NUOVO ORDINE MONDIALE O INTERNAZIONALE
di Salvatore Rondello

22-07-2025 -

Dopo la caduta del muro di Berlino fu trovato un accordo internazionale con la globalizzazione basata sulla multilateralità e sul neoliberismo di Milton Friedman e della Scuola di Chicago.

Nel 2015, con il titolo “Nuovo ordine mondiale” è stato realizzato un film scritto e diretto da Fabio e Marco Ferrara. Nella trama del film, Massimo Torre, commissario di polizia, assiste all'assassinio della compagna incinta ad opera di un gruppo di malviventi durante una rapina a un negozio. Dopo numerose indagini scopre che dietro la rapina e ad altri atti simili di violenza e criminalità c'è un gruppo di potere ben organizzato il cui unico scopo è quello di controllare il mondo con qualsiasi mezzo a loro disposizione (criminalità, crisi economica, malattie, ...). Con l'aiuto della polizia, dei militari e di una ricercatrice le cui ricerche sono incentrate sulla ghiandola pineale, il commissario riuscirà a vendicarsi della perdita subita, ma poi scoprirà che del complotto fa parte anche il ministro della difesa.

Nell’aprile del 2022, Giovanni Elia Bray pubblica un libro dal titolo “Il nuovo Ordine Internazionale e la Rinascita della Guerra Fredda”. Con l’invasione della Russia in Ucraina si è frantumato l’equilibrio internazionale realizzato dopo la fine della guerra fredda. L’autore spiega perché e cerca di ipotizzare i nuovi scenari. Nella sua analisi iniziale, sostiene che “i decisori” americani della amministrazione Biden hanno intuito, con preoccupazione, che l’ascesa economica della Cina, a partire dalla crisi del 2007-2008, era in continua crescita e le avrebbe permesso di divenire la potenza internazionale egemone. Il progetto della Nuova Via della Seta viene letto come il piano perfetto di una politica di egemonia, e non nella visione promossa dal presidente Xi Jinping di un nuovo rinascimento di pace e di collaborazione tra gli Stati e i popoli del mondo. Gli americani si sono accorti che Pechino ha promosso negli anni azioni che confermano il loro timore: ha deliberatamente pianificato la “occupazione commerciale” di moltissimi Paesi, acquisito alcuni porti strategici, contestato le norme territoriali nel Mar Cinese Meridionale e costruito nuove istituzioni economiche internazionali, come la Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali, per competere con quelle occidentali, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale. Il vero paradosso della storia è che tutto è avvenuto grazie alle scelte degli Stati Uniti e agli effetti della globalizzazione: l’entrata della Repubblica Popolare Cinese nelle Nazioni Unite (25 ottobre 1971) e la sua adesione alla WTO nel dicembre del 2001, voluta dagli Stati Uniti dopo quindici anni di difficili trattative, hanno trasformato profondamente gli assetti mondiali dell’economia. L’economia della Cina è divenuta quasi dodici volte più grande di quanto non fosse nel 2001 e ha superato la Germania per diventare, nel 2009, il più grande esportatore mondiale. Tra il 2001 e il 2011, il commercio tra gli Stati Uniti e la Cina è aumentato da 96 miliardi di dollari nel 1999 a 558 miliardi di dollari nel 2019. Negli Stati Uniti sono stati persi 5,8 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera imputabili in buona parte all’automazione dei processi produttivi. Tra il 2001 e il 2020 le esportazioni cinesi sono aumentate dell’870% e le importazioni del 740%. Il valore commerciale totale è aumentato dell’810%. Il contributo medio cinese annuo alla crescita economica globale è vicino al 30%.

