconosciuta la vittoria di Joe Biden arrivata alle urne nel novembre precedente, tutto ci si sarebbe aspettati tranne la rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Incriminato per l'assalto con l'accusa di aver cercato di rovesciare l'esito elettorale, ma anche accusato di aver cercato di non convalidare il risultato delle elezioni in Georgia, di aver conservato nella sua villa documenti riservati e di aver falsificato la destinazione di denaro per la campagna elettorale nell'ambito della vicenda legata alla pornostar Stormy Daniels, silenziato su tutti i principali social network, Donald Trump sembrava ormai arrivato al capolinea della sua carriera politica. Non è stato così.
In un Partito Repubblicano sempre più distante dei neo-con di bushiana memoria, il trumpismo, fenomeno troppo spesso ritratto in maniera folkloristica come uno scalmanato movimento di estremisti e cospirazionisti di vario genere, si è preso il principale partito del centrodestra d'Oltreoceano, ha sbaragliato letteralmente ogni concorrente alle primarie e ha giocato un vincente scacco al re, o meglio al presidente, alle ultime elezioni. Trump ha mostrato così di non essere un fenomeno di passaggio nella storia del Grand Old Party, ma di essere l'espressione di un sentimento all'interno del partito e dell'America e di avere un consenso più che radicato. La trasformazione repubblicana è stata ben evidente quando J.D. Vance, non un vice scelto per provare a bilanciare la figura di Trump come avvenuto nel 2016 con Mike Pence, ma chiara espressione del tycoon, si è presentato al mondo con un discorso che, se pronunciato un paio di decenni fa, lo avrebbe collocato in tutt'altra area politica. Una dura critica all'impegno militare all'estero, così come agli accordi commerciali come il Nafta, una difesa prima di tutto dei lavoratori, dei poveri, e di quell'America che ieri era la middle class motore del Paese e oggi si trova impoverita.
Se molti vedevano Trump fuori dai giochi, i fatti mostravano che invece non solo era nella partita, ma la stava combattendo con un'assoluta determinazione. E i democratici, forse anche per questo, si sono trovati spaesati. Non era in alcun modo chiaro se Joe Biden sarebbe davvero stato il candidato del Partito Democratico: il suo nome veniva cambiato in corsa scegliendo l'unica figura possibile che si può gettare nell'agone a pochi mesi dal voto come la vice Kamala Harris. Nel frattempo, Trump non si limitava a girare gli Stati in bilico, ma andava anche nella roccaforte democratica della California a poche settimane dal voto per provare a fare la differenza nei collegi della Camera in bilico, andava nella Virginia solidamente blu a cercare di farla diventare rossa contro ogni pronostico. Non ha voluto limitarsi a vincere, ma ha lavorato per una vittoria chiara che non si limitasse a portarlo alla Casa Bianca, ma gli consegnasse la cosiddetta “trifecta”, ovvero il controllo della presidenza e la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obiettivo centrato, ma non senza rischi. Poteva infatti finire come quando nel 2016 Hillary Clinton, convinta della vittoria, andava a cercare clamorosi successi in Stati fino a quel momento ostici per i democratici, col risultato non solo di non essere riuscita a vincerli, ma anche di aver perso le vecchie roccaforti del blue wall. Possiamo però dire che nel caso di Trump le cose sono andate diversamente.
Se nel 2016 Trump aveva vinto contro la maggior parte dei pronostici, però, stavolta la cosa è stata ben diversa, è stato un lavoro durato anni per provare a ottenere una vittoria in grado di dargli la massima operatività e provare a lasciare il segno. La chiarezza e la determinazione si sono scontrate dunque contro una campagna democratica che non solo ha dovuto affrontare la debolezza di un cambio di candidato in corsa, ma che su molti argomenti è rimasta apertamente generica, e tra la vaghezza e la determinazione in politica è più facile che sia quest'ultima ad avere la meglio, col rischio che la prima si trovi anche con alcune brutte sorprese.
