La linea ‘pravdiana' del Corriere della Sera è stata recentemente ribadita con la ripubblicazione di una intervista fatta da Oriana Fallaci a Enrico Berlinguer nel luglio 1980. Che la motivazione sia fortemente celebrativa è provato dalla foto dei funerali di Berlinguer che correda questa riedizione dell'intervista; una foto di quattro anni successiva all'intervista e, quindi, non necessaria per documentarla: una foto che fa il paio con il dipinto di Renato Guttuso che ritrae i funerali di Togliatti, celebrato nel 1964 in stile sovietico con gli "apparatchiki" schierati. Nel grande quadro realizzato nel 1972 – otto anni dopo quell'imponente manifestazione – guarda caso Guttuso, quasi per fissare la predestinazione dell'astro nascente, ritrasse Enrico Berlinguer, divenuto segretario del PCI da poco (1972), in primissimo piano tra gli "apparatchiki" del 1964 e chiaramente distinguibile assieme a Nilde Jotti: una investitura ex post dal momento che, nel 1964, Berlinguer era solo uno dei membri del ‘politburo' e, quindi, un "apparatchik" non di primissimo piano.
Un vero e proprio culto della personalità, quasi una celebrazione o meglio una ‘canonizzazione', estesa all'intero PCI assolvendolo dalle sue inclinazioni totalitarie nelle varie versioni leninista, stalinista, togliattiana, e che ci propone una versione edulcorata di quella che fu la storia e la funzione di quel partito in Italia. Il tutto basato su quella autogiustificazione, ‘storicistica', di cui Berlinguer fu, dopo Togliatti, il banditore più applaudito e riverito: «il nostro partito è in gran parte sorto dalla Terza Internazionale di Lenin, cioè sotto l'influenza della Rivoluzione d'ottobre … è un dato della nostra storia … non vogliamo rompere».
Preciso subito che la responsabilità di questa linea ‘canonizzante' del ‘Corriere' non è attribuibile alla Fallaci bensì all'intento con cui oggi la sua intervista è stata ripubblicata dal ‘Corriere', cioè quello di attribuire al partito comunista di Berlinguer una svolta democratica, occidentalista, europeista, senza che mai quel partito e i suoi adepti si fossero ‘sciacquati in Arno', senza cioè quella Bad Godesberg che ‘ribattezzò i socialdemocratici tedeschi, contro i quali anzi i comunisti italiani non mancarono di lanciare i loro anatemi.
L'intervista condotta dalla Fallaci è infatti perfetta perché negl'interstizi delle domande e delle relative risposte si rivela tutta la funambolesca abilità con cui Berlinguer cerca di salvare capra e cavoli, cioè la tradizione marxista-leninista e la sua ‘terza via'. Certo, a pensarci bene, la ‘canonizzazione' non è campata in aria non foss'altro per l'orrore che, nell'intervista, Berlinguer dice di provare al pensiero che, se fosse vissuto negli Stati Uniti, avrebbe potuto ‘rischiare' di diventare ‘miliardario'.
Ma, quanto al giudizio storico-politico di Berlinguer sugli Stati Uniti, basta ricordare quel che egli scrisse nell'editoriale che apriva il numero speciale dell'Unità del 27 febbraio 1983, dedicato al centenario della morte di Marx e che intendeva essere una sorta di nuova carta ideologica del PCI. Egli allora lamentava che negli Stati Uniti, pur essendovi «fiorito uno stuolo numeroso di studiosi di valore … che hanno dato contributi anche elevati all'approfondimento e all'aggiornamento della elaborazione di Marx, lì però, a un certo punto, è venuta a mancare, e manca tuttora, una assimilazione di massa degli ammaestramenti del grande rivoluzionario di Treviri; mancanza che ha lasciato la classe operaia e le masse lavoratrici al di qua dei loro compiti storici ai fini della fuoruscita dal capitalismo».
Alle masse americane, quasi impermeabili al verbo marxiano e, quindi, ‘infedeli', Berlinguer contrappone «l'impronta al tempo stesso di massa e creativa del marxismo italiano», dovuta «sia alla carica particolarmente radicale della classe operaia italiana, sia al modo come Marx è stato interpretato e tradotto in azione dai più lungimiranti rivoluzionari italiani». Un giudizio, questo, che intende sottolineare l'arretratezza e la subalternità delle masse americane e la fondamentale fragilità di quella società nel suo complesso. È sorprendente come Berlinguer potesse cadere ancora in questo luogo comune.
