"ATTUALITA' DELL'ANTIFASCISMO E DEL MERIDIONALISMO DI TOMMASO FIORE (a mezzo secolo dalla sua scomparsa)"
26-06-2023 - CRONACHE SOCIALISTE
Il 4 giugno scorso cadeva il 50.o anniversario della scomparsa di Tommaso Fiore, autorevole intellettuale e politico meridionalista e antifascista pugliese, amico e allievo di Salvemini. L'anniversario può essere l'occasione per ripercorrere il suo pensiero e il suo contributo alla lotta antifascista nel e per il Sud che, per certi aspetti, presenta sorprendenti tratti di originalità e di attualità. Allievo di Salvemini - si è detto - e del suo maestro il nostro conservò e sviluppò l'analisi originale del fenomeno fascista nel Meridione, collocandolo in continuità con il cd. giolittismo, ossia con i fenomeni di familismo amorale, di corruzione e di complessivo degrado della società civile, con l'aggiunta della sistematica aggressione violenta contro gli oppositori, tutti elementi che – Fiore e Salvemini lo hanno sempre sottolineato – nel Meridione preesistevano al Fascismo.
Il contributo di Fiore alla lotta antifascista e meridionalista appare però peculiare anche rispetto a quello di Salvemini. Quest'ultimo, infatti, si allontanò ben presto fisicamente dal Sud, dapprima seguendo i suoi studi e la sua carriera accademica e successivamente in forzato esilio in Inghilterra e negli USA; Fiore rimase invece sempre pienamente inserito nel contesto socio-politico della sua Puglia natia e fu testimone diretto (e vittima) di tutti i tumultuosi eventi socio-politici del Novecento che la attraversarono. La sua testimonianza e la sua analisi risultano pertanto preziose per comprendere come si manifestarono e come incisero nella specifica realtà meridionale quei complessi fenomeni. In particolare, la sua testimonianza risulta preziosa per comprendere in quale humus affondarono le radici del fascismo in Puglia, quale substrato culturale ne costituì il brodo di coltura.
Il contributo originale offerto da Tommaso Fiore al movimento antifascista e al pensiero meridionalistico è ormai unanimemente riconosciuto, come ha evidenziato Ferdinando Pappalardo in un bell'articolo articolo apparso qualche mese fa su Repubblica Bari dove ha opportunamente sottolineato che “i due piani vanno strettamente coniugati, perché in lui la ribellione alla dittatura s'intreccia inestricabilmente con la battaglia per il riscatto del Mezzogiorno” [1] .
Il presupposto da cui parte Fiore, lo stesso sostanzialmente di Salvemini, è che “la tragedia del Mezzogiorno (ecco che la storia di ieri si colora dei problemi di oggi) è di non aver potuto mai spezzare il cerchio di corruttela che lo soffoca”[2]. E, nel 1963, egli scriveva ancora: “Si sa che il Fascismo è nato nel Nord e uomini del Nord lo hanno portato nel Parlamento. Da noi quello che vige è il secolare borbonismo, un disinteresse alla cosa pubblica, un adattarsi ed accettar tutto, per ragioni di tranquillità”. E aggiungeva amaramente: “anche oggi questo stato di cose è tutt'altro che debellato.”[3]
In un saggio del 1962 pubblicato da Mondoperaio, egli affronta specificamente il tema delle origini del Fascismo in Puglia. “Noi in Puglia non possiamo dimenticare che questa tradizione di levar di mezzo i propri avversari politici era antica almeno quanto le elezioni nel Mezzogiorno, dal 1860 in poi, …. Se ne ricordò il Salvemini, entrando in Parlamento, allorché il 16 dicembre 1920 ebbe a interpellare i suoi ex compagni: ‘O amici del gruppo socialista, tra il 1902 e il 1913, quando io cercavo – ero solo allora – di richiamare l'attenzione di uomini d'onore e di fede dell'Italia Settentrionale e Centrale sulle infamie che avvenivano fra di noi, io sentivo molte volte rispondermi: - Queste cose non avvengono da noi! – E io replicavo: - Badate, che se voi lasciate consolidare questo sistema fra noi, esso si estenderà anche fra voi. I fatti mi hanno dato ragione'.” [4]
In un articolo del 1923, Fiore aveva ancor più chiaramente denunciato: (erano) “travestiti da fascisti, gli stessi ceti, gli stessi uomini che nell'età giolittiana avevano fatte le elezioni coi mazzieri, rapinati i comuni, sfruttati i contadini; gli stessi tipi sociali e umani, spesso le stesse persone fisiche, che Salvemini per un ventennio aveva bollato d'infamia”[5].