Nello stesso periodo il PIL della Cina è cresciuto di otto volte e il volume degli scambi è aumentato di dieci volte. I consumatori americani come quelli internazionali hanno ampiamente beneficiato dell’ingresso della Cina nella WTO perché hanno potuto acquistare beni prodotti in Cina a prezzi bassi e il mondo delle imprese ha tratto profitto dal libero accesso all’enorme mercato cinese. Per fare due esempi, il 2018 ha rappresentato circa il 18% delle vendite di Apple e dal 2001 al 2021 le esportazioni statunitensi in Cina sono aumentate del 450%. Un altro esempio sono i due obiettivi che rappresentano il “sogno cinese” del presidente Xi: entro il 2021, centenario del Partito Comunista Cinese, raddoppiare il PIL del 2010. Entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare Cinese, divenire a tutti gli effetti “un paese socialista moderno, prospero, democratico, avanzato culturalmente ed armonioso”.

La Cina continua ad occupare il posto che ha a lungo avuto nella storia: la grande manifattura del mondo (quando Venezia rappresentava la loro principale piattaforma commerciale verso l’Occidente), anche se una parte importante della crescita attuale è garantita dai servizi. Le politiche di Xi hanno cambiato profondamente la situazione interna, modificando il contesto negli ultimi dieci anni. Anche qui un dato: la quota della popolazione cinese che vive in condizioni di povertà è scesa dal 67% a meno dell’1%. Il presidente Xi l’ha definita una “vittoria rimarchevole; l’obiettivo della riduzione della povertà è stato raggiunto secondo i programmi”. In numeri, ciò ha significato sottrarre all’indigenza oltre 13 milioni di persone l’anno.

Ma ciò che preoccupa maggiormente gli Stati Uniti è la consapevolezza che lasciare il campo a un’egemonia economica cinese significherebbe la fine della lunga storia di valori democratici dell’Occidente e l’affermazione di un modello autoritario, privo di quelle libertà fondamentali che occorre difendere in ogni modo.

La situazione che ha portato a questo “squilibrio” e a quello che viene definito “un vero pericolo per la democrazia” è stata promossa dagli stessi Stati Uniti che hanno avallato una politica dettata dalla convinzione che la cooperazione con Cina e Russia avrebbe favorito la loro partecipazione nelle istituzioni internazionali e, nello stesso tempo, avrebbe potuto spingere i due Paesi su un percorso di progressiva democratizzazione. Gli Stati Uniti per molti anni sono stati convinti che potessero essere le organizzazioni multilaterali dedicate alla sicurezza e allo sviluppo economico i luoghi della compensazione e della risoluzione delle tensioni internazionali.

La scelta americana è stata condivisa da molti Paesi europei: nei confronti della Russia si è fatto più volte ricorso all’esistenza di due anime, cercando di esaltare la prima, quella “vicina” alla storia e alla cultura europea, e di allontanare i pericoli della seconda, quella di un suo appiattimento nella sfera di influenza asiatica.

Per ricordare l’anima europea della Russia si è fatto ricorso al grande sforzo fatto da Pietro il Grande di trasformare la Russia in una potenza di stampo europeo. La scelta di Pietroburgo come capitale non solo politica, ma anche culturale faceva parte di questo disegno: la città divenne presto il primo porto commerciale russo e l'arteria principale nei rapporti della Russia con l'Europa occidentale. Lo stesso Leibniz nel 1716 plaudiva allo sforzo dell’imperatore di avvicinare le istituzioni culturali russe a quelle europee, promuovendo l'istruzione e la ricerca scientifica in Russia, aprendo biblioteche, musei, giardini botanici, scuole e accademie, la più importante delle quali a Pietroburgo.

Il richiamo storico aiuta a riflettere sulla doppia valenza della storia russa e su come molti leader europei abbiano insistito proprio su quelle tradizioni nel tentativo di “europeizzare” la Russia negli anni successivi al crollo dell’Unione Sovietica.

Ma qualcosa in questo disegno di “ordine mondiale” non è andato come si sarebbe immaginato ed è cominciata a crescere la preoccupazione che i paesi “autoritari” invece di condividere i valori occidentali, avrebbero rischiato di annientarne la storia democratica.

