"MALESSERI ACCADEMICI"
21-06-2021 - STORIE&STORIE
L'attuale malessere dell'Università italiana non deriva, a quanto pare, da un calo delle immatricolazioni o dalla concorrenza formativa degli atenei stranieri, benché per trovarne uno del Belpaese nel ranking britannico delle migliori università del mondo si debba scendere di parecchio nella classifica (QS ranking, l'Italia arretra: al primo posto il Politecnico di Milano che è 142esimo al mondo, «Corriere della Sera», 8 giugno 2021). Tale crisi è riconducibile, piuttosto, ad una serie di problemi strutturali interni all'Università di casa nostra che, inevitabilmente, finiscono per interessare la gestione dei concorsi per l'insegnamento e la prassi di assegnazione dei vari incarichi. A parere della magistratura, infatti, gli ultimi infelici casi riguardanti l'accademia italiana – ad esempio la «Concorsopoli» presso il Dipartimento Ospedaliero Universitario fiorentino di Careggi – hanno evidenziato un vero e proprio «sistema», non di rado sconfinante nell'illecito.
Lungi da noi, ovviamente, generalizzare; le generalizzazioni sono spesso erronee e, per questo motivo, teniamo a sottolineare come nei vari Atenei della Penisola operino sia validissimi ricercatori – quotidianamente a confronto coi tagli ai fondi –, sia altrettanto capaci docenti. Ciò nonostante, sull'opinione pubblica hanno maggior presa i casi giunti alle attenzioni dei Tribunali; e, conseguentemente, i maligni, leggendo le cronache sui giornali, potrebbero anche pensare – a torto o a ragione? – all'Università come ad una struttura clientelare, ad un modello corporativo con proprie norme e leggi: una sorta di mondo a parte del quale la documentata inchiesta de «La Repubblica» ha fornito un quadro assai esaustivo (Agnese nel paese dei baroni, 28 aprile 2021). La cosiddetta «mala università».
L'elenco degli episodi poco chiari non è breve. Ha fatto certamente notizia, anche per il diretto interessamento del Presidente Mattarella, quanto accaduto allo storico siciliano Giambattista Scirè, con la Commissione concorsuale – composta da tre storici contemporaneisti – che gli ha negato un posto da ricercatore (in storia contemporanea) preferendogli un architetto… Il modus operandi dei tre commissari è stato esaminato dagli organi giudiziari che, in primo grado, hanno condannato penalmente i docenti per abuso d'ufficio (2019), mentre la Corte dei Conti di Palermo ha inflitto loro un'ammenda per danno erariale nei confronti dell'Università banditrice del concorso (2020).
Il “caso Scirè” ha dunque mostrato come, in ambito accademico, si facciano convivere – a seconda delle evenienze – meritocrazia ed extra-legalità. Da allora sono incredibilmente emersi numerosi casi “sospetti” e non poche paiono essere state le irregolarità compiute. A questo punto una domanda risulta inevitabile: chi denuncia, compie un tale passo poiché, in quel determinato momento, il «sistema», dopo averlo benevolmente accolto, protetto e fatto crescere, lo ripudia in nome di altri interessi oppure la sentenza-Scirè ha convinto alcuni studiosi che le irregolarità si possono e si devono denunciare e che l'Università italiana non è una realtà extra legem? La risposta non la conosciamo.
Tra i cittadini si è comunque diffusa l'opinione secondo cui, nel nostro Paese, prima si individua il candidato vincitore e, poi, si bandisce il concorso. Già da anni vari articoli, sulla stampa nazionale, hanno messo in luce situazioni scomode (ad es.: Il peso dei «baroni» nel declino dell'università, «Il Manifesto», 14 ottobre 2020; Università, tempesta sullo strapotere dei “Baroni”, «Panorama», 18 luglio 2019). Nondimeno, sono state evidenziate le ragioni burocratiche, antropologiche e culturali ree di mantenere ancora in essere il cosiddetto potere baronale: «[…] nelle Università italiane i baronati esistono da sempre. In passato hanno funzionato. Era un mondo molto diverso che dava al sapere e alle competenze significati differenti. All'Università ci andavano in pochi, spesso privilegiati. Un docente si attorniava di pochi bravi discepoli che prima o poi lo avrebbero sostituito. La qualità degli assistenti era ragione di vanto. Non è più così. Con la diffusione del sapere e la massificazione degli studi superiori è aumentato il numero dei docenti e quindi dei pretendenti alla spartizione del potere. È perciò prevalsa la logica della mediocrità per meglio preservare il dominio del barone» (L'irresistibile fascino dei baroni nelle università, «la Stampa», 6 ottobre 2017).