In un altro articolo, sempre dello stesso anno, il suo giudizio sullo stato della società civile meridionale, così come destabilizzata da secoli di “borbonismo” e decenni di giolittismo, è davvero impietoso: “nel Mezzogiorno non è possibile vita politica né costituzione di partiti perché vi manca l'organizzazione di grandi interessi collettivi: i pochi individui che in ogni cittadina fanno la politica si occupano degl'interessi personali di poche famiglie dominanti, dei capi parte, dei vari elettori, ne aiutano i figli negli studi e nelle carriere amministrative, danno loro i posti nel Comune e nelle poche aziende pubbliche, diminuiscono loro le tasse, li aiutano negli appalti dei servizi pubblici, e sono impossibilitati, anche volendo, a fare una politica di idee e d'interessi generali, chè parlerebbero a sordi.”[6]
È questo forse il contributo principale di Fiore (e di Salvemini) all'analisi del fenomeno fascista. Egli parla di “pre-fascismo”[7], intendendo quel clima di corruzione, clientelismo e violenza che talvolta si afferma prepotentemente nelle società occidentali e che favorisce inevitabilmente (o quasi) l'avvento di fenomeni autoritari. Nei suoi scritti successivi, Fiore sottolinea con forza che la mala pianta del pre-fascismo in Italia non è mai stata davvero divelta. Una mala pianta che, secondo Fiore non ha radici solo in Italia bensì, in misura e con caratteristiche diverse, in tutta Europa. Dopo la caduta del Fascismo egli vedeva la malapianta rinverdirsi nei metodi repressivi di Scelba e nella persecuzione dei comunisti nel mondo. Ma egli, nel descriverla, non pone mai solo l'accento sulla violenza o sulla sopraffazione, ma anche sulla corruzione che, in fondo, è una forma più sottile di violenza perché colpisce le coscienze.
Ed è qui l'assoluta attualità del messaggio di Fiore. Sotto questo profilo, durissimo è il suo giudizio sulla borghesia intellettuale del Sud quando prende a prestito le parole di Salvemini: “I piccoli borghesi intellettuali del Sud sono quasi tutti scemi e ladri … Fonda una lega di contadini e subito avrai un avvocato, che diventa segretario, e che si mangia i soldi, e ripete a pappagallo tutte le corbellerie che legge nei giornali del Nord, purché siano giornali di partito, cioè che portino quella data testata che è per essi legge indiscutibile”[8] , ed aggiunge di suo: “Questo è il problema che ci sta dinanzi. Che valore ha dunque la nostra cultura dagl'inizi del secolo alla caduta del Fascismo? … Anche oggi questo stato di cose è tutt'altro che debellato”[9].
Un altro rilevante aspetto della straordinaria attualità dell'antifascismo di Fiore si esprime nella sua costante sottolineatura della necessità di costruire, contro il Fascismo, un'alleanza fra operai, contadini e piccola borghesia, il cd. blocco storico allargato [10] per arginare la marea montante dello squadrismo.
