"LA REPUBBLICA ALL’ASCIUTTO" di Paolo Bagnoli
22-09-2020 - EDITORIALE
Il risultato del referendum sul taglio dei parlamentari ha registrato un consenso ampio a favore e segna l'inizio di una nuova fase nella vita della Repubblica, della stagione in cui l'antiparlamentarismo si insedia quale motivo praticamente principale del canone pubblico. La vittoria dei “si” ha subito permesso ai 5Stelle di rilanciare ponendo sul tavolo la questione del taglio degli emolumenti dei parlamentari; un argomento avanzato con il medesimo tono di sprezzo del Parlamento usato nel sostenere il taglio dei seggi. In sé e per sé esso non è certo un tabù, ma solo il passo ulteriore nella delegittimazione della rappresentanza democratica, fattore giustificativo di una forza che ha nello smantellamento della democrazia parlamentare la propria ragione prima quale unica ragione di sopravvivenza che il voto dell'ultima tornata elettorale ha messo a reale rischio. Hanno vinto il referendum, ma hanno perso le elezioni.
L'attacco al Parlamento costituisce una delle strade principali che aprono le porte alla destra autoritativa, a un modo di essere del sistema insito nel populismo. Oggi i 5Stelle hanno oggettivamente una strada in discesa grazie a un rapporto di governo per cui riescono a imporre con relativa facilità la propria ideologia all'alleato di governo; una facilità che non si registra nella passata esperienza di governo quando erano in coalizione con la Lega di Salvini. Può consolare il fatto che, non bucando più l'elettorato e, quindi, non hanno a disposizione una massa “popolare” a disposizione che può impensierire. Con ciò, a differenza di quanto pensano taluni osservatori, noi riteniamo che il populismo può facilmente trasmigrare da una parte a un'altra. Può avvenire, poiché una cosa sono le idee e una i fatti; questi possono avere dimensione e portata diversa, ma le idee, anche quelle sbagliate, finiscono per veicolare una cultura che sopravvive ai fatti medesimi e non risulta sterilizzata da come essi si evolvono. La vittoria dei “si” rappresenta l'apoteosi dell'antipolitica e ci dovremo, probabilmente, preparare a un ulteriore rosario di carnevalate demagogiche e propagandistiche.
Che il Pd subisca l'iniziativa del grillismo è più che evidente. Il segretario Zingaretti, capace di sostenere tutto e il contrario di tutto, non riesce a imporsi poiché i 5Stelle, che i dati dimostrano essere una forza ingovernabile dai loro stessi dirigenti, viaggiano senza una bussola politico strategica di riferimento se non quella dell'antipolitica. Per settimane la dirigenza dem si è affannata a chiedere che nella periferia vi fossero alleanze in linea con la maggioranza che sorregge il governo. La richiesta non ha avuto effetto alcuno e là dove essa si è, alla fine, realizzata come in Liguria, ha segnato una sconfitta netta. Le Marche non sarebbero passate alla destra dopo ben ventiquattro anni di governo che potremmo definire di continuità, se l'intesa ci fosse stata; in Toscana e in Puglia la contrapposizione Pd-5Stelle è stata netta; il grillismo non è passato, resta la frattura politica che sta a sconfessione di quanto avrebbe voluto il gruppo dirigente democratico.
La maggioranza della stampa ha raccontato di uno Zingaretti vincitore delle elezioni. La descrizione ci appare un po' azzardata visto che le Marche sono state perse. Il Pd, a ben vedere, non può intestarsi niente che suoni come frutto della propria iniziativa politica. E' vero che Eugenio Giani in Toscana, Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano sono espressione del Pd, ma quando Zingaretti è apparso in televisione per fare una sua prima dichiarazione, ha taciuto sulla Toscana – su cui giocava la propria sorte e forse anche quella del suo partito - considerata la regione titolata di un passato altamente simbolico e lasciamo stare il “rosso” che non c'è più da quel tempo; non ha fatto nessun riferimento alla vittoria di Giani, mentre Matteo Renzi si è subito speso come colui che rende onore al proprio candidato che sente proprio. Dobbiamo riconoscere che Emiliano è stato bravo perché, grazie al voto disgiunto e pure a una sapiente, se pur azzardata, composizione delle liste, ha vinto scomponendo il campo avversario, mentre De Luca, giocando soprattutto sulla sua figura, non ha avuto partita, oltretutto in Campania Forza Italia si è di fatto evaporata: a tutti loro vanno i complimenti per quanto hanno ottenuto, per aver fatto argine alla destra. Sulla Toscana, occorrerebbe una riflessione molto seria, approfondita e impietosa perché la vittoria di Giani non è certo la riaffermazione del tradizionale storico ruolo che la sinistra ha avuto dal dopoguerra in poi nella regione per il semplice motivo che la sinistra è stata scomposta e dispersa dalle scelte del postcomunismo. E la sinistra, in Toscana, non ha rappresentato solo uno schieramento, ma un lievito politico ad alto valore civile, culturale, istituzionale e sociale. A un certo punto sembrava che Susanna Ceccardi potesse vincere e la paura è stata tanta che è scattato un vecchio orgoglio di mobilitazione che ha portato il Pd, tra l'altro, a ottenere un risultato straordinario e imprevedibile superando il 30%. Il motivo ancestrale: qui la destra non passa! – anche se essa governa la maggioranza dei comuni toscani – ha azionato con forza e in profondità a dimostrazione che il portato della memoria politica può, talora, divenire azione fattuale.
La riflessione in proposito potrebbe essere anche materia da storici. Tuttavia, la bella vittoria di Giani non deve far dimenticare che il risultato conseguito dalla Lega – ben oltre il 22%- dovrebbe suonare come un serio campanello di allarme. Ci riferiamo alla Toscana poiché, sul piano nazionale, la Lega non ha tracimato. Il Veneto fa parte a sé e vanno riconosciuti gli onori del caso a Luca Zaia. La sua lista ha superato di ben due terzi quella del suo partito. Il punto più alto della propria sconfitta Salvini l'ha ricevuto proprio da Zaia. Di fronte a un risultato deludente l'unica proposta che Salvini ha rilanciato è lo scioglimento del Parlamento, un qualcosa che il dato elettorale fa svanire. Subito, infatti, il presidente della Camera, si è affrettato a dire che si arriverà al 2023 in un clima di progressive riforme. Quali potranno essere non è dato sapere, anche se si possono immaginare data la fonte dell'annuncio. E' certa, però, la durata del Parlamento fino alla scadenza naturale visto che c'è in ballo il governo e, sul piano nazionale, i risultati deludenti s dei 5Stelle e quelli non entusiasmanti – se si fa accezione per la Toscana - del Pd. A ciò va aggiunta la volontà degli eletti di non andare a casa. Quanto si intravede è il riprofilarsi di un sistema bipolare, visto il sostanziale fallimento di quello tripolare. Il discorso, anche qui, si farebbe naturalmente ben più complesso e articolato poiché, per cambiare un sistema occorrere capire bene la mentalità storica di quanto si vuol sostituire; è uno dei grandi problemi irrisolti – una seria riflessione storico politica sulla democrazia italiana e i suoi motivi – dalla fine della prima repubblica, ossia da oltre un quarto di secolo, oramai. Il motivo dovrebbe entrare nella discissione sulle riforma di cui tutti si riempiono la bocca, ma, come sappiamo, le chiacchiere se le porta il vento.
Un vecchio detto dice che “dopo un raccolto ne viene un altro”. E' vero, ma dipende da cosa si semina e se si semina vento si raccoglie tempesta. La Repubblica deve rimanere all'asciutto.