Gli Stati Uniti intuiscono la debolezza del loro modello di inclusione e che la Cina possa diventare la potenza egemone. Non prive di significato in questo senso sono, ad esempio, le “aperture”, adozione del 5G, gestione del porto di Trieste, fatte dal governo italiano durante il viaggio di Xi Jinping in Italia nel marzo del 2019 (durante il primo governo Conte), segni evidenti di come un modello egemonico stia trovando spazio nei paesi alleati (e l’Italia geograficamente ha un ruolo di particolare rilevanza).

Gli Stati Uniti devono reagire e rispondere all’idea del loro declino, che è il declino dell’Occidente e dell’idea di democrazia per difenderne i valori. Le scelte politiche sono fatte in silenzio secondo alcuni assi principali: il freno agli investimenti cinesi ogni qualvolta possano mettere in pericolo la tutela della sicurezza internazionale, la tutela dai dati sensibili, il rafforzamento della NATO.

Quando la Russia decise l’aggressione e l’inizio della guerra in Ucraina, quando in tutto il mondo vengono trasmesse le immagini dei massacri di Buca, i timori degli Stati Uniti sembrano avverarsi. L’aggressione della Russia contro l'Ucraina, come dice lo stesso Putin, è la scelta per rovesciare lo status quo del mondo occidentale.

E poco prima della guerra all’Ucraina, commentano gli uomini dell’amministrazione Biden, il presidente cinese Xi Jinping e Putin hanno promesso di non porre "limiti" alla cooperazione dei due paesi, dichiarando apertamente l’adesione ad una strategia che “mette in pericolo la democrazia”.

Ricordando la guerra contro la Georgia, l’annessione violenta della Crimea, il sostegno militare alle istanze separatiste del Donbass e le stragi di civili in Siria, appare evidente che lì dove Mosca ha fatto affidamento su strategie di violenza, Pechino ha esercitato la sua influenza attraverso l’affermazione del suo soft power. In pericolo ci sono i valori democratici dell’Occidente. Valori che non sono stati esercitati in modo limpido ed eticamente ineccepibili da chi li avrebbe rappresentati.

A questa situazione, con parole chiare, sembra rispondere, il 30 marzo, il ministro degli esteri russo Lavrov che, rivolgendosi al ministro cinese Wang Yi, afferma che la Russia è pronta a definire un accordo con la Cina ed altri paesi per stabilire un nuovo ordine mondiale multipolare.

Oggi è necessario sfuggire all’abitudine di guardare il quotidiano, e provare a guardare a quello che accadrà nei prossimi anni.

Nel breve dobbiamo guardare con molta preoccupazione alle conseguenze umanitarie della terribile guerra mossa da Putin: migliaia di morti, violenze brutali sulle donne, intere città devastate.

Nel medio periodo, seguendo le parole di Lavrov, l’anima russa abbandonerà ogni sensibilità europea per riscoprire la dimensione asiatica, mentre nuovi conflitti potrebbero aprirsi nel Mar Cinese Orientale e in quello Meridionale, due dei punti strategici del precario equilibrio geopolitico internazionale.

Gli Stati Uniti, da parte loro, avrebbero dovuto continuare una strategia di rafforzamento dei rapporti con gli alleati, visti come singoli Stati, e nell’allargamento della sfera di influenza della NATO. Una strategia che ha visto l’entrata nella NATO della Finlandia e della Svezia. Tuttavia, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca e la politica dei dazi, gli Stati Uniti stanno spezzando i rapporti con gli alleati.

Secondo alcuni, potrebbe essere “tollerata” l’occupazione russa del Donbass; tollerata perché in questa conflittualità gli americani temono una reazione non controllata di Putin che potrebbe portare all’uso delle armi atomiche.

Il risultato di questa escalation è molto amaro ma evidente: dopo trent’anni assisteremo alla rinascita di due blocchi, quasi in continuità con la Guerra Fredda (che in realtà sta diventando sempre più incandescente), uno occidentale (difensore dei valori della democrazia a velocità sempre più ridotta) e l’altro orientale (caratterizzato da governi autoritari).