Un'opzione che trovò riscontro anche nella sua breve esperienza di politica attiva, tutta intrisa del suo originario “combattentismo democratico”, quale sindaco della natia Altamura, alla guida di una giunta che comprendeva anche esponenti della borghesia agraria [11]. Di qui anche l'idea del “partito di popolo” e non di classe, agente delle forze sociali in un blocco alternativo nell'ambito di un progetto di “rivoluzione democratica” in chiave autonomista e regionalista [12].
Carlo Rosselli nel 1926 scriveva che Fiore era “forse il solo, fra noi, a conoscere bene il problema meridionale e quindi i problemi agrari del Sud” e lo invitava a collaborare con “Quarto Stato”, rivista fondata dallo stesso Rosselli e da Pietro Nenni, affidandogli la direzione della tematica meridionalista [13].
Tommaso Fiore fu tra i pochi intellettuali a non “prendere la tessera” senza peraltro allontanarsi dal suo territorio; il suo fu un antifascismo vissuto e patito sulla propria pelle, con pesanti ripercussioni sulla sua professione e sul suo tenore di vita (la sospensione dall'insegnamento per attività sovversiva all'indomani dell'assassinio di Matteotti; poi, durante la seconda guerra mondiale, la condanna al confino e successivamente, alla reclusione). Subì anche gravi lutti: in una straziante coincidenza, proprio nel giorno stesso della sua scarcerazione (il 28 luglio 1943), il figlio Graziano cadeva sotto il fuoco delle truppe badogliane a Bari.
Il suo percorso politico, si sviluppò partendo dal combattentismo democratico, passando per il liberalismo rivoluzionario di Gobetti, continuando sulla via del socialismo liberale di Carlo Rosselli, cui seguirà l'adesione a Giustizia e Libertà e al Partito d'Azione; infine, l'iscrizione al Partito Socialista Italiano: un percorso contrastato ma coerente. “Per Fiore il partito politico non era una chiesa e neppure una caserma, ma lo strumento attraverso cui realizzare i valori in cui fermamente credeva. Il suo spirito libertario, la sua autonomia intellettuale erano radicalmente incompatibili con qualsiasi forma di dogmatismo”; cosi ha, ancora, mirabilmente, scritto di lui Pappalardo [14]. E, in precedenza, altri aveva altrettanto efficacemente sottolineato: “Le asprezze dialettiche che dividono socialisti e comunisti … non lo sfiorano … Fiore è tutto immerso nei problemi del popolo tradito, la società debole del Sud, fuori dall'ottica classista. Vede uomini e donne che patiscono ingiustizie e sogna il riscatto più che la conquista del potere” [15]
Fu comunque fra i teorici del Liberalsocialismo e il leader indiscusso degli antifascisti baresi, svolgendo un ruolo rilevante nel Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale tenutosi a Bari nel gennaio 1944.
In tutto l'arco della sua vita, non mancò di far sentire la propria voce ogni volta che intravide tendenze involutive e rigurgiti reazionari che potevano mettere in pericolo la democrazia; continuò anche ad analizzare lucidamente le trasformazioni della società meridionale e pugliese in particolare, denunciandone instancabilmente le ataviche piaghe.
È stato efficacemente definito uno “storico sociale”. C'era infatti in lui “un'apertura spregiudicata ai caratteri della realtà pugliese, alla documentazione minuta che appare frutto dell'interesse specifico che ha per la concretezza dei particolari un uomo politico continuamente spinto ad analizzare le condizioni presenti per costruire ipotesi eventuali di intervento” [16]. In particolare, il ricco epistolario del periodo 1910-1931 [17] testimonia l'ampiezza di vedute e il metodo storiografico con cui intraprese tante ricerche, sempre allo scopo di indagare con maggiore profondità gli ancestrali problemi irrisolti della società pugliese e meridionale [18] . Alludendo al suo rientro dalla guerra e alla sua professione di insegnante, scrisse il 25 settembre del 1923 ad Augusto Monti: “Qualunque altro si sarebbe buttato nella pratica dello scrivere, per imparare il mestiere: io, invece, imparai a parlare il dialetto, mi feci cafone fra i cafoni” [19].
