26 Aprile 2024

"ABORTO:
PERCHÉ LA U.S. SUPREME COURT HA RAGIONE"

Senza entrare nel famoso dilemma morale posto da William Blake – «Val meglio soffocare un bambino nella sua culla che conservare in sé un desiderio non soddisfatto». – né nella concezione dell'incesto o dell'aborto come forma legittima di ricerca della ‘felicità sessuale' proposta dal ‘divin marchese', cercherò di spiegare la sostanza giuridico-costituzionale della decisione della Corte Suprema americana nel caso Dobbs, v. Jackson Women's Health Organization.

Questa sentenza ha ribaltato la storica decisione sull'aborto in Roe v. Wade dichiarando la costituzionalità del ‘Gestational Age Act' dello stato del Mississippi che prevede che, "salvo che in caso di emergenza medica o in caso di grave anomalia fetale, una persona non può intenzionalmente o consapevolmente eseguire ... o indurre un aborto di un essere umano non ancora nato, se la probabile età gestazionale del nascituro è superiore alle quindici settimane".

Dai quattro angoli del mondo, si leva l'urlo di rabbia di centinaia di migliaia di persone scese in strada per difendere i cosiddetti diritti delle donne sulla vita e sulla morte del concepito e per ridicolizzare la cultura pro life. Ma non basta: oltre alla protesta si leva anche la minaccia terroristica contro i giudici responsabili di un tale ‘sacrilegio': il dipartimento per la Sicurezza Interna Usa, in un rapporto reso noto da Abc News, riferisce di un aumento di episodi di violenza verificatosi già a maggio, dopo la fuga di notizie sulla ancora non emessa decisione dei giudici della Supreme Court sull'aborto, per esempio con minacce al giudice Brett Kavanaugh, in odore di conservatorismo. Adesso l'allarme, come avverte il dipartimento, potrebbe durare «settimane»: nel mirino degli «estremisti interni» ci sono giudici, funzionari governativi e statali e sostenitori del movimento pro life.

Possiamo però affermare che questa sentenza, dando il giusto rilievo al principio – già riconosciuto in Roe – secondo il quale lo Stato (intendendo i singoli stati dell'Unione) ha il legittimo interesse alla protezione del ‘feto che può divenire un bambino', ha posto su nuove basi l'equilibrio tra i diversi diritti e interessi coinvolti e, in certa misura ha effettivamente ribaltato la giurisprudenza costituzionale che, dal 1973, aveva ‘espropriato' questi stati del loro potere di legiferare in materie, come quelle penali, non attribuite dalla Costituzione al governo federale.

Da questo punto di vista, non v'è dubbio che l'odierna decisione in Dobbs sia molto più fondata dal punto di vista costituzionale di quanto lo fossero le decisioni precedenti che avevano dato la copertura federale all'aborto e smantellato ogni legge statale che tentasse di porre limiti alla esecuzione dell'aborto: anche quelle che lo vietavano, se non a fini terapeutici, in fasi avanzate della gravidanza (settimo/ottavo mese).

Un po' di storia ci aiuterà a capire meglio la questione.

Nel gennaio 1973 – in un clima di grande mobilitazione dell'opinione pubblica e della politica in nome dello slogan l'utero è mio e lo gestisco io e della ‘felicità sessuale' teorizzata prima da Sade e poi da Wilhelm Reich come condizione necessaria per la realizzazione della ‘rivoluzione totale' – la Supreme Court decise il caso Roe v. Wade (410 U.S. 113, 1973) confermando la sentenza della Corte federale distrettuale texana che aveva dichiarato incostituzionale una legge penale dello Stato del Texas – che proibiva l'aborto, tranne che, a parere medico, non fosse necessario per la vita della madre – perché, non distingueva le varie fasi della gravidanza e non teneva conto di altri interessi coinvolti così violando il diritto della donna alla privacy, ‘diritto non enumerato' nel ‘Bill of rights' ma costituzionalmente protetto in quanto rientrante nelle «penombre emanate dal Bill of Rights» e ascrivibile a quella riserva di diritti, conservati dal popolo, consacrata nel IX Emendamento.

La Supreme Court – con una maggioranza formata da Blackmun, Powell, Burger, noti come giudici ‘conservatori', più i progressisti Douglas, Brennan, Stewart, Marshall e con il dissenso di Rehnquist e White – confermò questa sentenza texana specificando però che il diritto alla privacy e la libertà di decisione della donna sono protetti dal IV Emendamento (che tutela il diritto alla sicurezza e alla privacy delle persone e dei loro beni) e dalla clausola del due process del XIV Emendamento piuttosto che dal IX emendamento invocato dalla Corte texana. Tuttavia la Corte stabilì anche 1) che l'esercizio di un tale diritto ha un limite, segnato dalla vitalità del feto (in pratica, il criterio antico di common law, cioè del quickening, i movimenti del ‘feto' che ne segnalano la vitalità) per cui, durante i primi tre mesi di gravidanza, «come suggerito dalle attuali cognizioni mediche… il medico curante, d'accordo con la sua paziente, può decidere l'aborto senza interferenza alcuna dello Stato»; e 2) che, dopo il terzo mese di gravidanza, lo Stato ha un interesse legittimo, progressivamente prevalente – «compelling» – a proteggere sia la salute della donna gravida sia la vita umana potenziale… anche se il feto non è una ‘persona' come definita dal XIV Emendamento».