Ora è proprio a questo punto che la celebrata linea politica di Berlinguer rivela tutti i suoi limiti e le sue ambiguità strumentali. Un'ambiguità che, in verità, aveva avuto il suo esordio con la strategia togliattiana del ‘partito nuovo' – nuovo nel senso del superamento del partito come organizzazione rivoluzionaria del proletariato, ferma restando, però, la strategia gramsciana della guerra di posizione, cioè l'assedio che avrebbe portato alla conquista del potere e alla costruzione della società senza classi – e si è perpetuata nella tattica berlingueriana del ‘compromesso storico'.
Berlinguer – partendo dal colpo di Stato in Cile contro il governo di Allende – spiega a Fallaci, con un tormento che si taglia col coltello, ciò che aveva scritto il 12 ottobre del 1973: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».
Dunque l'Italia aveva bisogno dell'alleanza dei partiti di massa come una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista; insomma, egli pensava che questa fosse la via per togliere il suo partito dall'isolamento, conseguente all'alleanza dei partiti del centro-sinistra, e per portare il PCI al potere evitando il rischio cileno.
Non so a che cosa Berlinguer intendesse riferirsi inventando la formuletta dell'esaurimento della forza propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre. Ma bastava dire questo per salvarsi l'anima? In realtà, quella rivoluzione aveva perduto la sua forza propulsiva molto presto e molto prima che Berlinguer si accorgesse, rispondendo alla Fallaci, di quel che non andava in URSS: «Un regime politico che non garantisce il pieno esercizio della libertà, è la cosa più grave».
Pieno esercizio? E il vuoto?
Non mi pare che Berlinguer – come tutti i suoi predecessori e compagni, molti dei quali però continuavano a dare per buono tutto ciò che era avvenuto in URSS tra il 1917 e il 1980 – abbia mai fatto il conto di ciò che mancò e continuava a mancare per fare il ‘pieno' di libertà: quel conto infatti non poteva farlo perché intendeva che ‘quella forza propulsiva', che aveva dato la nascita al suo partito, avesse prodotto una svolta positiva e irreversibile nella storia non soltanto della Russia sovietica ma dell'umanità intera: in che cosa fu propulsiva ? forse per l'industrializzazione di quel paese, costata parecchio non solo a chi falliva gli obiettivi dei ‘piani quinquennali' ma anche all'intera popolazione, oppure per il costo immane dell'Holomodor ucraino, frutto delle geniali politiche ‘propulsive' di Stalin o forse per la grande strategia staliniana che, a Yalta, riuscì a risolvere l'amletico dubbio che tormentò la rivoluzione sovietica: socialismo in un solo paese o lo esportiamo?
Fu deciso di esportarlo – in un modo o nell'altro – almeno in quella parte di Europa sulle quali Stalin – con piena adesione dei partiti comunisti occidentali – aveva messo le grinfie come sanno bene gli abitanti di Budapest, di Praga e di Varsavia.
A quelli di Budapest e di Varsavia nel 1956 non giunse mai la solidarietà del PCI né, per quanto mi risulti, quella personale di Berlinguer, all'epoca già nella direzione del partito comunista che era stata appena appena scossa dal ‘rapporto Kruscev sui crimini di Stalin': infatti, Togliatti & c., non furono sorpresi dalla denuncia krusceviana in quanto erano stati testimoni, omertosi, dei suddetti crimini: insomma non ne avevano parlato.
Anzi, per l'esattezza, ancora ventiquattro anni dopo la rivoluzione ungherese, alla domanda della Fallaci sui fatti di Budapest del 1956, il Berlinguer teorico dell'euro-comunismo, ha parole di disprezzo e di giustificazione: «Si, lo so che si trattava di operai, di studenti, di popolo. Lo so. Ma l'insurrezione stava passando nelle mani delle forze reazionarie, pensi al cardinale Mindszenty».
Già, il cardinale Mindszenty! Evidentemente, Berlinguer lo classifica come reazionario sulla base del certificato penale rilasciatogli dal regime comunista di Béla Kun che, nel 1919, lo aveva imprigionato con l'accusa di ‘sacerdozio': accusa confermata nelle prigioni naziste negli anni ‘40!
E Imre Nagy, Pal Maléter, Miklós Gimes etc. dove li mettiamo? Ah, si! Nell'accogliente cimitero che gli avevano riservato i sovietici, i quali non erano ‘reazionari'. E dimenticavo György Lukács – il filosofo che sta ancora nell'olimpo dell'intellighentia comunista italiana – il quale, per salvare la pelle, scrisse una dichiarazione in cui approvava l'intervento sovietico e l'operato del governo Kádár.