Significativo e incisivo fu anche il suo contributo alla rivalutazione delle tradizioni popolari e folkloristiche pugliesi e all'adeguamento dei programmi didattici della scuola statale per ancorarla alle variegate realtà del territorio che fu al centro di un convegno che si svolse a Bari nel 1921 su iniziativa della sezione barese della Società Umanitaria di Milano [20].
Infine, la sua fiducia nella capacità della cultura di farsi impegno civile e di incidere sui processi di trasformazione della società meridionale e di emancipazione dei suoi cafoni, viene espresso con particolare efficacia nella terza opera della sua trilogia nella quale impegno culturale, ricostruzione storica e impegno sociale appaiono indissolubilmente connessi. Ne sono ammirevole testimonianza le calorose parole che egli, in quell'opera, dedica all'amico leader sindacale, simbolo del destarsi del proletariato agricolo pugliese: “Colui che più di tutti operò per ridurre a cittadini i selvaggi di Puglia, fu Peppino Di Vittorio che, con piena coscienza, ha fatto, per la redenzione del proletariato italiano e mondiale e per l'avanzamento di tutto il vivere civile” [21]
Di questo meridionalismo e antifascismo (in Fiore sempre indissolubilmente legati) oggi sia il nostro Sud che l'intera Italia avrebbero estremo bisogno; in un'epoca in cui l'unità nazionale è messa a repentaglio da improvvidi tentativi di depauperare ancora di più le competenze dello Stato centrale in funzione di un regionalismo che mira a favorire e valorizzare solo le ragioni di un nord già ricco ed evoluto a tutto discapito di un sud condannato a essere ancor più negletto. Un regionalismo però lontanissimo, opposto a quello propugnato da Tommaso Fiore, che ne teorizzava una forma “solidale”, diretta discendenza del pensiero di Carlo Cattaneo. Un tentativo di secessione tacita verso il quale il Sud oggi non sembra essere in grado di reagire, poiché la crisi dei partiti di massa e della loro azione rigeneratrice, sta facendo prepotentemente riemergere i vecchi fantasmi della corruzione e del familismo amorale di cui si nutrirono il borbonismo, il giolittismo e il fascismo; fantasmi che oltre settant'anni di dialettica democratica non sono evidentemente riusciti ad estirpare e che ne indeboliscono la coscienza civile.
Il contributo di Fiore alla lotta antifascista e meridionalista appare però peculiare anche rispetto a quello di Salvemini. Quest'ultimo, infatti, si allontanò ben presto fisicamente dal Sud, dapprima seguendo i suoi studi e la sua carriera accademica e successivamente in forzato esilio in Inghilterra e negli USA; Fiore rimase invece sempre pienamente inserito nel contesto socio-politico della sua Puglia natia e fu testimone diretto (e vittima) di tutti i tumultuosi eventi socio-politici del Novecento che la attraversarono. La sua testimonianza e la sua analisi risultano pertanto preziose per comprendere come si manifestarono e come incisero nella specifica realtà meridionale quei complessi fenomeni. In particolare, la sua testimonianza risulta preziosa per comprendere in quale humus affondarono le radici del fascismo in Puglia, quale substrato culturale ne costituì il brodo di coltura.
Il contributo originale offerto da Tommaso Fiore al movimento antifascista e al pensiero meridionalistico è ormai unanimemente riconosciuto, come ha evidenziato Ferdinando Pappalardo in un bell'articolo articolo apparso qualche mese fa su Repubblica Bari dove ha opportunamente sottolineato che “i due piani vanno strettamente coniugati, perché in lui la ribellione alla dittatura s'intreccia inestricabilmente con la battaglia per il riscatto del Mezzogiorno” [1] .