Se i democratici hanno provato a fare il pieno soprattutto tra le minoranze, storicamente loro elettrici, stavolta si sono trovati diverse sorprese che la storia ci dirà se si tratti di un episodio a sé stante o qualcosa di più radicato nella società. Il caso più clamoroso in questo senso sono i latinos, che nelle recenti tornate hanno contribuito a trainare i risultati dei democratici, risultando determinanti in alcuni Stati in bilico e portando il partito dell'asinello a sognare che, grazie alla loro crescita demografica, potessero portare il Texas a diventare dopo tanti anni di dominio repubblicano un blue state.
I dati del 5 novembre, tuttavia, dicono che tra i latinos ha sì vinto Kamala Harris, ma solo con il 53 per cento, in netto calo rispetto al 65 ottenuto da Biden nel 2020, e Trump sia quindi andato molto meglio del previsto in questa fascia di popolazione, arrivando addirittura a conquistare la maggioranza tra i maschi di origine ispanica. Se da un lato hanno pesato elementi legati alla regolarizzazione e alle politiche sull'immigrazione, non può non essere considerato un graduale abbandono del voto identitario in favore di un voto legato alla condizione economica, che Trump ha saputo meglio intercettare, e che solo il tempo ci dirà se si sia trattato di un semplice giro di valzer o un fenomeno destinato a durare negli anni.
La risposta trumpiana in contrasto a una vaghezza dei democratici non lo porta solo a un risultato particolarmente alto tra gli ispanici, ma anche tra le donne (tra le bianche Trump ha vinto) e nella classe lavoratrice, segmenti che sono stati decisivi in tutte le ultime vittorie dei democratici alla Casa Bianca. Anche così, Trump ha proseguito quella rivoluzione elettorale, ben visibile anche in molti Paesi europei, che ha portato i democratici a essere più forti tra la popolazione più ricca e maggiormente istruita a discapito di quella meno abbiente e che non ha frequentato il college, rovesciando quello che era stato lo schema consolidato fino agli anni '90 ed ai primi 2000.
Il percorso politico che ha portato Trump dall'angolo in cui era finito dopo Capitol Hill alla vittoria del 5 novembre non è stato un percorso inevitabile, così come il consenso che ha ottenuto alle presidenziali non è stato inevitabile. Gli errori dei democratici sono stati diversi e su vari fronti, ma il più grande forse è stato aver pensato, o forse sperato, che Trump fosse ormai fuori gioco, non accorgendosi però che era ancora in campo e ancora più determinato di prima, al punto da aver dato una nuova forma al Partito Repubblicano.
Trump stavolta non ha guardiani messi lì dai notabili del partito a cercare di accompagnarlo ed eventualmente fargli correggere il tiro: dalla scelta di J.D. Vance come numero due, qualcosa che suona anche come un'indicazione per il futuro da parte del 78enne Trump, all'inclusione a pieno titolo nella campagna e nella nascente squadra di governo di Elon Musk, fino all'accordo con un candidato fuori dagli schemi tradizionali, ritiratosi proprio per sostenere il Tycoon, come Robert Kennedy Jr., questa campagna e questa vittoria repubblicane sembrano essere a tutti gli effetti a immagine e somiglianza di Donald Trump. E mentre in Europa ci chiediamo soprattutto cosa aspettarci sui dazi, sul Medio Oriente, sull'Ucraina e sul clima, aspettiamo di capire se ora che è stato rieletto avrà dei nuovi emuli nel Vecchio continente, oggi più che mai dobbiamo ricordarci un aspetto fondamentale della sua prima esperienza da presidente e che potrebbe essere ancora più evidente nella seconda: con Donald Trump alla Casa Bianca, in un senso o nell'altro, c'è da aspettarsi di tutto. Ci sarebbe anche da chiedersi se gli statunitensi hanno una mentalità prevalentemente maschilista, tenuto conto che Trump ha vinto le elezioni quando ha avuto per rivali due candidate donne del Partito Democratico (prima Hillary Clinton e adesso Kamala Harris).
La rielezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti di America ha colpito molto l'attenzione anche per il ruolo che di fatto e di diritto sembra destinato ad assumere Elon Musk nel corso del futuro quadriennio “trumpiano” alla Casa Bianca.