Nulla da eccepire. In tempi recenti, tra l'altro, ci ha molto colpiti l'atteggiamento di taluni docenti, in particolare di storia contemporanea, che, in pubblico o sui social, si sono messi negativamente in mostra finendo per compromettere ulteriormente la credibilità dell'ambiente accademico. Facciamo qualche esempio. Il prof. Emanuele Castrucci, filologo dell'ateneo senese, è stato indagato per istigazione e propaganda dopo le sue esternazioni filo-hitleriane; il prof. Marco Gervasoni, storico dell'età contemporanea, indagato per vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica; il prof. Guido Saraceni, filosofo dell'Università di Teramo, e il prof. Simon Levis Sullam, altro contemporaneista, che hanno rilasciato dichiarazioni o realizzato post poco benevoli nei confronti dell'on. Giorgia Meloni e del suo libro autobiografico. Ricordiamo, in ultimo, l'episodio che ha visto come protagonista il prof. Giovanni Gozzini, storico contemporaneista dell'Università di Siena, reo di aver insultato in radio, con epiteti vergognosi, l'on. Meloni rispolverando il più becero classismo comunista: quello, cioè, di una gauche caviar che pone l'intellettuale sopra tutto e tutti poiché egli soltanto possiede il dono della conoscenza ed è capace di insegnare e di operare in posti di rilievo, mentre il “popolo” - il “volgo” - necessita del suo aiuto per comprendere ciò che si desidera fargli comprende; abbisogna di un'educazione a non pensare con la propria testa poiché, nella società, c'è già chi – colto ed intelligente – ha il dovere di pensare e decidere per lui.
Crediamo che un simile atteggiamento strida con la professione – la missione – di docente universitario, cioè di membro incaricato dallo Stato (stiamo pur sempre parlando dell'università pubblica!), di formare le donne e gli uomini, le cittadine e i cittadini di domani.
Non vogliamo, tuttavia, essere troppo duri col prof. Gozzini: il mondo comunista non è nuovo ad interventi ingiuriosi e a critiche offensive nei confronti del “nemico”. Vi inciampò anche colui il quale, nel PCI, godeva di un ruolo e di un appellativo impossibile da contestare: il Migliore, alias Palmiro Togliatti. Il compagno Togliatti, celatosi col nom de plume di Roderigo di Castiglia, non usò mezzi termini quando decise di dirigere i propri rimproveri verso alcuni illustri intellettuali i quali, aperti finalmente gli occhi sulla realtà delle cose, osarono criticare il sistema comunista e denunciarne le miserie. Così di André Gide, premio Nobel per la letteratura, egli scrisse: «Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l'assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente» (I sei che sono falliti, «Rinascita», a. VII, 5, maggio 1950, p. 242).
Come cambiano i tempi! E pensare che oggi i post-comunisti dibattono anima e corpo per l'approvazione del Ddl Zan!
Concorsi pilotati, commenti poco civili nei confronti di membri delle istituzioni, post offensivi sui social ecc. Una parte del mondo accademico sta dando il peggio di sé, ma l'altra parte tende, per lo più, a difendere il «sistema» trincerandosi in linee di difesa a volte discutibili. Tra i docenti di storia contemporanea, ad esempio, è uso il tentativo di screditare l'operato della magistratura sostenendo che, coi provvedimenti presi nei confronti dei colleghi, l'autorità giudiziaria intenda imbrigliare l'attività di ricerca, limitare il docente nell'esercizio delle proprie funzioni, intromettersi in campi non di sua afferenza. Insomma, per gli storici un Tribunale può anche decidere sul «fine vita», ma non deve permettersi di stabilire i confini di una disciplina accademica, men che meno la storia. Tentare di screditare il legislatore non è certo il comportamento più consono ad un dipendente statale il quale, esercitando la professione di cattedratico, svolge funzioni di Pubblico Ufficiale. E, soprattutto, a quegli accademici orfani del PCI ci permettiamo di fare presente che simili contestazioni ricordano molto quelle mosse dal tanto vituperato Cavaliere alla «Magistratura rossa» e che, durante la caccia giustizialista a socialisti e democristiani “ladri e corrotti” di Tangentopoli, proprio loro elargivano applausi ed ovazioni al Pool di Mani Pulite.
