"LA STRANA NASCITA DEL GOVERNO NATURALE"
20-09-2019 - STORIE&STORIE
Quando, l’8 agosto scorso, Matteo Salvini, segretario della Lega e ministro degl’interni, ha comunicato al Presidente del Consiglio Conte che erano venute a mancare le condizioni politiche per la partecipazione del suo partito al governo, tutti si aspettavano che Il Presidente del Consiglio rassegnasse subito le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato o, quanto meno, che questi lo convocasse per prendere atto del mutamento nella situazione politica e nei rapporti parlamentari.
Invece, quel giorno, Conte fece la sua comparsa televisiva alle 10 di sera per accusare Salvini di aver innescato la crisi al fine miserabile di capitalizzare elettoralmente il trend positivo del consenso, attestato dai sondaggi a lui favorevoli, e disse di non voler farla passare liscia al suo vice presidente e ministro degl’interni e che, pertanto, si sarebbe presentato in Parlamento per formalizzare l’accusa contro di lui.
Il Quirinale, da parte sua, fece sapere che il Presidente Mattarella non avrebbe modificato i suoi impegni – cioè un volo alla Maddalena dove si sarebbe fermato fino al 13 agosto per poi recarsi a Genova, alla cerimonia di commemorazione della tragedia del ponte Morandi – imponendo così un lungo periodo di decantazione e lasciando nel limbo il governo del paese: nessuno ha saputo fino al 20 agosto se il governo fosse in crisi o no. La stessa opposizione, il PD e LEU, non hanno voluto approfittare per reclamare l’immediata discussione sulla crisi e fare cadere il governo fino a quel momento da essa vituperato.
Ma forse si può dedurre, da quanto è accaduto successivamente, che il fine di questa decantazione sia stato molto semplicemente quello di favorire l’improvviso coup de théâtre dell’inossidabile Renzi, il quale – dopo avere consultato a cena i suoi genitori – da salvatore della patria ha perdonato i 5S per il male da questi arrecato a quei poveretti e ha proposto un governo temporaneo, bonta’ sua istituzionale, allo scopo di votare il bilancio, etc., impedendo così il ricorso a nuove, immediate, elezioni e ottenendo di far fuori il temibile truce Salvini, la cui fuoruscita dal ministero avrebbe fermato, a suo dire, l’ampliamento della sua base di consenso, anzi l’avrebbe erosa.
Dopo la proposta di Renzi, il PD – per bocca del suo segretario Zingaretti, e tutti i caudatari dell’informazione e degl’interessi che stanno dietro a questo partito – hanno rilanciato la posta, come in un tavolo di poker, avanzando l’ipotesi di un governo PD-LEU-5S, non temporaneo ma di legislatura, per avere il tempo di riparare agli errori compiuti, soprattutto per colpa di Salvini, dal governo 5S-Lega e riportare nella giusta direzione il timone del governo: insomma una sorta di nave ONG, tanto amate dalla sinistra, che salvi dal naufragio il paese e, soprattutto, lasci sbarcare i naufraghi del PD nel porto sicuro del potere.
Nulla di nuovo. Infatti, dopo il 4 marzo 2018, avevamo già avuta la sensazione che il PD – ben ancorato nel Quirinale, nella Consulta nonché nelle corti giudiziarie, etc. – e i suoi suddetti caudatari, a cominciare dal buon Eugenio Scalfari che invocava l’accordo del PD con i 5S, non volessero lasciare nemmeno per un attimo il porto sicuro del potere e volessero tirarla per le lunghe con quelle defatiganti consultazioni – costate agli eleganti Corazzieri e commessi del Quirinale due mesi di faticose cerimonie – allo scopo di dare tempo al tempo e alla partenogenesi di tale accordo. Allo scopo, soprattutto, di evitare anche allora lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni, per far scampare il PD da una sconfitta elettorale più pesante di quella appena subita.
Come si sa, Mattarella le provò tutte per non sciogliere le Camere: l’accordo del PD con i 5S venne bloccato dalla vendetta di Renzi, ancora non avviato sulla via del perdono; Cottarelli non riusci’ a combinare il pastrocchio; purtroppo, improvvidamente, venne fuori il cosiddetto contratto di governo 5S-Lega.
Ora, è assai discutibile che, allora, sia stato saggio non sciogliere le Camere per evitare, si disse, instabilità al governo e turbamento ai mercati: una motivazione che non regge visto che anche la Spagna e perfino la Grecia possono permettersi di fare ricorso alle elezioni ripetutamente, anche a distanza di qualche mese l’una dall’altra. È discutibile, soprattutto, per gli effetti nefasti avuti da quel contratto di governo che ha portato all’attuazione di misure dannose e a una devastante indecisione su tutto.
È vero che il PD ha detto peste e corna dei 5S e del loro governo con la Lega. Dobbiamo capire però che questo comportamento dei dem era dettato soprattutto dal dolore per la perdita del potere e dalla loro disperata ricerca dell’occasione per riacciuffarlo.
Ma ciò che qui più conta è tentare di capire perché ora – anche tirando in campo più volte chi dovrebbe starne fuori – si è insistito e voluto tornare all‘accordo PD-5S smentendo la linea che Zingaretti stesso si era impegnato a seguire: che il PD mai si sarebbe alleato con i 5S se non dopo aver avuto il beneplacito degli elettori.
