La maggior parte delle prime pagine dei giornali italiani del 6 dicembre scorso hanno gettato nel panico l’opinione pubblica annunciando con titoli roboanti la nuova National security strategy (NSS); ne citerò alcuni: "Corriere della sera": L’attacco chock di Trump all’Europa – "La Repubblica": Trump scarica l’Europa – "La Stampa": Europa addio. Strappo americano – "Il Giornale": Il piano Trump per scaricare UE e NATO; "Libero": Donald Trump pubblica il manifesto che cambierà il mondo e, ancora, Meloni: l’Europa si difenderà da sola. "Il Foglio" addirittura ci comunica che, «con la National security strategy di Trump, l’America è ufficialmente un avversario».
Questo documento è fondato sulla premessa che, «dopo la fine della Guerra Fredda, le élite che hanno forgiato la politica estera americana erano convinte che il dominio americano permanente sul mondo intero fosse nel migliore interesse del nostro Paese. Tuttavia, gli affari degli altri Paesi ci riguardano solo se le loro attività minacciano direttamente i nostri interessi. Le nostre élite hanno mal calcolato la volontà dell'America di assumersi per sempre oneri globali ai quali il popolo americano non vedeva alcun collegamento con l'interesse nazionale».
È inutile qui ripercorrere il dibattito che si aprì allora su "globalizzazione", "fine della storia", supremazia liberal-democratica, etc.: ormai è assodato che, accanto alla improvvisa e generale modificazione delle strutture economiche e alla rivoluzione informatica, ciò che rimaneva immutata era la realtà dei rapporti di forza tra le varie parti di questo mondo: una realtà assai lontana dalla utopia di un mondo multipolare e unito – ma senza regole e, soprattutto, senza un’autorità capace di farle osservare – da pacifici scambi economici, culturali e di popolazioni.
Come del resto è inutile discutere del principio politico che guida le scelte di Trump: l’interesse nazionale, "America first"; infatti, alla luce della storia e allo stato delle cose, credo che nessuna politica estera, di nessun paese, sia o possa essere fondata sulla posposizione dell’interesse proprio rispetto a interessi esterni: non possiamo aspettarci che qualcuno sacrifichi i propri interessi in favore di altri se non sulla base di una reciprocità che si potrebbe ottenere soltanto con un processo lungo e per nulla attuale in un mondo in cui molti attori – a cominciare da Stati Uniti, Russia, Cina, Iran e, non ultima, Corea del Nord – cercano di affermare i propri interessi anche armandosi fino ai denti.
Ciò che dobbiamo cercare di capire e discutere della dottrina di Trump è la sua correttezza in termini di interesse nazionale americano in rapporto alla situazione delle relazioni internazionali attuali. Da questo punto di vista non possiamo non ammettere la fondatezza degli scopi che si prefigge: «Vogliamo mantenere senza rivali il “soft power” degli Stati Uniti’ attraverso il quale esercitiamo un'influenza positiva in tutto il mondo per promuove i nostri interessi. Così facendo, non ci scuseremo del passato e del presente del nostro Paese [il riferimento è alla giustamente deprecata "woke culture"], ma saremo rispettosi delle diverse religioni, culture e sistemi governativi degli altri Paesi’. “Il soft power” che serve il vero interesse nazionale dell'America è efficace solo se crediamo nella grandezza e moralità intrinseche del nostro Paese … Vogliamo proteggere questo Paese, la sua gente, il suo territorio, la sua economia e il suo stile di vita dagli attacchi militari e dalle influenze straniere ostili, che si tratti di spionaggio, pratiche commerciali predatorie, traffico di droga e di esseri umani, propaganda distruttiva e operazioni di influenza, sovversione culturale o qualsiasi altra minaccia per la nostra nazione … Vogliamo il pieno controllo sui nostri confini, sul nostro sistema di immigrazione e sulle reti di trasporto attraverso le quali le persone entrano nel nostro Paese, legalmente e illegalmente … Noi vogliamo il deterrente nucleare più forte, credibile e moderno del mondo, difese missilistiche di nuova generazione – inclusa una Cupola d'Oro [che sarebbe l’erede di quel famoso "scudo spaziale" di Reagan che convinse Gorbaciov ad abbandonare l’arena] per la patria Americana, per proteggere il popolo americano, i beni americani all'estero e i nostri Alleati …Per raggiungere questi obiettivi è necessario mobilitare e controllare tutte le risorse del nostro potere nazionale … Vogliamo l'economia più forte, più dinamica, più innovativa e più avanzata del mondo. L’economia statunitense è il fondamento dello stile di vita americano … e anche della nostra posizione globale e il fondamento necessario delle nostre forze armate. Vogliamo la base industriale più solida del mondo... Ciò richiede non solo capacità produttiva diretta dell’industria della difesa, ma anche capacità produttiva legata alla difesa. Coltivare la forza industriale americana deve diventare la massima priorità della politica economica nazionale».
