"PER UN LINGUAGGIO POLITICAMENTE PRECISO"
21-07-2017 - STORIE&STORIE
Non ho molta simpatia per Nanni Moretti, anzi a dire il vero non ne ho alcuna, ma mi piacque una frase pronunciata dal suo alter ego Michele Apicella in un film ormai vecchiotto, Palombella rossa del 1989, che resta probabilmente uno dei suoi migliori. Dice a un certo punto Michele: "chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti". E´ evidente che in questo caso al parlar male non si contrappone il parlar bene inteso come linguaggio forbito ed elegante e ancor meno come ars rhetorica, quanto piuttosto il linguaggio chiaro, preciso, non banale e non modaiolo. Quello che mi sembra sia andato perduto da tempo e di cui personalmente avverto la mancanza e il bisogno. E poiché nonostante le tante delusioni e arrabbiature continuo ostinatamente a interessarmi di politica, voglio dedicare qualche pensiero al degrado del lessico politico che ci tocca subire quotidianamente. Una cosa desidero chiarire subito: rivendico un linguaggio politicamente preciso e non politicamente corretto, perché del cosiddetto politically correct dei radical chic di Manhattan e dintorni ne ho da tempo piene le tasche. Intendiamoci, questo non è l´elogio di Donald Trump e delle sue volgarità espressive anche se, a dire il vero, con Berlusconi e ancor più con Bossi potremmo rivendicare il copyright. Al contrario, come sono nostalgico di tanti altri aspetti della Prima Repubblica, così rimpiango i tempi in cui anche le più aspre polemiche mai degeneravano nell´insulto e nel dileggio degli avversari, salvo qualche ovvia eccezione che si svolgeva però solo in privata sede. Il fatto è che il politicamente corretto, nato come giusta rivendicazione di una terminologia non offensiva e non sprezzante nei confronti di alcuni soggetti sociali, si è trasformato in una sorta di liturgia rigorista, triste e settaria, per cui, come ho letto tempo fa, un´università degli USA ha messo al bando i libri di Mark Twain, che fu antischiavista e durante la Guerra Civile si schierò con l´Unione, perché contengono la parola "nigger", che però ai tempi dell´autore era di uso comune e non recava in sé alcuna connotazione razzista. Detto e chiarito questo, riprendo il filo del discorso. Avverto il desiderio e il bisogno di un linguaggio politicamente preciso perché da tempo termini che definivano e dovrebbero tuttora definire elementi dell´agire politico sono usati in modo improprio e sbagliato. In questo deragliamento hanno giocato sicuramente una parte rilevante la malafede e l´inganno, ma su questi si è costruita una vulgata grossolana e ignorante divenuta progressivamente senso comune, banale come lo è sempre il senso comune che è cosa assai diversa, in negativo, rispetto al buon senso. Noi socialisti siamo o dovremmo essere particolarmente esperti e sensibili al riguardo, anche se purtroppo non sono mancati fra noi coloro che hanno contribuito a questa degenerazione. Una degenerazione che ha dato vita ad un rapporto biunivoco fra cattiva politica e cattivo lessico politico tale da rimandare al vecchio detto circa la primogenitura fra l´uovo e la gallina ed a cui è molto difficile anche solo cercare di porre rimedio. Sappiamo bene come termini quali riformismo e massimalismo, che si comprendono correttamente ed hanno senso compiuto solo all´interno della storia del socialismo, in particolar modo di quello italiano, risultino ormai del tutto privati del loro autentico significato e contenuto e siano invece utilizzati per indicare idee e pratiche assai lontane, e spesso in aperto conflitto, con l´espressione originaria. E´ vero, come ama ricordare Paolo Bagnoli, che colui che è considerato il padre del socialismo riformista italiano, mi riferisco ovviamente a Filippo Turati, rifiutò sempre di definirsi tale, ma di fatto con il termine riformismo ci si è tradizionalmente riferiti al filone socialista che intendeva procedere con gradualismo e con gli strumenti della democrazia verso una società più giusta. Questa però era e restava quella socialista e da Turati e Treves a Saragat e Lombardi la società socialista rimase sempre connotata dal superamento del capitalismo, per quanto lontano questo potesse essere pensato. Di conseguenza