Il presupposto da cui parte Fiore, lo stesso sostanzialmente di Salvemini, è che “la tragedia del Mezzogiorno (ecco che la storia di ieri si colora dei problemi di oggi) è di non aver potuto mai spezzare il cerchio di corruttela che lo soffoca”[2]. E, nel 1963, egli scriveva ancora: “Si sa che il Fascismo è nato nel Nord e uomini del Nord lo hanno portato nel Parlamento. Da noi quello che vige è il secolare borbonismo, un disinteresse alla cosa pubblica, un adattarsi ed accettar tutto, per ragioni di tranquillità”. E aggiungeva amaramente: “anche oggi questo stato di cose è tutt'altro che debellato.”[3]
In un saggio del 1962 pubblicato da Mondoperaio, egli affronta specificamente il tema delle origini del Fascismo in Puglia. “Noi in Puglia non possiamo dimenticare che questa tradizione di levar di mezzo i propri avversari politici era antica almeno quanto le elezioni nel Mezzogiorno, dal 1860 in poi, …. Se ne ricordò il Salvemini, entrando in Parlamento, allorché il 16 dicembre 1920 ebbe a interpellare i suoi ex compagni: ‘O amici del gruppo socialista, tra il 1902 e il 1913, quando io cercavo – ero solo allora – di richiamare l'attenzione di uomini d'onore e di fede dell'Italia Settentrionale e Centrale sulle infamie che avvenivano fra di noi, io sentivo molte volte rispondermi: - Queste cose non avvengono da noi! – E io replicavo: - Badate, che se voi lasciate consolidare questo sistema fra noi, esso si estenderà anche fra voi. I fatti mi hanno dato ragione'.” [4]
In un articolo del 1923, Fiore aveva ancor più chiaramente denunciato: (erano) “travestiti da fascisti, gli stessi ceti, gli stessi uomini che nell'età giolittiana avevano fatte le elezioni coi mazzieri, rapinati i comuni, sfruttati i contadini; gli stessi tipi sociali e umani, spesso le stesse persone fisiche, che Salvemini per un ventennio aveva bollato d'infamia”[5].
In un altro articolo, sempre dello stesso anno, il suo giudizio sullo stato della società civile meridionale, così come destabilizzata da secoli di “borbonismo” e decenni di giolittismo, è davvero impietoso: “nel Mezzogiorno non è possibile vita politica né costituzione di partiti perché vi manca l'organizzazione di grandi interessi collettivi: i pochi individui che in ogni cittadina fanno la politica si occupano degl'interessi personali di poche famiglie dominanti, dei capi parte, dei vari elettori, ne aiutano i figli negli studi e nelle carriere amministrative, danno loro i posti nel Comune e nelle poche aziende pubbliche, diminuiscono loro le tasse, li aiutano negli appalti dei servizi pubblici, e sono impossibilitati, anche volendo, a fare una politica di idee e d'interessi generali, chè parlerebbero a sordi.”[6]
È questo forse il contributo principale di Fiore (e di Salvemini) all'analisi del fenomeno fascista. Egli parla di “pre-fascismo”[7], intendendo quel clima di corruzione, clientelismo e violenza che talvolta si afferma prepotentemente nelle società occidentali e che favorisce inevitabilmente (o quasi) l'avvento di fenomeni autoritari. Nei suoi scritti successivi, Fiore sottolinea con forza che la mala pianta del pre-fascismo in Italia non è mai stata davvero divelta. Una mala pianta che, secondo Fiore non ha radici solo in Italia bensì, in misura e con caratteristiche diverse, in tutta Europa. Dopo la caduta del Fascismo egli vedeva la malapianta rinverdirsi nei metodi repressivi di Scelba e nella persecuzione dei comunisti nel mondo. Ma egli, nel descriverla, non pone mai solo l'accento sulla violenza o sulla sopraffazione, ma anche sulla corruzione che, in fondo, è una forma più sottile di violenza perché colpisce le coscienze.