A questo punto, in questo documento, lo stesso Trump deve concedere che «il focus di questa strategia è la politica estera» e deve chiedersi: «quali sono gl’interessi al cuore della politica estera dell'America? Cosa vogliamo dal nostro paese e dal mondo? Vogliamo garantire che l’Emisfero Occidentale rimanga ragionevolmente stabile e sufficientemente ben governato da prevenire e scoraggiare la migrazione di massa verso gli Stati Uniti; vogliamo un emisfero i cui governi cooperino con noi contro narcoterroristi, cartelli e altri organizzazioni criminali transnazionali; vogliamo un emisfero che rimanga libero da incursioni o proprietà straniere ostili di beni e risorse chiave e che supporta la catena dell'approvvigionamento critico garantendo la continuità del nostro accesso alle principali posizioni strategiche … Vogliamo fermare e invertire i danni inflitti attualmente dagli attori stranieri all'economia americana mantenendo l'Indo-Pacifico libero e aperto, preservare la libertà di navigazione in tutte le rotte marittime cruciali … Vogliamo impedire che una potenza nemica domini il Medio Oriente, le sue riserve di petrolio e gas e i punti critici attraverso i quali passano ed evitare le "guerre eterne" che ci hanno impantanato in quella regione a caro prezzo; Vogliamo garantire che la tecnologia statunitense e gli standard statunitensi, in particolare l’intelligenza artificiale, la biotecnologia e l’informatica quantistica facciano avanzare il mondo … Vogliamo sostenere i nostri alleati nel preservare la libertà e la sicurezza dell'Europa, ripristinando al contempo l'autostima della civiltà europea e l’identità dell'Occidente: in altre parole… affermeremo e applicheremo un "Corollario Trump" alla “Dottrina Monroe».
Che questi siano gl’interessi americani degni di essere tutelati, difesi e promossi spetta deciderlo agli americani e, francamente, se hanno deciso che siano questi, io personalmente non ho alcuna obiezione anche perché penso che siano questi gl’interessi che ogni paese dovrebbe coltivare in ragione dei mezzi di cui dispone (e quelli degli Stati Uniti sono, per fortuna, enormi).
Si può dissentire dai mezzi che si vogliono impiegare per il raggiungimento di questi fini ma certamente non si può negare la legittimità e utilità dei fini.
Ora, come ci spiega lo stesso Trump all’inizio di questo documento, una «“strategia” è un piano concreto e realistico che organizza la connessione essenziale tra fini e mezzi» e dunque dobbiamo cercare di valutare se i mezzi che Trump intende usare (dai dazi ai rapporti con l’Europa e gli altri alleati – Canada, Australia, Giappone, etc.- e con la Russia e la Cina) siano i migliori per la strategia perseguita.
La benemerita ‘Dottrina Monroe’ cui Trump si appella fu formulata all’epoca della rivolta delle colonie spagnole dell’America del Sud ed intendeva essere un avvertimento alla Santa Alleanza perché si tenesse fuori dalla mischia. Un avvertimento giusto e necessario ma che sarebbe rimasto sulla carta, una pia intenzione, se allora la flotta britannica non fosse stata un deterrente ben più convincente perché la Russia, la Prussia e la Francia rinunciassero a mettere piede in America del Sud per iniziare una nuova penetrazione in quel continente.
Lo stesso Thomas Jefferson riconobbe allora che, pur se «La Gran Bretagna è la nazione della terra che ci può maggiormente danneggiare, avendola al nostro fianco non avremo più nulla da temere».