è un falso storico e ideologico parlare di riforme quando ci si riferisce a provvedimenti finalizzati a deregolamentare il mercato del lavoro, a incentivare il precariato e i mini jobs, a ridurre i diritti dei lavoratori e in generale gli spazi di democrazia, a favorire i poteri forti dell´economia e della finanza. I socialisti vollero la nazionalizzazione dell´energia elettrica e la scuola media unica, lottarono per la riforma urbanistica e la programmazione economica (lo dico pensando a Giovanni Pieraccini, recentemente scomparso), posero le basi della riforma sanitaria e riuscirono a far approvare lo Statuto dei Lavoratori. Invece in tempi recenti sono state definite riforme la cosiddetta Buona Scuola, in realtà pessima, il Jobs Act e i tentativi per fortuna falliti di dar vita a una vergognosa legge elettorale (ma con un´altra, pure dichiarata in larga parte incostituzionale, abbiamo votato per ben tre volte) e a una revisione della Costituzione di stampo autoritario. Le stesse considerazioni valgono per l´opposto del riformismo, cioè il massimalismo, termine con cui si indicava l´intransigentismo di coloro che intendevano realizzare quello che era definito il programma massimo, cioè il socialismo in tutta la sua compiutezza, senza mediazioni e rifiutando ogni forma di gradualismo. Il sostantivo e l´aggettivo che ne deriva ricorrono oggi quasi esclusivamente nelle polemiche dei socialisti di rito blairiano nei confronti di chi non ha dimenticato, pur aggiornandolo, il significato di fondo del pensiero e della cultura socialista. Non parliamo poi dei tanti voluti fraintendimenti del Socialismo liberale di Carlo Rosselli, di cui troppo spesso è stata fatta una sorta di caricatura finalizzata a darne un´immagine moderata, quasi che in esso vi fosse un´anticipazione della Terza Via e del New Labour. Sarebbe veramente ora di smetterla di giocare con carte truccate e di ridare alle parole della politica il loro significato autentico. Questo però richiederebbe innanzi tutto cultura ed onestà intellettuale, caratteristiche che purtroppo appaiono in via di estinzione. Concludo con due parole ormai molto usate ed anche abusate: populismo e sovranismo. So di addentrarmi in un terreno scivoloso che richiederebbe molte distinzioni e precisazioni. Si può però affermare che quando oggi parliamo di populismo non ci riferiamo certo al comunitarismo rurale socialisteggiante diffuso in Russia nella seconda metà dell´Ottocento e nemmeno al Partito del Popolo fondato negli USA a fine Ottocento e durato pochi anni. Il termine richiama invece fenomeni quali il poujadismo in Francia, l´Uomo Qualunque in Italia e soprattutto il peronismo argentino, anche se quest´ultimo veniva indicato all´epoca come giustizialismo, parola che in Italia, dopo Tangentopoli, ha assunto tutt´altro significato. Ma tant´è, purché sia chiaro che cosa intendiamo qui ed ora. Ma se questo fosse veramente chiaro non dovevano essere definiti populisti, come è avvenuto, due coerenti socialisti come Sanders e Corbyn, la cui cifra non è sicuramente l´appello confuso e demagogico al popolo in nome di un´antipolitica rozza, insofferente di ogni mediazione e tendenzialmente autoritaria proprio perché fondata sul rapporto diretto fra il leader carismatico e il popolo stesso, idealizzato fino alla mitizzazione. Sul concetto di sovranismo ritengo opportuna una precisazione, anche perché lo utilizzai in un precedente articolo su La Rivoluzione Democratica. Nell´uso comune indica l´esaltazione della sovranità nazionale e il rifiuto di ogni forma di accordo sovranazionale e comunitario. Così inteso non differisce granché dal vecchio nazionalismo e il nazionalismo va sempre respinto. Ma sovranismo può anche significare la piena sovranità economica e monetaria dello stato e di conseguenza, almeno a mio giudizio, può essere diversamente declinato, non escludendo a priori la possibilità di cedere elementi di sovranità ad organismi sovranazionali purché questo si realizzi nell´ambito di un quadro istituzionale democratico e non tecnocratico, come invece è avvenuto in Europa con la moneta unica. Ma questa è una riflessione del tutto personale sulla quale mi piacerebbe ritornare in futuro.
Fonte: di MAURIZIO GIANCOLA