Ed è qui l'assoluta attualità del messaggio di Fiore. Sotto questo profilo, durissimo è il suo giudizio sulla borghesia intellettuale del Sud quando prende a prestito le parole di Salvemini: “I piccoli borghesi intellettuali del Sud sono quasi tutti scemi e ladri … Fonda una lega di contadini e subito avrai un avvocato, che diventa segretario, e che si mangia i soldi, e ripete a pappagallo tutte le corbellerie che legge nei giornali del Nord, purché siano giornali di partito, cioè che portino quella data testata che è per essi legge indiscutibile”[8] , ed aggiunge di suo: “Questo è il problema che ci sta dinanzi. Che valore ha dunque la nostra cultura dagl'inizi del secolo alla caduta del Fascismo? … Anche oggi questo stato di cose è tutt'altro che debellato”[9].
Un altro rilevante aspetto della straordinaria attualità dell'antifascismo di Fiore si esprime nella sua costante sottolineatura della necessità di costruire, contro il Fascismo, un'alleanza fra operai, contadini e piccola borghesia, il cd. blocco storico allargato [10] per arginare la marea montante dello squadrismo.
Un'opzione che trovò riscontro anche nella sua breve esperienza di politica attiva, tutta intrisa del suo originario “combattentismo democratico”, quale sindaco della natia Altamura, alla guida di una giunta che comprendeva anche esponenti della borghesia agraria [11]. Di qui anche l'idea del “partito di popolo” e non di classe, agente delle forze sociali in un blocco alternativo nell'ambito di un progetto di “rivoluzione democratica” in chiave autonomista e regionalista [12].
Carlo Rosselli nel 1926 scriveva che Fiore era “forse il solo, fra noi, a conoscere bene il problema meridionale e quindi i problemi agrari del Sud” e lo invitava a collaborare con “Quarto Stato”, rivista fondata dallo stesso Rosselli e da Pietro Nenni, affidandogli la direzione della tematica meridionalista [13].
Tommaso Fiore fu tra i pochi intellettuali a non “prendere la tessera” senza peraltro allontanarsi dal suo territorio; il suo fu un antifascismo vissuto e patito sulla propria pelle, con pesanti ripercussioni sulla sua professione e sul suo tenore di vita (la sospensione dall'insegnamento per attività sovversiva all'indomani dell'assassinio di Matteotti; poi, durante la seconda guerra mondiale, la condanna al confino e successivamente, alla reclusione). Subì anche gravi lutti: in una straziante coincidenza, proprio nel giorno stesso della sua scarcerazione (il 28 luglio 1943), il figlio Graziano cadeva sotto il fuoco delle truppe badogliane a Bari.
Il suo percorso politico, si sviluppò partendo dal combattentismo democratico, passando per il liberalismo rivoluzionario di Gobetti, continuando sulla via del socialismo liberale di Carlo Rosselli, cui seguirà l'adesione a Giustizia e Libertà e al Partito d'Azione; infine, l'iscrizione al Partito Socialista Italiano: un percorso contrastato ma coerente. “Per Fiore il partito politico non era una chiesa e neppure una caserma, ma lo strumento attraverso cui realizzare i valori in cui fermamente credeva. Il suo spirito libertario, la sua autonomia intellettuale erano radicalmente incompatibili con qualsiasi forma di dogmatismo”; cosi ha, ancora, mirabilmente, scritto di lui Pappalardo [14]. E, in precedenza, altri aveva altrettanto efficacemente sottolineato: “Le asprezze dialettiche che dividono socialisti e comunisti … non lo sfiorano … Fiore è tutto immerso nei problemi del popolo tradito, la società debole del Sud, fuori dall'ottica classista. Vede uomini e donne che patiscono ingiustizie e sogna il riscatto più che la conquista del potere” [15]
Fu comunque fra i teorici del Liberalsocialismo e il leader indiscusso degli antifascisti baresi, svolgendo un ruolo rilevante nel Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale tenutosi a Bari nel gennaio 1944.