Quando Oriana Fallaci ricorda a Berlinguer di avere detto che i comunisti «sono nati e vivono per combattere il capitalismo e cancellarlo» e di credere «ciecamente all'avvento finale del comunismo» come ultima spiaggia della società umana, egli risponde che il ciecamente non significa un atto di fede ideologico, bensì «una convinzione che deriva da un ragionamento».
Mi permetto di osservare che, siccome non ha rivelato quali fossero le ragioni di questa ‘convinzione razionale', dobbiamo supporre che Berlinguer intendesse che dovessimo essere noi a credergli sulla parola, insomma che l'atto di fede lo dovessimo fare noi. E mi pare che questa fede, cieca, sia oggi molto diffusa.
Forse, da tutto questo gioco a nascondere, possiamo trarre un ben diverso convincimento circa la linea politica di Berlinguer che era quella di portare il suo partito al potere. E, a questo fine, egli mostrò di essere un maestro di strategia e di tattica mimetica – un Talleyrand del XX secolo.
La sua linea era imperniata sulla mimetizzazione dell'ideologia del suo partito per perseguire quelle alleanze che sono – come lui scrive – «il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria ed esso è quindi decisivo anche per l'affermazione della via democratica». E questo problema egli lo risolse benissimo, introducendo il nuovo tarlo – dopo quello vecchio introdotto da Togliatti – che avrebbe roso l'unità politica dei cattolici che, a suo avviso, era l'ostacolo più forte alla conquista e all'esercizio di quella ‘egemonia' preconizzata da Gramsci. In fondo, il ‘compromesso storico', la ‘terza via', etc., erano in altre parole la formula di Gramsci: rivoluzione senza la rivoluzione.
Lo risolse benissimo, dicevamo, e ne vediamo oggi l'esito nella ‘fusione nucleare' degli ‘ex margheritini' – sempre più gramsciani e sempre meno sturziani – con i post-comunisti. Per la verità, più che di una fusione si tratta di una spartizione di potere – dalla Presidenza della Repubblica alla Corte costituzionale – ma non senza quelle conseguenze sul piano ideologico che ormai, nei giorni nostri, rendono indistinguibili i protagonisti della fusione mentre ricevono l'appoggio entusiastico di una ‘cultura' marxistico-progressista bandita oggi da paginate intere di giornali e ore e ore di dibattiti televisivi dedicate ad accreditare il mito della ‘diversità' e dell'alta etica del partito berlingueriano e del suo attuale surrogato.
Nell'intervista della Fallaci, si tocca il punto allora dolente per il PCI: il partito socialista guidato da Bettino Craxi era andato alla guida del governo insieme alla DC e agli altri partiti del centro-sinistra ed aveva tutta l'aria di poter togliere la terra sotto i piedi al partito comunista: per i comunisti, abbattere quel governo insieme all'uomo che lo presiedeva era dunque una questione vitale.
Alla domanda di Fallaci – «mi sbaglio o Craxi vi ha attaccato con mano pesante?» – il segretario comunista risponde nel suo solito modo suadente e, allo stesso tempo, minaccioso: «i rapporti tra i due partiti stanno attraversando una fase difficile perché è in atto un tentativo di portare il PSI fuori dal suo filone tradizionale … di sinistra … sembra un po' troppo lanciato a rincorrere posizioni di potere non solo nei vari gangli della vita pubblica ed economica. Voglio dire, invece di battersi contro il sistema di potere della DC, il PSI cerca di inserirvisi per prendere la fetta più grossa possibile».
Bisogna ammettere che Berlinguer aveva tutte le ragioni per preoccuparsi: egli temeva di non potere più disporre a volontà di quelle trincee che da tempo – almeno da quando Togliatti era stato ministro della giustizia – il PCI occupava nella magistratura, nelle università, nei ‘vari gangli della vita pubblica ed economica', dai quali combattere la ‘guerra di posizione' gramsciana e muovere verso la grande prospettiva dell'egemonia.
Da qui la questione moral-giudiziaria ponendo la quale Berlinguer acquistò un altro titolo per la ‘canonizzazione'; ma, come si sa, nei processi di ‘canonizzazione', l'advocatus diaboli potrebbe sollevare qualche dubbio: per esempio, quando a Parma scoppiò lo scandalo delle tangenti che avevano coinvolto esponenti comunisti, in una riunione della segreteria nazionale del PCI, così Berlinguer risolse salomonicamente la questione: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili ma perché, nel ricorrervi, il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto».