A parte l’interesse a scongiurare il probabile esito negativo del voto per il PD e i 5S in eventuali elezioni anticipate e a evitare che, tra tre anni, l’elezione del Presidente della Repubblica venga fatta da un Parlamento a probabile maggioranza di centro-destra (ragioni che, certamente, non danno a una tale alleanza alcuna dignità politica); a parte l’interesse di entrambi i partiti a occupare le enormi praterie aperte da Salvini che – facendo cadere il governo e cadendo a sua volta in una trappola sapientemente ordita almeno a partire dall’elezione del Presidente della Commissione europea (come ci rivela la formula ‘Ursula’, partorita dalla fervida mente di Romano Prodi) – ha rinunciato al ‘banchetto’ del sottogoverno comprendente la nomina del commissario europeo, che pare toccasse alla Lega. Ma, a parte il collante del potere, il vero motivo di attrazione tra PD e 5S è un altro.
Entrambi questi partiti hanno un’affinità elettiva che rende la loro alleanza meno strana di quanto sia stata quella – anch’essa clamorosamente trasformista – tra M5S e Lega: sono statalisti.
Il primo, che ha le sue radici nel comunismo e nel catto-comunismo, lo è ideologicamente; i ‘robespierristi’ 5S lo sono perché, innamoratisi follemente del potere, credono di poter risolvere tutti i problemi socio-economici distribuendo soldi a destra e a manca׃ reddito di cittadinanza, Alitalia, Whirpool, etc..
Si capisce dunque perché il Presidente della Repubblica, al termine della prima tornata di ‘consultazioni’, si sia mostrato irritato dalle tergiversazioni dei due partiti in questione: sembrava, infatti, che questa piattaforma di interessi comuni – tattici se si vuole, ma anche imperniati su questa ‘affinità elettiva’ – fosse di per sé sufficiente a far decollare la nuova alleanza. Tuttavia, anche di fronte a quell’impasse, ancora una volta non si è negato tempo al tempo smentendo la previsione di consultazioni rapide, a una sola tornata, che gli ambienti quirinalizi avevano prima accreditato: sopra ogni altra considerazione, doveva essere favorita quell’intesa!
Si capisce anche perché – quando sembrò che le più o meno giustificate richieste di Di Maio di un proprio ruolo nel governo come capo politico del suo partito e, soprattutto, di non vedere sconfessate le linee salienti seguite dal precedente governo (in particolare, i decreti sicurezza 1 e 2) – autorevoli, ‘alti’, interventi (compreso l’appello di Grillo in persona ai giovani dem perché imponessero al loro partito di cogliere l’occasione unica) ridettero impulso e coraggio al buon Conte perché non rinunciasse all’incarico di formare il governo.
Superato lo scoglio del voto dei ‘senatori’ della Piattaforma Rousseau sull’anoressico quesito (volete voi un governo Conte con il PD?, con annesso suntino sbianchettato di un programma di governo ancora non definito) nacque, finalmente un governo Conte 2.0 (quasi ‘Fico’) – partorito dalla testa di Giove, battezzato da Trump e benedetto dal ‘riconoscente’ Oettinger e dai mercati – che Conte ha definito di novità (cioè di rinnovato trasformismo), con un programma di trite genericità, anch’esse ‘populiste’, ma di ‘sinistra’: lotta all’evasione fiscale; green economy; lavoro, lavoro, lavoro; redistribuzione della ricchezza senza averla prima prodotta, spesa pubblica; riduzione del carico fiscale: tasse, tasse, tasse; qualche ovvia ambiguità sulle infrastrutture e sull’immigrazione; etc.; etc., etc.. Dulcis in fundo, revisione della legge elettorale per fregare Salvini & c..
In poco più di vent’anni abbiamo avuto ben tre leggi elettorali (mattarellum porcellum, rosatellum), fatte tutte per fregare gli avversari: la Gran Bretagna non cambia la sua legge elettorale da trecento anni!
A proposito di fregature: nulla esclude che, ora, qualche inchiesta giudiziaria possa approdare in Tribunale, con la richiesta, per il truce, di rinvio a giudizio per sequestro di persona.
Sulla squadra dei ministri c’è da dire poco se non ribadire la necessità di avere qualche garanzia sulla competenza e di un chiarimento costituzionale sui poteri del Presidente della Repubblica nella loro nomina.
Quello che è certo è che non avremo il governo del ‘cambiamento’, già promesso dai 5S, né quello di ‘svolta’, ora sventolato dal PD.
Ma è un governo naturale (lo dice pure D’Alema) perché, come si è detto, unisce i due nuovi pilastri italiani dello statalismo; esso infatti non affronterà, anzi aggraverà, il problema di fondo, strutturale, che ha travagliato le varie ‘repubbliche’ italiane (I, II e III incipiente): lo statalismo che, di per sé, è portatore di quei mali cronici – tra i quali l’occupazione ‘militare’ dei gangli vitali delle istituzioni (magistratura, etc.) e della società (informazione, etc.), risalente alla versione togliattiana della strategia gramsciana dell’egemonia – dai quali ci si dovrebbe e vorrebbe liberare.
Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'