In tutto l'arco della sua vita, non mancò di far sentire la propria voce ogni volta che intravide tendenze involutive e rigurgiti reazionari che potevano mettere in pericolo la democrazia; continuò anche ad analizzare lucidamente le trasformazioni della società meridionale e pugliese in particolare, denunciandone instancabilmente le ataviche piaghe.
È stato efficacemente definito uno “storico sociale”. C'era infatti in lui “un'apertura spregiudicata ai caratteri della realtà pugliese, alla documentazione minuta che appare frutto dell'interesse specifico che ha per la concretezza dei particolari un uomo politico continuamente spinto ad analizzare le condizioni presenti per costruire ipotesi eventuali di intervento” [16]. In particolare, il ricco epistolario del periodo 1910-1931 [17] testimonia l'ampiezza di vedute e il metodo storiografico con cui intraprese tante ricerche, sempre allo scopo di indagare con maggiore profondità gli ancestrali problemi irrisolti della società pugliese e meridionale [18] . Alludendo al suo rientro dalla guerra e alla sua professione di insegnante, scrisse il 25 settembre del 1923 ad Augusto Monti: “Qualunque altro si sarebbe buttato nella pratica dello scrivere, per imparare il mestiere: io, invece, imparai a parlare il dialetto, mi feci cafone fra i cafoni” [19].
Significativo e incisivo fu anche il suo contributo alla rivalutazione delle tradizioni popolari e folkloristiche pugliesi e all'adeguamento dei programmi didattici della scuola statale per ancorarla alle variegate realtà del territorio che fu al centro di un convegno che si svolse a Bari nel 1921 su iniziativa della sezione barese della Società Umanitaria di Milano [20].
Infine, la sua fiducia nella capacità della cultura di farsi impegno civile e di incidere sui processi di trasformazione della società meridionale e di emancipazione dei suoi cafoni, viene espresso con particolare efficacia nella terza opera della sua trilogia nella quale impegno culturale, ricostruzione storica e impegno sociale appaiono indissolubilmente connessi. Ne sono ammirevole testimonianza le calorose parole che egli, in quell'opera, dedica all'amico leader sindacale, simbolo del destarsi del proletariato agricolo pugliese: “Colui che più di tutti operò per ridurre a cittadini i selvaggi di Puglia, fu Peppino Di Vittorio che, con piena coscienza, ha fatto, per la redenzione del proletariato italiano e mondiale e per l'avanzamento di tutto il vivere civile” [21]
Di questo meridionalismo e antifascismo (in Fiore sempre indissolubilmente legati) oggi sia il nostro Sud che l'intera Italia avrebbero estremo bisogno; in un'epoca in cui l'unità nazionale è messa a repentaglio da improvvidi tentativi di depauperare ancora di più le competenze dello Stato centrale in funzione di un regionalismo che mira a favorire e valorizzare solo le ragioni di un nord già ricco ed evoluto a tutto discapito di un sud condannato a essere ancor più negletto. Un regionalismo però lontanissimo, opposto a quello propugnato da Tommaso Fiore, che ne teorizzava una forma “solidale”, diretta discendenza del pensiero di Carlo Cattaneo. Un tentativo di secessione tacita verso il quale il Sud oggi non sembra essere in grado di reagire, poiché la crisi dei partiti di massa e della loro azione rigeneratrice, sta facendo prepotentemente riemergere i vecchi fantasmi della corruzione e del familismo amorale di cui si nutrirono il borbonismo, il giolittismo e il fascismo; fantasmi che oltre settant'anni di dialettica democratica non sono evidentemente riusciti ad estirpare e che ne indeboliscono la coscienza civile.
[1] F. PAPPALARDO, Tommaso Fiore, Il suo antifascismo fu dettato dall'etica, Repubblica Bari 20 gennaio 2023
[2] T. FIORE (a cura di), Relazioni sull'Italia meridionale, col. 150, 1952, p.216, ripreso da ID., Formiconi di Puglia, (1990-1945), Piero Lacaita Editore, 2013, p. 31.