Ai professori del «sistema», forse, bisogna chiarire che la magistratura non vuole affatto insegnare loro il mestiere o imporgli programmi di lavoro e ambiti di ricerca, bensì operi per garantire il rispetto delle leggi anche negli Atenei, che non sono al di sopra di esse. Molti, nell'ormai lontano 1991, si sbellicarono dalle risa leggendo sul periodico satirico «Cuore» il titolo: «Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti». Attenzione: il rischio, oggi, è di vederlo attualizzato in «Scatta l'ora legale, panico tra i professori universitari».
Lungi da noi, ovviamente, generalizzare; le generalizzazioni sono spesso erronee e, per questo motivo, teniamo a sottolineare come nei vari Atenei della Penisola operino sia validissimi ricercatori – quotidianamente a confronto coi tagli ai fondi –, sia altrettanto capaci docenti. Ciò nonostante, sull'opinione pubblica hanno maggior presa i casi giunti alle attenzioni dei Tribunali; e, conseguentemente, i maligni, leggendo le cronache sui giornali, potrebbero anche pensare – a torto o a ragione? – all'Università come ad una struttura clientelare, ad un modello corporativo con proprie norme e leggi: una sorta di mondo a parte del quale la documentata inchiesta de «La Repubblica» ha fornito un quadro assai esaustivo (Agnese nel paese dei baroni, 28 aprile 2021). La cosiddetta «mala università».
L'elenco degli episodi poco chiari non è breve. Ha fatto certamente notizia, anche per il diretto interessamento del Presidente Mattarella, quanto accaduto allo storico siciliano Giambattista Scirè, con la Commissione concorsuale – composta da tre storici contemporaneisti – che gli ha negato un posto da ricercatore (in storia contemporanea) preferendogli un architetto… Il modus operandi dei tre commissari è stato esaminato dagli organi giudiziari che, in primo grado, hanno condannato penalmente i docenti per abuso d'ufficio (2019), mentre la Corte dei Conti di Palermo ha inflitto loro un'ammenda per danno erariale nei confronti dell'Università banditrice del concorso (2020).
Il “caso Scirè” ha dunque mostrato come, in ambito accademico, si facciano convivere – a seconda delle evenienze – meritocrazia ed extra-legalità. Da allora sono incredibilmente emersi numerosi casi “sospetti” e non poche paiono essere state le irregolarità compiute. A questo punto una domanda risulta inevitabile: chi denuncia, compie un tale passo poiché, in quel determinato momento, il «sistema», dopo averlo benevolmente accolto, protetto e fatto crescere, lo ripudia in nome di altri interessi oppure la sentenza-Scirè ha convinto alcuni studiosi che le irregolarità si possono e si devono denunciare e che l'Università italiana non è una realtà extra legem? La risposta non la conosciamo.
Tra i cittadini si è comunque diffusa l'opinione secondo cui, nel nostro Paese, prima si individua il candidato vincitore e, poi, si bandisce il concorso. Già da anni vari articoli, sulla stampa nazionale, hanno messo in luce situazioni scomode (ad es.: Il peso dei «baroni» nel declino dell'università, «Il Manifesto», 14 ottobre 2020; Università, tempesta sullo strapotere dei “Baroni”, «Panorama», 18 luglio 2019). Nondimeno, sono state evidenziate le ragioni burocratiche, antropologiche e culturali ree di mantenere ancora in essere il cosiddetto potere baronale: «[…] nelle Università italiane i baronati esistono da sempre. In passato hanno funzionato. Era un mondo molto diverso che dava al sapere e alle competenze significati differenti. All'Università ci andavano in pochi, spesso privilegiati. Un docente si attorniava di pochi bravi discepoli che prima o poi lo avrebbero sostituito. La qualità degli assistenti era ragione di vanto. Non è più così. Con la diffusione del sapere e la massificazione degli studi superiori è aumentato il numero dei docenti e quindi dei pretendenti alla spartizione del potere. È perciò prevalsa la logica della mediocrità per meglio preservare il dominio del barone» (L'irresistibile fascino dei baroni nelle università, «la Stampa», 6 ottobre 2017).