L'uomo forte di questo nuovo quadriennio sarebbe Elon Musk, che avrebbe in mano i poteri per il controllo della Nasa. Non solo, avrebbe anche una forte influenza attraverso l'uso ed il possesso delle nuove tecnologie per l'intelligenza artificiale e sui mezzi di comunicazione virtuali attraverso la rete digitale. Questo suo potere megagalattico metterebbe in crisi anche l'entrata in vigore e gli effetti dello “AI Act” approvato dall'Unione europea.
Con gli effetti di “AI Act”, l'intelligenza artificiale non potrebbe espandersi nell'Unione Europea come invece avviene e avverrà in altre zone del globo.
Del rischio che l'intelligenza artificiale (che per alcuni aspetti potremmo definire negligenza artificiale) non possa avere adeguata espansione in UE proprio a causa della iper-regolazione europea parla anche esplicitamente il rapporto Draghi e, soprattutto, perché il tema nasce dalla pretesa, assolutamente centrale per l'UE, di garantire che ogni evoluzione delle nuove tecnologie digitali salvaguardi i diritti legati alla regolazione già in vigore e soprattutto quelli legati appunto alla tutela dei dati personali visti come diritti essenziali di libertà per i cittadini europei e, dunque, da tutelare sempre con particolare attenzione. Nonostante giuste prese di posizione, ci troviamo di fronte ad una questione che nasce dall'intrecciarsi di più aspetti che meritano di essere tenuti tutti in debita considerazione.
Il primo e più importante aspetto è quello sulla tutela della privacy per i dati personali che potrebbero essere violati sistematicamente senza che la vittima possa accorgersene e difendersi tempestivamente.
Di fronte a questi problemi essenziali che riguardano le libertà personali e i diritti democratici dei cittadini, manca una normativa globalizzata ed una autorità che possa essere in grado di governarli efficacemente. In assenza di tutto ciò, e con i nuovi personaggi antidemocratici entrati imperiosamente nell'elite dei più potenti al mondo dopo le elezioni negli Stati Uniti d'America, ci troviamo alla vigilia dell'inizio di una nuova forma di dittatura globalizzata in cui la nuova politica trumpiana darebbe un forte impulso realizzativo.
Tuttavia, se tutto questo è vero, è evidente anche che l'UE non può restare indietro né sul piano regolatorio né su quello dell'uso delle tecnologie ma deve promuovere con efficacia un quadro di piena fiducia da parte dei cittadini sul loro uso ed i loro effetti.
Questo, del resto, è quanto il rapporto Draghi ha affermato rispetto alle prese di posizione dei grandi fornitori di sistemi di intelligenza artificiale per tutelare i loro spazi di impresa.
Quello che è sicuro è che si tratta di punti essenziali perché riguarda davvero il futuro della UE e soprattutto il futuro della società umana.
Tutto questo avviene in uno scenario geopolitico dominato dalla barbarie delle guerre dove le uniche certezze sono distruzione e morte. I traguardi di pace sono ben lontani e non si raggiungono con atti unilaterali, ma con accordi diplomatici plurilaterali che vanno rispettati. Anche in questo purtroppo c'è un limite dovuto all'assenza di un'autorità sovranazionale abbastanza autorevole per garantire il rispetto degli accordi di pace.
Rispetto ai pericoli emergenti dal ritorno di Donald Trump al poter, non si intravede una strategia globale dei movimenti tradizionalmente libertari, pacifisti e socialisti in grado di contrastare l'avanzata sempre più imperiosa di un cambiamento verso un mondo dittatoriale dominato da pochi grandi capitalisti che sono i veri burattinai dei politicanti di turno prestati alla politica. Tuttavia ritengo doveroso un appello agli uomini di buona volontà a preparare una alternativa politica per un mondo migliore dove la realizzazione della democrazia economica è di fondamentale importanza.
Donald Trump ha compiuto un ritorno senza precedenti alla Casa Bianca, segnato da un contesto legale complesso. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un presidente eletto ha affrontato accuse penali, sollevando interrogativi su come la sua nuova carica potrà influenzare i procedimenti in corso. Attualmente, Trump è colpevole di 34 capi d'imputazione relativi a frodi aziendali e sta affrontando diversi altri processi legali sia penali che civili. A questo si aggiungono le molteplici indagini che potrebbero portare a ulteriori responsabilità, incluse accuse per tentativo di sovvertimento dei risultati elettorali e per la gestione impropria di documenti classificati.