[3] T. FIORE, Formiconi di Puglia, cit., p. 34, la cui prima edizione vide la luce, appunto, nel 1963.
[4] T. FIORE, Il fascismo in Puglia, in Mondo Operaio, 1962, nn. 11-12, pp. 64 ss.
[5] Le parole di Fiore sono riportate da G. ARFÈ, Prefazione, in T. FIORE, Incendio al Municipio, Lacaita Editore, 1967, p. 11, che le riprende da un articolo di Fiore apparso su “Critica Politica”, rivista repubblicana diretta da Oliviero Zuccarini,
[6] L'articolo, intitolato “Subito dopo la marcia su Roma. Il fascismo ed il nazionalismo nella Puglia”, apparso su “Critica politica” nel 1923, è stato ripubblicato in T. FIORE, Incendio al Municipio, cit., p. 38 ss.
[7] T. FIORE, Il fascismo in Puglia, cit., p. 66
[8] T. Fiore, Formiconi di Puglia. Vita e cultura in Puglia (1900-1945), Piero Lacaita Editore, 2013, p. 33
[9] T. FIORE, Formiconi di Puglia, cit., p. 34 (la prima edizione del libro è del 1962 che è quindi l'epoca di cui Fiore parla).
[10] C. NASSISI, Introduzione, in C. Nassisi (a cura di), Tommaso Fiore e i suoi corrispondenti (1910-1931), Piero Lacaita Editore, 1999, p. XCI. Cfr. anche V.A. Leuzzi, voce “Fiore Tommaso”, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol. 48, 1997: “Le possibilità di lotta al fascismo e di costruzione di una prospettiva democratico-socialista erano legate alla formazione di un nuovo blocco sociale, non limitato all'alleanza ‘contadini-operai', ma comprendente fasce di piccoli produttori della campagna e della città”.
[11] Sulla quale v. T. FIORE, Incendio al Municipio, nell‘edizione curata dal figlio Vittore del 1967, cit. Sulla breve esperienza di Fiore sindaco si veda anche il prezioso materiale pubblicato nel sito www.tommaso fiore.it e, in particolare, le pagine espressamente dedicate alla mostra organizzata in Altamura nel 2007 dall'Associazione Culturale Il Circolo delle Formiche in collaborazione con l'IPSAIC (Istituto per la Storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea), https://www.tommasofiore.it/tommaso-fiore-la-mostra
[12] C. NASSISI, Introduzione, cit., p. XCII.
[13] C. NASSISI, Introduzione, cit., p. XCVIII
[14] Ferdinando Pappalardo, Tommaso Fiore. Il suo antifascismo fu dettato dall'etica, Repubblica Bari 20 gennaio 2023
[15] G.GIACOVAZZO, Un inviato molto speciale, Prefazione a T. FIORE, Un popolo di formiche, Palomar, 2020., p. 12.
[16] NASSISI, op. cit., p. LXXXVII
[17] Ora raccolto nel citato curato da Nassisi
[18] L'appassionata attenzione di Fiore a tutto il territorio pugliese emerge dai tre i testi della sua nota trilogia (Un popolo di formiche, Un Cafone all'inferno e Formiconi di Puglia); il particolare legame con la città di Taranto emerge in G.L. CONVERTINO, Tommaso Fiore nella patria di Archita, Scorpione editrice, 2012.
[19] C. NASSINI, Tommaso Fiore, Il formicone di Altamura, Schena Editore, 2001, p. 40.
[20] C. NASSINI, Tommaso Fiore, Il formicone di Altamura, cit., p. 50-51.
[21] T. FIORE, Formiconi di Puglia, cit., p. 60-61, passo opportunamente sottolineato nella bella Postfazione di avito Antonio Leuzzi.
Fonte: di Liliana Cazzato