Tale decisione, estesa dal giudice Blackmun, riconduceva dunque il diritto di aborto a una nuova area di applicazione del diritto alla privacy – «abbastanza ampia da comprendere il diritto qualificato della donna a porre temine alla propria gravidanza» – come diritto personale ‘fondamentale' a richiedere ed ottenere cure mediche; inoltre, anche se si riconosceva come «non fosse chiara la relazione tra il diritto di aborto e il diritto, illimitato, a usare liberamente del proprio corpo», la sentenza dichiarava illegittima ogni restrizione ingiustificata all'esercizio di un tale diritto.

La decisione della Supreme Court nel caso Roe v. Wade – considerata come «una vittoria dei giudici pragmatici sugli ideologi conservatori della Corte» – aveva suscitato un largo ed acceso dibattito soprattutto perché, costituzionalizzando il diritto di aborto come diritto personale della donna derivante dalla sua capacità esclusiva di generare un figlio, ne allargava l'esercizio consentendolo per generici motivi di salute della donna: ciò che più fece discutere, dentro e fuori dalla Corte, fu l'affermazione, in Roe, che «il termine persona, come usato nel XIV Emendamento, non include il ‘non nato'»; il dibattito, procedurale e sostanziale, si aprì sulla rilevanza dei diritti da contrapporre al diritto alla vita potenziale e sull'equilibrio che si deve stabilire tra essi e andò facendosi sempre più aspro: un ‘clash of absolutes'. Il diritto di aborto veniva ritenuto necessario per garantire alla donna il controllo del proprio destino riproduttivo gestendo il ‘prodotto del concepimento' (termine medico usato dagli abortisti come se avesse un significato di ‘prodotto residuale', quasi di ‘sottoprodotto') e quindi perseguire le ‘missions' sue proprie, diverse da quella tradizionale di madre e di casalinga; il Pro-life movement invece lo negava in nome del diritto alla vita del concepito sostenendo che – quale che fosse la risposta alla questione teologica o metafisica se il feto sia un ‘essere umano' o all'altra questione se sia una ‘persona' in senso giuridico – si dovesse almeno riconoscere che il feto, avendo nelle sue cellule tutte le informazioni genetiche che lo distinguono come appartenente alla specie umana e come individuo, può anche non ‘esistere' un giorno ma esiste certamente il giorno dopo senza che ciò implichi una qualsiasi modificazione della sua essenza.

Più tardi, il giudice Antonin Scalia, in una delle sue molte e famose dissenting opinion in casi riguardanti l'aborto avrebbe scritto: «la Corte deve sapere che, se stabilisce che la legge deve prevedere anche l'eccezione, generica, della salute della madre, scioglie le briglia all'aborto».

In effetti, quella decisione – anche se ammetteva che «la donna gravida non può essere considerata esclusivamente nella sua privatezza e individualità» e che questo diritto della donna non è assoluto ma da bilanciare con gl'interessi contrapposti dello Stato – fu interpretata come una liberalizzazione dell'aborto e ciò inasprì anche l'opposizione all'aborto inteso come metodo di pianificazione delle nascite.

William H. Rehnquist, che sarebbe divenuto Chief Justice nel 1986, dissentì sia nel primo caso che nel secondo affermando invece che l'aborto non configura un comportamento strettamente privato, riconducibile alla categoria della privacy – definita da Louis Brandeis come «diritto di essere lasciati soli [to be let alone] nelle decisioni che riguardano la nostra propria vita» – e che «i costituenti non intesero sottrarre agli Stati il potere di statuire limitazioni all'aborto».

Rehnquist avrebbe più tardi aggiunto che il significato del termine privacy esclude dalla protezione costituzionale tutto ciò che, pur appartenendo a qualcuno, è esposto al pubblico o coinvolge una relazione tra più soggetti: «la Corte, definendo in Roe la garanzia del diritto alla privacy come comprensiva di un diritto ‘fondamentale' della donna ad abortire, ha interpretato erroneamente i precedenti riguardanti diritti relativi a comportamenti diversi, strettamente personali e privati come quello di scegliere o no il matrimonio, la procreazione, la contraccezione, etc.: infatti l'aborto implica la fine di una vita umana potenziale… la distruzione di un feto e, dunque, coinvolge un rapporto tra più persone – il feto, la madre, il padre ma anche il medico al quale è richiesto l'atto chirurgico – il che giustifica la sua regolamentazione per legge».