Quando il 6 gennaio 2021 i suoi sostenitori prendevano d'assalto Capitol Hill a Washington chiedendo che non venisse riconosciuta la vittoria di Joe Biden arrivata alle urne nel novembre precedente, tutto ci si sarebbe aspettati tranne la rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Incriminato per l'assalto con l'accusa di aver cercato di rovesciare l'esito elettorale, ma anche accusato di aver cercato di non convalidare il risultato delle elezioni in Georgia, di aver conservato nella sua villa documenti riservati e di aver falsificato la destinazione di denaro per la campagna elettorale nell'ambito della vicenda legata alla pornostar Stormy Daniels, silenziato su tutti i principali social network, Donald Trump sembrava ormai arrivato al capolinea della sua carriera politica. Non è stato così.
In un Partito Repubblicano sempre più distante dei neo-con di bushiana memoria, il trumpismo, fenomeno troppo spesso ritratto in maniera folkloristica come uno scalmanato movimento di estremisti e cospirazionisti di vario genere, si è preso il principale partito del centrodestra d'Oltreoceano, ha sbaragliato letteralmente ogni concorrente alle primarie e ha giocato un vincente scacco al re, o meglio al presidente, alle ultime elezioni. Trump ha mostrato così di non essere un fenomeno di passaggio nella storia del Grand Old Party, ma di essere l'espressione di un sentimento all'interno del partito e dell'America e di avere un consenso più che radicato. La trasformazione repubblicana è stata ben evidente quando J.D. Vance, non un vice scelto per provare a bilanciare la figura di Trump come avvenuto nel 2016 con Mike Pence, ma chiara espressione del tycoon, si è presentato al mondo con un discorso che, se pronunciato un paio di decenni fa, lo avrebbe collocato in tutt'altra area politica. Una dura critica all'impegno militare all'estero, così come agli accordi commerciali come il Nafta, una difesa prima di tutto dei lavoratori, dei poveri, e di quell'America che ieri era la middle class motore del Paese e oggi si trova impoverita.
Se molti vedevano Trump fuori dai giochi, i fatti mostravano che invece non solo era nella partita, ma la stava combattendo con un'assoluta determinazione. E i democratici, forse anche per questo, si sono trovati spaesati. Non era in alcun modo chiaro se Joe Biden sarebbe davvero stato il candidato del Partito Democratico: il suo nome veniva cambiato in corsa scegliendo l'unica figura possibile che si può gettare nell'agone a pochi mesi dal voto come la vice Kamala Harris. Nel frattempo, Trump non si limitava a girare gli Stati in bilico, ma andava anche nella roccaforte democratica della California a poche settimane dal voto per provare a fare la differenza nei collegi della Camera in bilico, andava nella Virginia solidamente blu a cercare di farla diventare rossa contro ogni pronostico. Non ha voluto limitarsi a vincere, ma ha lavorato per una vittoria chiara che non si limitasse a portarlo alla Casa Bianca, ma gli consegnasse la cosiddetta “trifecta”, ovvero il controllo della presidenza e la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obiettivo centrato, ma non senza rischi. Poteva infatti finire come quando nel 2016 Hillary Clinton, convinta della vittoria, andava a cercare clamorosi successi in Stati fino a quel momento ostici per i democratici, col risultato non solo di non essere riuscita a vincerli, ma anche di aver perso le vecchie roccaforti del blue wall. Possiamo però dire che nel caso di Trump le cose sono andate diversamente.
Se nel 2016 Trump aveva vinto contro la maggior parte dei pronostici, però, stavolta la cosa è stata ben diversa, è stato un lavoro durato anni per provare a ottenere una vittoria in grado di dargli la massima operatività e provare a lasciare il segno. La chiarezza e la determinazione si sono scontrate dunque contro una campagna democratica che non solo ha dovuto affrontare la debolezza di un cambio di candidato in corsa, ma che su molti argomenti è rimasta apertamente generica, e tra la vaghezza e la determinazione in politica è più facile che sia quest'ultima ad avere la meglio, col rischio che la prima si trovi anche con alcune brutte sorprese.
