"IL PARADOSSO ISRAELE"
22-05-2018 - STORIE&STORIE
Non c´è altro termine che "paradosso" per definire l´atteggiamento verso Israele che caratterizza non solo il sistema mediatico internazionale ma anche quello di molti Governi occidentali, che pur tuttavia con Israele intrattengono normali rapporti diplomatici.
E´ infatti un unicum nella storia il caso di uno Stato (Israele), nato per volontà largamente maggioritaria dell´ONU e riconosciuto da quasi tutti i Paesi con l´eccezione – neppure totale – di quelli arabi, di cui, a 70 anni dalla nascita, si continua a contestare non tanto la politica di questo o quel governo ma il suo stesso diritto all´esistenza, la sua legittimità "storica e politica", come ebbe a dirmi un autorevole intellettuale italiano nel corso di una discussione.
E´ tale e tanta la confusione che esiste intorno a Israele che c´è un unico modo per cercare di diradare il fumo delle chiacchere, dei luoghi comuni, degli stereotipi, delle invettive scagliate a caso: quello di ricostruire, in maniera necessariamente sommaria, l´iter storico che porta fino ai nostri giorni, ricordando i momenti fondamentali di questa vicenda. Si rischia così di dire cose banali ma che troppo spesso vengono ignorate.
Lo Stato d´Israele venne proclamato il 14 maggio 1948 in seguito alla Risoluzione n. 181 del 27 novembre 1947 dell´Assemblea Generale dell´ONU, che aveva deliberato la fine del mandato britannico di Palestina e la nascita di due Stati, uno ebraico e uno arabo, e l´internazionalizzazione di Gerusalemme e dell´area circostante. L´approvazione della Risoluzione fu possibile grazie al voto congiunto degli Stai Uniti e dell´Unione Sovietica nonché di buona parte degli Stati che facevano allora parte dell´ONU, con l´eccezione degli Stati arabo-islamici e della Gran Bretagna, che si astenne.
La classe dirigente ebraica - che da decenni aveva già formato in Palestina l´embrione di uno Stato - accettò immediatamente la Risoluzione, che concedeva allo stato ebraico un territorio molto inferiore a quello su cui è nato effettivamente lo Stato d´Israele, e altrettanto immediatamente gli Stati arabi la rifiutarono, non solo ma immediatamente i quattro Stati confinanti (Egitto, Libano, Siria, Transgiordania) e l´Iraq attaccarono il neonato Stato ebraico. La disparità di forze era tale da lasciar pensare a una rapida conclusione della guerra a vantaggio degli Stati arabi ma l´esito fu esattamente l´opposto: gli eserciti arabi furono sconfitti e furono costretti all´inizio del 1949 a firmare un armistizio che definiva quelli che poi sono rimasti fino alla guerra dei Sei giorni i confini tra Israele e Paesi confinanti, confini tuttavia mai riconosciuti ufficialmente perché i cinque Stati arabi rifiutarono di firmare un trattato di pace con lo Stato ebraico.
La conclusione delle ostilità lasciò in mano araba due territori divisi tra loro, la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Si poteva pensare che su questi territori sarebbe sorto uno Stato arabo-palestinese, in attesa di sviluppi futuri che potessero consentire, dal punto di vista arabo, l´eliminazione totale della presenza ebraica in quella terra. Ma niente di questo accadde: l´Egitto procedette all´annessione di Gaza e lo steso fece la Transgiordania con la Cisgiordania, mutando in conseguenza il suo nome in Giordania. Niente si modificò fino al 1967: la stessa guerra di Suez del 1956 non modificò l´assetto della regione perché Israele restituì, per decisione dell´ONU, il Sinai che aveva interamente occupato nel corso della guerra, in cambio della smilitarizzazione della penisola e del libero accesso al porto di Eilat attraverso gli stretti di Tiran.
La guerra dei Sei giorni ebbe un ruolo decisivo nella definizione degli equilibri tra Israele e i Paesi arabi: il Presidente egiziano Nasser, alfiere del panarabismo, convinto di aver ormai la forza sufficiente, anche con l´aiuto dell´URSS, per schiacciare Israele e rovesciare così l´esito della guerra del 1948/49, riuscì a convincere Siria e Giordania a unirsi a lui scatenando contro Israele una guerra su tre fronti che avrebbe dovuto polverizzare lo Stato ebraico. Anche in questo caso, per la terza volta le cose andarono in maniera opposta: in appena sei giorni dal 5 all´11 giugno 1967, l´esercito israeliano sconfisse uno dopo l´altro i tre Stati arabi, conquistando di nuovo l´intera penisola del Sinai, oltre a Gaza, le alture del Gola, che dal lato siriano sovrastavano la Galilea, e la Cisgiordania, compresa la Città Vecchia di Gerusalemme, che nel 1948 era rimasta in mano giordana.