L'obiezione di Rehnquist non riguardava l'estensione della garanzia costituzionale al diritto alla ‘privacy', in quanto comprendente comportamenti individuali non riconducibili ai cosiddetti ‘diritti enumerati' nel Bill of rights – egli, infatti, sapeva bene come fosse necessario interpretare la storia per interpretare correttamente la Costituzione – bensì la qualificazione del diritto di aborto come diritto alla ‘privacy': a suo avviso, questi diritti della persona hanno pieno titolo alla garanzia costituzionale solo se sono «essenziali al benessere dell'individuo, alla sua libertà e al progresso della società» ma, nel caso dell'aborto, non si era ancora pervenuti a quell'equilibrio necessario tra gli opposti interessi e valori dell'individuo e quelli della società, nella contrapposizione classica tra libertà e ordine.

L'intransigenza e la radicalizzazione dell'opinione pubblica in favore dell'aborto ha avuto ricadute anche nella Supreme Court che ha successivamente esteso la portata della sentenza in Roe v. Wade con varie sentenze che via via hanno eliminato ogni limite temporale relativo alla gestazione facendo leva sulla incertezza della data di effettiva vitalità del feto o come quella nel caso Stenberg v. Carhart, nel quale è stata dichiarata incostituzionale una legge del Nebraska che proibiva, se non necessario per la vita della madre, il cosiddetto partial birth abortion – estrazione a ‘pezzi' del feto vivo, praticata in una fase avanzata di gestazione – che il giudice Antonin Scalia, nella sua dissenting opinion, definisce una metodica medica brutale e raccapricciante: «è assurdo pensare che la nostra Costituzione possa proibire agli Stati di bandire un mezzo così brutale di eliminazione di una vita».

Solo nell'aprile 2007, nel caso Gonzales v. Carhart (550 U. S. 124, 2007), la Corte ha dato inizio a una revisione di questa linea dichiarando la incostituzionalità del ‘Partial-Birth Abortion Ban Act' ma il giudice Ruth Bader Ginsburg, vedendo in questo esito un vero e proprio rovesciamento di Roe, oppose il suo dissenso: «la decisione odierna della Corte, per la prima volta dopo Roe, benedice una legge che non prevede eccezioni per la salvaguardia della salute della madre».

Il che non era vero perché l'eccezione era prevista: la Ginsburg esprimeva chiaramente una posizione ideologica intollerante di qualsiasi regolamentazione dell'aborto.

Infatti, successivamente, nel 2016, la Supreme Court, nel caso Whole Woman's Health v. Hellerstedt, annullò una legge del Texas la quale, tra i requisiti di sicurezza sanitaria necessari prevedeva per esempio che il luogo in cui viene eseguito l'aborto non distasse più di 30 miglia da un ospedale: la Corte, considerando un undue burden ogni regolamentazione anche se finalizzata a garantire condizioni di piena sicurezza sanitarie per l'esecuzione dell'atto chirurgico dell'aborto, ha riaffermato la concezione del diritto di aborto come diritto della donna to be let alone e ha addirittura disconosciuto l'interesse dello stato, fino ad allora ritenuto legittimo, a regolamentare le pratiche mediche.

Una tale decisione della Corte fece esultare l'allora Presidente Barack Obama e Hillary Clinton, la quale ne parlò come di una vittoria delle donne: «la Corte, annullando restrizioni politicamente motivate, che rendevano alle donne quasi impossibile l'esercizio pieno dei propri diritti sulla riproduzione, ha difeso e confermato il diritto di aborto che ogni donna possiede a prescindere dal luogo in cui abita». Dunque, permaneva ancora forte il ‘crescendo' di radicalismo ideologico libertario che, insoddisfatto e nevroticamente disposto a spostare il bersaglio sempre più in avanti, non vuole porsi la domanda sui limiti del diritto di aborto e ha finanche spinto il Senate Judiciary Committee – insofferente delle dissenting opinions di quei giudici che, come Clarence Thomas, premevano per una revisione della sentenza in Roe – a «minacciare ritorsioni di natura non specificata nei riguardi della Supreme Court»: forse un nuovo Court Packing?

Il presidente Biden – per racimolare voti per le prossime elezioni di ‘mid term' nelle quali pare che si profili una sconfitta del suo partito – ha ora infatti in programma una legge federale che finanzierebbe il turismo abortistico e ha minacciato esplicitamente il ‘court packing', cioè l'alterazione della composizione della Supreme Court per assoggettarla all'opinione abortista. Se il suo partito riuscirà a vincere le prossime elezioni di ‘mid term', la minaccia sarà messa in atto.

Avremo così veramente una grave crisi del sistema costituzionale americano, come quando, negli anni '30 dello scorso secolo, il ‘court packing' fu minacciato da Franklin D. Roosevelt. Ma, allora, il grande Presidente fu fermato in tempo e, così, si risparmiò l'onta di aver violato la Costituzione.






Fonte: di Giuseppe Butta'
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