Se i democratici hanno provato a fare il pieno soprattutto tra le minoranze, storicamente loro elettrici, stavolta si sono trovati diverse sorprese che la storia ci dirà se si tratti di un episodio a sé stante o qualcosa di più radicato nella società. Il caso più clamoroso in questo senso sono i latinos, che nelle recenti tornate hanno contribuito a trainare i risultati dei democratici, risultando determinanti in alcuni Stati in bilico e portando il partito dell'asinello a sognare che, grazie alla loro crescita demografica, potessero portare il Texas a diventare dopo tanti anni di dominio repubblicano un blue state.
I dati del 5 novembre, tuttavia, dicono che tra i latinos ha sì vinto Kamala Harris, ma solo con il 53 per cento, in netto calo rispetto al 65 ottenuto da Biden nel 2020, e Trump sia quindi andato molto meglio del previsto in questa fascia di popolazione, arrivando addirittura a conquistare la maggioranza tra i maschi di origine ispanica. Se da un lato hanno pesato elementi legati alla regolarizzazione e alle politiche sull'immigrazione, non può non essere considerato un graduale abbandono del voto identitario in favore di un voto legato alla condizione economica, che Trump ha saputo meglio intercettare, e che solo il tempo ci dirà se si sia trattato di un semplice giro di valzer o un fenomeno destinato a durare negli anni.
La risposta trumpiana in contrasto a una vaghezza dei democratici non lo porta solo a un risultato particolarmente alto tra gli ispanici, ma anche tra le donne (tra le bianche Trump ha vinto) e nella classe lavoratrice, segmenti che sono stati decisivi in tutte le ultime vittorie dei democratici alla Casa Bianca. Anche così, Trump ha proseguito quella rivoluzione elettorale, ben visibile anche in molti Paesi europei, che ha portato i democratici a essere più forti tra la popolazione più ricca e maggiormente istruita a discapito di quella meno abbiente e che non ha frequentato il college, rovesciando quello che era stato lo schema consolidato fino agli anni '90 ed ai primi 2000.
Il percorso politico che ha portato Trump dall'angolo in cui era finito dopo Capitol Hill alla vittoria del 5 novembre non è stato un percorso inevitabile, così come il consenso che ha ottenuto alle presidenziali non è stato inevitabile. Gli errori dei democratici sono stati diversi e su vari fronti, ma il più grande forse è stato aver pensato, o forse sperato, che Trump fosse ormai fuori gioco, non accorgendosi però che era ancora in campo e ancora più determinato di prima, al punto da aver dato una nuova forma al Partito Repubblicano.
Trump stavolta non ha guardiani messi lì dai notabili del partito a cercare di accompagnarlo ed eventualmente fargli correggere il tiro: dalla scelta di J.D. Vance come numero due, qualcosa che suona anche come un'indicazione per il futuro da parte del 78enne Trump, all'inclusione a pieno titolo nella campagna e nella nascente squadra di governo di Elon Musk, fino all'accordo con un candidato fuori dagli schemi tradizionali, ritiratosi proprio per sostenere il Tycoon, come Robert Kennedy Jr., questa campagna e questa vittoria repubblicane sembrano essere a tutti gli effetti a immagine e somiglianza di Donald Trump. E mentre in Europa ci chiediamo soprattutto cosa aspettarci sui dazi, sul Medio Oriente, sull'Ucraina e sul clima, aspettiamo di capire se ora che è stato rieletto avrà dei nuovi emuli nel Vecchio continente, oggi più che mai dobbiamo ricordarci un aspetto fondamentale della sua prima esperienza da presidente e che potrebbe essere ancora più evidente nella seconda: con Donald Trump alla Casa Bianca, in un senso o nell'altro, c'è da aspettarsi di tutto. Ci sarebbe anche da chiedersi se gli statunitensi hanno una mentalità prevalentemente maschilista, tenuto conto che Trump ha vinto le elezioni quando ha avuto per rivali due candidate donne del Partito Democratico (prima Hillary Clinton e adesso Kamala Harris).
La rielezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti di America ha colpito molto l'attenzione anche per il ruolo che di fatto e di diritto sembra destinato ad assumere Elon Musk nel corso del futuro quadriennio “trumpiano” alla Casa Bianca.
L'uomo forte di questo nuovo quadriennio sarebbe Elon Musk, che avrebbe in mano i poteri per il controllo della Nasa. Non solo, avrebbe anche una forte influenza attraverso l'uso ed il possesso delle nuove tecnologie per l'intelligenza artificiale e sui mezzi di comunicazione virtuali attraverso la rete digitale. Questo suo potere megagalattico metterebbe in crisi anche l'entrata in vigore e gli effetti dello “AI Act” approvato dall'Unione europea.
Con gli effetti di “AI Act”, l'intelligenza artificiale non potrebbe espandersi nell'Unione Europea come invece avviene e avverrà in altre zone del globo.
Del rischio che l'intelligenza artificiale (che per alcuni aspetti potremmo definire negligenza artificiale) non possa avere adeguata espansione in UE proprio a causa della iper-regolazione europea parla anche esplicitamente il rapporto Draghi e, soprattutto, perché il tema nasce dalla pretesa, assolutamente centrale per l'UE, di garantire che ogni evoluzione delle nuove tecnologie digitali salvaguardi i diritti legati alla regolazione già in vigore e soprattutto quelli legati appunto alla tutela dei dati personali visti come diritti essenziali di libertà per i cittadini europei e, dunque, da tutelare sempre con particolare attenzione. Nonostante giuste prese di posizione, ci troviamo di fronte ad una questione che nasce dall'intrecciarsi di più aspetti che meritano di essere tenuti tutti in debita considerazione.
Il primo e più importante aspetto è quello sulla tutela della privacy per i dati personali che potrebbero essere violati sistematicamente senza che la vittima possa accorgersene e difendersi tempestivamente.
Di fronte a questi problemi essenziali che riguardano le libertà personali e i diritti democratici dei cittadini, manca una normativa globalizzata ed una autorità che possa essere in grado di governarli efficacemente. In assenza di tutto ciò, e con i nuovi personaggi antidemocratici entrati imperiosamente nell'elite dei più potenti al mondo dopo le elezioni negli Stati Uniti d'America, ci troviamo alla vigilia dell'inizio di una nuova forma di dittatura globalizzata in cui la nuova politica trumpiana darebbe un forte impulso realizzativo.
Tuttavia, se tutto questo è vero, è evidente anche che l'UE non può restare indietro né sul piano regolatorio né su quello dell'uso delle tecnologie ma deve promuovere con efficacia un quadro di piena fiducia da parte dei cittadini sul loro uso ed i loro effetti.
Questo, del resto, è quanto il rapporto Draghi ha affermato rispetto alle prese di posizione dei grandi fornitori di sistemi di intelligenza artificiale per tutelare i loro spazi di impresa.
Quello che è sicuro è che si tratta di punti essenziali perché riguarda davvero il futuro della UE e soprattutto il futuro della società umana.
Tutto questo avviene in uno scenario geopolitico dominato dalla barbarie delle guerre dove le uniche certezze sono distruzione e morte. I traguardi di pace sono ben lontani e non si raggiungono con atti unilaterali, ma con accordi diplomatici plurilaterali che vanno rispettati. Anche in questo purtroppo c'è un limite dovuto all'assenza di un'autorità sovranazionale abbastanza autorevole per garantire il rispetto degli accordi di pace.
Rispetto ai pericoli emergenti dal ritorno di Donald Trump al poter, non si intravede una strategia globale dei movimenti tradizionalmente libertari, pacifisti e socialisti in grado di contrastare l'avanzata sempre più imperiosa di un cambiamento verso un mondo dittatoriale dominato da pochi grandi capitalisti che sono i veri burattinai dei politicanti di turno prestati alla politica. Tuttavia ritengo doveroso un appello agli uomini di buona volontà a preparare una alternativa politica per un mondo migliore dove la realizzazione della democrazia economica è di fondamentale importanza.
Fonte: di Salvatore Rondello