Oggi quel continente è nella mira dei BRICS e l’indo-pacifico sta divenendo il fulcro del potere economico-politico-militare mondiale con la Cina come potenza egemone e non solo in quell’area. Gli Stati Uniti sono in atto la sola potenza che può equilibrarne il peso ma non da soli. Come e con quali mezzi e alleanze?
Trump lo sa bene e, da tempo, ha un suo piano anche in funzione della guerra che la Russia ha portato contro l’Ucraina; il redivivo presidente americano lo spiega benissimo nel documento in questione: «È un interesse fondamentale degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, impedire un'escalation o un'espansione involontaria della guerra e ristabilire la stabilità strategica con la Russia, nonché consentire la ricostruzione post-ostilità dell'Ucraina per consentirne la sopravvivenza come Stato vitale».
Ma le buone intenzioni del Presidente americano sono soverchiate dai pessimi risultati di questa strategia. Il fatto è che, per ristabilire la stabilità strategica con la Russia, sembra che, al momento, Trump sia disposto a fare pagare all’Ucraina (e all’Europa) un prezzo molto alto cioè dando mano libera alla Russia non solo nel Donbass ma, in prospettiva, anche in Europa Orientale e baltica e rischia il gioco d’azzardo illudendosi di poter ottenere una fantomatica partnership economica con la Russia non solo nel Donbass ma anche nell’Artico (compresa la Groenlandia?). Tutto questo – vero o falso che sia – è un errore di cui ora sta profittando la Russia di Putin e Medvedev per minacciare l’Ucraina e l’Unione Europea. Non a caso Putin continua ad alzare il prezzo annunciando, anche durante la recente visita in India, che la Russia ‘libererà’ non solo il Donbass ma anche la Novorossiya, la "Nuova Russia", territorio conquistato dall'Impero russo nel XVIII secolo, comprendente quasi due terzi dell'attuale Ucraina (compresa Odessa) e buona parte della Moldavia; poi sarà la volta dei Paesi baltici e della Polonia, di cui forse a Putin piacerebbe una ennesima spartizione come da mappa Ribbentrop-Molotov. Auguri.
In sostanza la "tattica" di Trump rischia di dare a Putin due premi insperati: la vittoria sul terreno nonostante le perdite gravissime subite in quattro anni di guerra e la divisione dell’Occidente.
Vi è infatti un altro alto prezzo che la ostpolitik di Trump rischia di dover pagare: non solo un risultato diverso da quello atteso, cioè un rafforzamento piuttosto che un indebolimento della Russia e del suo legame con la Cina, ma anche quello di risvegliare quella ostpolitik franco-tedesca, diretta a stabilire un rapporto privilegiato con la Cina e con la Russia in modo che Germania e Francia possano affermare una loro egemonia nell’Unione Europea e porsi come alternativa all’euro-atlantismo. Non so se a Trump convenga far pagare agli Stati Uniti e all’Europa un prezzo così alto.
È bene allora che Trump ricordi un altro "corollario" alla Dottrina Monroe, quello di Theodore Roosevelt, fondato sulla "Open Door" di McKinley e sull’intuizione strategica dell’amiraglio Mahan, cioè che l’interesse principale degli Stati Uniti come potenza ‘insulare’ fosse quello di non permettere il consolidamento di un agglomerato euro-asiatico egemonizzato da una o l’altra delle potenze europee o asiatiche. È stata questa la strategia seguita dagli Stati Uniti per tutto il XX secolo e che, fino ad ora, ha avuto successo.
Trump riconosce ancora che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti... Non solo non possiamo permetterci di cancellare l’Europa, ma farlo sarebbe controproducente per ciò cui questa strategia mira».
Un tale proposito, enunciato nella NSS, è però assolutamente contraddittorio con l’uso di certe asprezze verbali che si percepiscono quasi come volontà di rovesciamento delle alleanze e che stanno dando munizioni ai nemici di Trump e ai nemici dell’America – sempre numerosi in Europa, soprattutto in Italia dove molti, come gli ex comunisti, si dicono europeisti ma in funzione anti-americana – e suscitando preoccupazioni anche in alleati fedeli come la Danimarca, addirittura minacciata da Trump di venire espropriata della Groenlandia.
In questa battaglia verbale è comparsa pure una versione piuttosto verosimile – ma, a quanto pare, apocrifa – di un piano trumpiano diretto a provocare una secessione di alcuni stati chiave (tra cui l’Italia) dall’UE e così strozzare il conato di unità delle nazioni europee.