Poco dopo la conclusione del conflitto lo Stato d´Israele fece un´offerta agli Stati arabi: propose la restituzione dei territori occupati in cambio del riconoscimento del proprio diritto all´esistenza e la conclusione di un trattato di pace. La risposta degli Stati arabi venne dalla Conferenza di Khartoum del 1° settembre 1967, che fu definita la conferenza dei "tre no": no al riconoscimento di Israele, no alle trattative con Israele, no alla pace con Israele.
Questa situazione rimase immutata nei decenni successivi, né fu modificata dal nuovo attacco egiziano che nell´ottobre 1973 tentò, di nuovo con l´aiuto della Siria, di sorprendere lo Stato ebraico con un nuovo attacco il giorno di Kippur, la più solenne festività ebraica, quando tutte le attività si interrompono. Dopo uno sbandamento iniziale, le truppe israeliane ripresero il controllo e la situazione tornò quella che era stata definita con la guerra dei Sei giorni. A questo punto il nuovo presidente egiziano Sadat si convinse che per il suo Paese era un grave danno tentare di continuare a perseguire l´obiettivo della distruzione di Israele, e nel 1977, con uno spettacolare viaggio a Gerusalemme, pose le basi per la conclusione della pace, che fu firmata due anni dopo. In cambio della pace Israele restituì integralmente il Sinai. Alcuni anni dopo, nel 1994, anche la Giordania accettò di riconoscere lo Stato d´Israele e di firmare con esso la pace, rinunciando a qualsiasi diritto sulla Cisgiordania.
Tuttavia dopo la guerra dei Sei giorni era entrato in scena un nuovo attore, che fino allora non aveva avuto un rilievo significativo, il movimento palestinese, sotto forma di Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidato da Yasser Arafat. Questo movimento assunse subito un carattere terroristico: due furono i suoi principali strumenti di lotta: i dirottamenti aerei a danno di compagnie occidentali, che provocarono centinaia di vittime civili; e gli attentati, sempre contro obiettivi civili, all´interno dello Stato d´Israele: autobus, ristoranti, pizzerie, bar, discoteche e altri luoghi di ritrovo. Anche in questo caso le vittime furono centinaia. Tuttavia questa strategia terroristica, durata più di venti anni, non produsse alcun risultato, e finalmente, nel 1993, sembrò che la dirigenza palestinese avesse accettato realisticamente la situazione riconoscendo l´esistenza dello Stato d´Israele e intavolando con esso trattative di pace che avrebbero dovuto portare alla nascita, accanto allo Stato ebraico, di uno Stato arabo-palestinese. Gli accordi di Oslo del 1993 sembravano aver compiuto un passo decisivo in questa direzione: le principali città della Cisgiordania furono affidata al controllo integrale dell´OLP e fu formata l´Autorità Nazionale Palestinese, presieduta da Arafat, che avrebbe dovuto concludere con Israele una pace definitiva, basata sul principio "due popoli due Stati".
Il momento decisivo della trattativa – e del suo fallimento – fu costituita dal summit di Camp David del luglio 2000, quando il presidente americano Bill Clinton propose un piano di pace che prevedeva la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, con alcune leggere correzioni territoriali per garantire la sicurezza d´Israele, compensate da altri territori in altre aree del Paese. Quando l´accordo sembrava ormai fatto Arafat rifiutò, chiedendo l´applicazione integrale del "principio del ritorno", cioè il diritto di tornare nei territori nei quali si era formato lo Stato d´Israele non solo di tutti coloro che, a causa della guerra del 1948/49, erano fuggiti, ma anche dei loro discendenti che ormai vivevano da decenni in altri Stati arabi o in altre parti del mondo. L´accettazione integrale della richiesta di Arafat avrebbe comportato l´ingresso in Israele di milioni di arabi ed avrebbe snaturato il carattere etnico e identitario dello Stato ebraico, che non poteva perciò accettarla, pur concedendo il "ritorno" ad alcune decine di migliaia di profughi. Il vertice di Camp Dvid – l´ultimo serio tentativo di concludere una pace tra Israele e i palestinesi – così fallì e riprese con rinnovata virulenza l´intifada, cioè la serie gli attentati sanguinosi contro i civili israeliani, intifada che in realtà che avevo insanguinato le città israeliane anche negli anni ´90, nel corso delle trattative successive agli accordi di Oslo.
Che cosa è cambiato in questi ultimi 18 anni? Apparentemente nulla, poiché i vari tentativi di arrivare a una pace sono tutti falliti per l´intransigenza palestinese. In realtà moltissimo è cambiato nel quadro medio-orientale, con profonde ripercussioni anche nella realtà palestinese.