Del resto, nonostante qualche «strappo», i comunisti italiani non hanno mai cessato di considerare Mosca quale propria casa madre da cui prendere ordini e quattrini. Sebbene alla fine degli anni settanta Berlinguer avesse deciso di rinunciare ufficialmente al finanziamento diretto, dentro il PCI, qualcuno continuò a percepire il salario: Valerio Riva, nel suo libro Oro da Mosca, e Dario Fertilio e Francesco Bigazzi, in Berlinguer e il diavolo. Dall'oro di Stalin al petrolio di Gorbacëv, ci danno una mappa precisa dei flussi che irroravano ‘Botteghe oscure' e che finirono solo con la dissoluzione dell'URSS.
Un'altra delle formule politiche di felice invenzione berlingueriana è stata quella dell'eurocomunismo, condivisa da Marchais e Carrillo, leader rispettivamente del partito comunista francese e di quello spagnolo, a lungo esempi preclari di fedeltà moscovita pre e post staliniana. Ma, se non ricordo male, Berlinguer fu molto cauto e cercò in tutti i modi di distinguersi dal Carrillo che – rischiando la ‘scomunica' di Mosca – aveva scritto, nel suo Eurocomunismo y Estado, che l'eurocomunismo doveva essere un «comunismo demitizzato e reso credibile» per poter passare a una forma superiore di democrazia e per il superamento del comunismo ‘arcaico' sovietico, con l'implicito rigetto dell'URSS quale paese guida: il PCI forse aveva ancora bisogno di fare visita a Ponomarêv – capo, dal 1954 al 1986, del Dipartimento dei rapporti internazionali del PCUS e, a sua volta, frequentatore di Botteghe Oscure nonché applaudito oratore, insieme al famoso ideologo del PCUS, Michail Suslov, nei Congressi del PCI – per incassare il solito assegno.
Che poi Berlinguer – il quale diceva di sentirsi più sicuro sotto «l'ombrello della NATO» – fosse animato delle più pure e migliori intenzioni ‘atlantiste' ed ‘europeiste', si capisce subito dalle sue risposte alle domande della Fallaci. Berlinguer non ha la benché minima esitazione. Ma anche noi non ne abbiamo alcuna nel giudicare assai ambigue le risposte del segretario comunista:
D.: «Gli americani pensano che oggi il ‘Salt 2' ratificherebbe lo squilibrio in favore dell'Unione Sovietica perché, mentre i Pershing e i Cruise non sono stati ancora installati, e neanche fabbricati, i sovietici stanno installando gli SS 20 a ritmo di quattro, cinque al mese. Per non contare le centosessantamila truppe di cui il Patto di Varsavia è in vantaggio rispetto alle truppe della NATO».
R.: «Non accetterei la tesi semplicistica secondo la quale l'equilibrio sarebbe alterato dagli SS 20. E questo perché bisogna calcolare anche gli armamenti nucleari inglesi e francesi , poi i sommergibili nucleari americani ... non sappiamo quanti sono ma sappiamo che possono colpire i paesi del Patto di Varsavia … secondo me, oggi come oggi l'equilibrio strategico esiste … quindi, e a maggior ragione, vale la proposta che noi comunisti facemmo in Senato: sospendere la costruzione dei Cruise e dei Pershing e sospendere la fabbricazione e l'installazione degli SS 20».
Ottima idea! La stessa che avevano i pacifisti degli anni gloriosi in cui i comunisti italiani non solo non parlavano di ‘ombrello della NATO' ma anche non lo volevano temendo che facesse troppa ombra sui carri armati sovietici.
Berlinguer voleva che lo status quo fosse mantenuto anche se pendente dalla parte dell'URSS. Per esempio egli disse a Fallaci di non volere che la Spagna, da poco tornata alla democrazia, entrasse nella NATO «perché altererebbe l'equilibrio stabilito». Una visione strategica che ancora oggi qualcuno segue lamentando che la NATO ha ‘abbaiato' ai confini della Russia mentre parecchi post-comunisti, ma ‘democratici' e ‘pacifisti', arricciano il naso perché, dopo l'operazione militare speciale di Putin in Ucraina, Svezia e Finlandia sono entrate nella NATO.