È certo possibile e forse anche giusto che Trump – il quale in questo stesso documento dice di voler sostenere gli alleati per continuare a preservare la libertà e la sicurezza dell'Europa – non taccia delle debolezze e delle inadempienze degli alleati europei e, soprattutto, dei rischi di decadenza che in atto corre l’Europa sia sul piano demografico sia su quelli culturale ed economico. È vero che – come dice Trump avvertendoci che «gli Stati europei non possono riformarsi se sono intrappolati in una crisi politica» – «un'ampia maggioranza europea vuole la pace, però questo desiderio non si traduce in politica», ma è del tutto infondato e fuorviante attribuire questa crisi politica dell’Europa alla «sovversione dei processi democratici da parte di quei governi»: in realtà, Trump non sa vedere – o non vuole vedere e riconoscere – le vere cause di questa crisi: Trump non capisce che la debolezza dell’Europa sta nel suo deficit di unità, nella sua incapacità di portare avanti il suo "federalizing process". È infatti questo deficit – questa talvolta intollerabile confusione di poteri che spesso intrappola gli stati membri in un eccesso di "burocratizzazione ideologizzata" – a rendere debole l’UE, non solo al suo interno ma anche all’esterno per la impossibilità di avere una politica estera e di difesa unitaria essendo il suo processo decisionale soggetto al meccanismo paralizzante dell’unanimità: nei giorni scorsi ne abbiamo avuto la più triste evidenza vedendo un "assonnato" Consiglio dei capi di stato e di governo europei discutere fino a notte fonda se e come continuare ad aiutare finanziariamente l’Ucraina.
È chiaro che questa paralisi non potrà essere superata fino a quando non sarà chiara la divisione dei poteri tra stati membri e governo federale. Oggi la confusione è massima e pericolosa.
Tutti, noi europei, conosciamo, deprechiamo queste debolezze e anche i possibili conflitti di interessi e di idee che possono determinare divisioni tra noi stessi e, anche, con gli Stati Uniti e però non agiamo per superarli. Forse ancora a molti non è chiaro che una più perfetta "unione" è cosa molto diversa non solo dal disegno uscito dai trattati di Maastricht e di Lisbona ma anche dal farraginoso e confuso "trattato costituzionale" (vera e propria contraddizione in termini perché le costituzioni non si fanno con un trattato) che fu messo in piedi nel 2004 non da ‘rappresentanti dei popoli’ ma da una ‘Convention’ di ‘esperti’ – sotto la guida dei cosiddetti tre saggi, Giuliano Amato, Valery Giscard d’Estaing e Ralf Darhendorf – e che però fu fortunatamente affossato dalla mancata ratifica da parte dei popoli di Francia e Olanda (assurdamente, il popolo italiano non fu chiamato a pronunziarsi perché una discutibile norma costituzionale, l’art. 75, vieta che i trattati internazionali vengano sottoposti a referendum popolare).
Da questo punto di vista, i punti critici sono molti ed è bene che su questi si apra un dibattito non solo in Europa ma anche in America. Bisogna che l’America incoraggi le nazioni dell’UE a fare il passo che molti di noi attendono verso quella "più perfetta unione" che gli Stati Uniti ottennero con la Costituzione di Filadelfia. Ma bisogna altresì che Stati Uniti e l’Europa atlantica ritrovino l’intesa più ampia e feconda: solo così potremo insieme perseguire la pace a cominciare dalla salvaguardia dell’indipendenza dell’Ucraina che certo non si può affidare alle cure affettuose della Russia: l’interesse americano non può essere l’indebolimento e la disgregazione del pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica.
Il corollario al "corollario di Trump" è dunque questo: se il pilastro europeo cadesse, se tra le due sponde dell’Atlantico non fosse più possibile quella comunione morale, politica ed economica che si è avuta durante la "guerra fredda" - pur se ferocemente avversata dai filosovietici di un tempo (che, in generale, sono rimasti filorussi ‘a prescindere’) – se gli Stati Uniti dovessero trovarsi da soli di fronte a un agglomerato euro-asiatico, allora dovremo attenderci sconvolgimenti furiosi che, per gli Stati Uniti, potrebbero significare dover tentare un nuovo "sbarco in Normandia".