Il fenomeno che ha caratterizzato il Medio Oriente – e non solo – negli ultimi 30 anni è stato il processo di re-islamizzazione che ha radicalizzato le posizioni all´interno del modo arabo e non solo, nell´intera galassia islamica. L´evento che ha segnato il tornante della storia del mondo islamico è stata la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979. Da allora il radicalismo islamista, che era sempre stato presente nel mondo islamico – e in particolare in quello sunnita sotto la guida dell´organizzazione dei Fratelli musulmani, ha acquistato una nuova virulenza, che ha prodotto fenomeni come quello di Al Qaeda e poi dell´Isis, che si sono proposti l´obiettivo di una guerra totale contro l´Occidente e naturalmente contro Israele. Se le città europee e americane sono state insanguinate dagli attentati di queste organizzazioni terroristiche, tuttavia esse non sono riuscite a conseguire il loro obiettivo di unificare tutto il mondo islamico sotto la loro direzione e sono state, quando hanno voluto darsi un asseetto territoriale, sconfitte sul campo.
Tuttavia il fenomeno del fondamentalismo islamico non è stato sconfitto e ha trovato un alfiere e un punto di riferimento nell´Iran khomeninista. In un processo di crescente radicalizzazione l´Iran si è posto l´obiettivo di riuscire là dove erano stati sconfitti in passato gli Stati arabi e lo stesso movimento palestinese, la distruzione di Israele. La distruzione di Israele è diventato l´obiettivo principale, esplicitamente dichiarato, dell´Iran e su questa base esso è riuscito ad acquistare influenza in numerose aree dove esiste una rilevante presenza sciita come il Libano, l´Iraq, lo Yemen, o dove l´appoggio politico e militare iraniano ha permesso di superare la tradizionale differenziazione tra sciiti e sunniti, come in Siria e a Gaza.
Uno dei paradossi di Israele è quindi costituito dal fatto che, oltre a concludere trattati di pace con l´Egitto e la Giordania, ha stabilito rapporti economici e culturali con molti altri Stati arabi, come il Marocco e la Tunisia, e ha costruito rapporti di fatto con buona parte dei Paesi sunniti della penisola arabica (l´Arabia saudita, il Barhein , gli Emirati del Golfo ecc.), si trova adesso di fronte alla minaccia costituita dall´Iran che ha fatto della distruzione di Israele la sua dottrina ufficiale, ottenendo, come si è detto, su questo obiettivo, il consenso di movimenti sciiti e non che si trovano intorno a Israele: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, il regime baathista in Siria.
Questo quadro si completa con l´esame delle posizioni assunte dagli altri attori che si trovano fuori del Medio Oriente ma che influenzano profondamente la situazione mediorientale: non solo la Turchia, che persegue da anni un disegno neo-ottomano di riconquista di influenza su tutta l´area mediorientale, ma soprattutto i Paesi europei, la Russia e gli Stati Uniti. Questi ultimi sono passati – con il passaggio dall´amministrazione democratica a quella di Trump – da una posizione di sostanziale appeasement verso l´Iran e di neutralità verso Israele – a una di deciso contenimento verso le pretese egemoniche iraniane e di forte appoggio ad Israele. I Paesi europei (di politica dell´Unione europea non è il caso di parlare) hanno mantenuto una posizione di sostanziale debolezza e di appeasement verso l´Iran, che li ha progressivamente allontanati dagli Stati Uniti.
Il quadro non sarebbe completo se non si tenesse conto della situazione interna di Israele. Sotto il profilo politico, l´aggressività iraniana e l´estremismo di Hamas e in generale della dirigenza palestinese hanno rafforzato le posizioni dei partiti di centro-destra e in particolare quella di Benjamin Netanyahu, ed hanno indebolito il centro-sinistra, condizionato dal permanere di posizioni pacifiste che non trovano più un´eco significativa nell´opinione pubblica israeliana. Appare tuttavia significativo l´emergere id un partito come quello di Yair Lapid ("C´è un futuro") che, con molta forzatura, si potrebbe definire "macroniano".
Ma l´aspetto più rilevante e significativo di Israele è stato negli ultimi anni il suo impetuoso sviluppo nel campo della ricerca scientifica e delle innovazioni tecnologiche, che stanno alla base del suo notevole tasso di sviluppo economico, che supera costantemente il 4 % annuo. Se anche permangono – come in tutti i Paesi sviluppati – differenze sociali significative, oggi il Paese si ritrova sostanzialmente a vivere una fase di autostima che forse non ha precedenti nella sua tormentata storia e che ha trovato nella celebrazione del suo 70° compleanno il suo momento culminante.
Fonte: di VALENTINO BALDACCI