Nulla da eccepire. In tempi recenti, tra l'altro, ci ha molto colpiti l'atteggiamento di taluni docenti, in particolare di storia contemporanea, che, in pubblico o sui social, si sono messi negativamente in mostra finendo per compromettere ulteriormente la credibilità dell'ambiente accademico. Facciamo qualche esempio. Il prof. Emanuele Castrucci, filologo dell'ateneo senese, è stato indagato per istigazione e propaganda dopo le sue esternazioni filo-hitleriane; il prof. Marco Gervasoni, storico dell'età contemporanea, indagato per vilipendio nei confronti del Presidente della Repubblica; il prof. Guido Saraceni, filosofo dell'Università di Teramo, e il prof. Simon Levis Sullam, altro contemporaneista, che hanno rilasciato dichiarazioni o realizzato post poco benevoli nei confronti dell'on. Giorgia Meloni e del suo libro autobiografico. Ricordiamo, in ultimo, l'episodio che ha visto come protagonista il prof. Giovanni Gozzini, storico contemporaneista dell'Università di Siena, reo di aver insultato in radio, con epiteti vergognosi, l'on. Meloni rispolverando il più becero classismo comunista: quello, cioè, di una gauche caviar che pone l'intellettuale sopra tutto e tutti poiché egli soltanto possiede il dono della conoscenza ed è capace di insegnare e di operare in posti di rilievo, mentre il “popolo” - il “volgo” - necessita del suo aiuto per comprendere ciò che si desidera fargli comprende; abbisogna di un'educazione a non pensare con la propria testa poiché, nella società, c'è già chi – colto ed intelligente – ha il dovere di pensare e decidere per lui.
Crediamo che un simile atteggiamento strida con la professione – la missione – di docente universitario, cioè di membro incaricato dallo Stato (stiamo pur sempre parlando dell'università pubblica!), di formare le donne e gli uomini, le cittadine e i cittadini di domani.
Non vogliamo, tuttavia, essere troppo duri col prof. Gozzini: il mondo comunista non è nuovo ad interventi ingiuriosi e a critiche offensive nei confronti del “nemico”. Vi inciampò anche colui il quale, nel PCI, godeva di un ruolo e di un appellativo impossibile da contestare: il Migliore, alias Palmiro Togliatti. Il compagno Togliatti, celatosi col nom de plume di Roderigo di Castiglia, non usò mezzi termini quando decise di dirigere i propri rimproveri verso alcuni illustri intellettuali i quali, aperti finalmente gli occhi sulla realtà delle cose, osarono criticare il sistema comunista e denunciarne le miserie. Così di André Gide, premio Nobel per la letteratura, egli scrisse: «Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l'assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente» (I sei che sono falliti, «Rinascita», a. VII, 5, maggio 1950, p. 242).
Come cambiano i tempi! E pensare che oggi i post-comunisti dibattono anima e corpo per l'approvazione del Ddl Zan!
Concorsi pilotati, commenti poco civili nei confronti di membri delle istituzioni, post offensivi sui social ecc. Una parte del mondo accademico sta dando il peggio di sé, ma l'altra parte tende, per lo più, a difendere il «sistema» trincerandosi in linee di difesa a volte discutibili. Tra i docenti di storia contemporanea, ad esempio, è uso il tentativo di screditare l'operato della magistratura sostenendo che, coi provvedimenti presi nei confronti dei colleghi, l'autorità giudiziaria intenda imbrigliare l'attività di ricerca, limitare il docente nell'esercizio delle proprie funzioni, intromettersi in campi non di sua afferenza. Insomma, per gli storici un Tribunale può anche decidere sul «fine vita», ma non deve permettersi di stabilire i confini di una disciplina accademica, men che meno la storia. Tentare di screditare il legislatore non è certo il comportamento più consono ad un dipendente statale il quale, esercitando la professione di cattedratico, svolge funzioni di Pubblico Ufficiale. E, soprattutto, a quegli accademici orfani del PCI ci permettiamo di fare presente che simili contestazioni ricordano molto quelle mosse dal tanto vituperato Cavaliere alla «Magistratura rossa» e che, durante la caccia giustizialista a socialisti e democristiani “ladri e corrotti” di Tangentopoli, proprio loro elargivano applausi ed ovazioni al Pool di Mani Pulite.
Ai professori del «sistema», forse, bisogna chiarire che la magistratura non vuole affatto insegnare loro il mestiere o imporgli programmi di lavoro e ambiti di ricerca, bensì operi per garantire il rispetto delle leggi anche negli Atenei, che non sono al di sopra di esse. Molti, nell'ormai lontano 1991, si sbellicarono dalle risa leggendo sul periodico satirico «Cuore» il titolo: «Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti». Attenzione: il rischio, oggi, è di vederlo attualizzato in «Scatta l'ora legale, panico tra i professori universitari».
Fonte: di JAVERT