Solo l’Europa potrebbe (o avrebbe potuto) essere il terzo attore capace di evitare questa polarizzazione (favorita e accelerata dal mondo digitale) se fosse stata in grado di realizzare il progetto di difesa comune, così come fu pensato settanta anni fa, il 27 maggio del 1952, quando a Parigi vennero firmati gli accordi relativi all’istituzione della Comunità europea di Difesa. Ma questo tentativo è naufragato e qui ricorderemo, tra i molti motivi che non ne hanno favorito la nascita, l’impatto della Brexit e la difficoltà di creare e rafforzare gli organismi di governance europei.

Se questo sarà l’inquietante scenario dei prossimi anni, torneremo a vedere una contrapposizione sempre più marcata tra i due blocchi così come si andranno configurando in base alle alleanze che verranno promosse, sperando che in un clima di così alta tensione prevalgano almeno le logiche di deterrenza messe in atto durante gli anni di guerra fredda. Questa visione era quella degli Stati Uniti durante l’amministrazione Biden. Oggi con Trump lo scenario è molto confuso, ma non cambia il paradigma della lotta per arrivare ad un nuovo equilibrio o ad una nuova egemonia mondiale.

In questo contesto non possiamo dimenticare le problematiche demografiche. Nel 1960, il fisico Heinz von Foerster, noto per il suo lavoro pionieristico nella cibernetica, avanzò una previsione drammatica: l’umanità sarebbe giunta al collasso entro il 2026 a causa dell’esplosiva crescita demografica. Secondo von Foerster, la continua espansione della popolazione mondiale avrebbe superato le capacità del pianeta di sostenere tale aumento, portando a una crisi senza precedenti. Sebbene la sua teoria si basasse su calcoli matematici, essa rifletteva preoccupazioni più ampie, simili a quelle già espresse dal celebre economista Thomas Malthus nel XVIII secolo, il quale aveva previsto che la crescita della popolazione avrebbe superato la disponibilità di risorse alimentari.

La previsione di von Foerster, che ipotizzava una “morte” per schiacciamento dovuta all’eccesso di persone, si fondava sull’osservazione che la popolazione mondiale era aumentata drasticamente nel XX secolo, passando da 3 miliardi di persone nel 1960 a 8 miliardi nel presente. Sebbene oggi la crescita non sembri seguire il ritmo esponenziale da lui ipotizzato, le problematiche legate alla sostenibilità rimangono gravi. Il ricorso massivo ai fertilizzanti a base di ammoniaca, così come l’uso di ampie porzioni di terra per l’agricoltura, sollevano dubbi sulla capacità della Terra di sostenere la popolazione crescente.

Dal 2022 ad oggi la guerra in Ucraina continua, si è aperto un nuovo fronte nel Medio Oriente e c’è stato il ritorno di Trump alla Casa Bianca, sono peggiorate le condizioni di sostenibilità della produzione alimentare nel mondo e sono peggiorate anche le condizioni di inquinamento ambientale non solo per i fossili.

Lo scenario delle tensioni geopolitiche è diventato più torbido ma non sono cambiate le motivazioni di fondo per arrivare ad un nuovo equilibrio. In sintesi gli Stati Uniti non rinunciano all’egemonica economica, politica e militare che hanno avuto nel mondo anche se i segnali di crisi si avvertono da diverso tempo. Dall’altro lato, la Cina guida la cordata antagonista che rivendica la leadership mondiale per sostituirsi agli Stati Uniti d’America ed all’Unione Europea che ha una connotazione di fragilità politica. Potrebbe affermarsi il capitalismo comunista della Cina in questa logica egemonica? Ipotesi verosimile che aprirebbe nuovi scenari per gli ideali di libertà da affermare in questo nuovo modello di società multilaterale e multipluralista.

Per assurdo, sconfitto un capitalismo multinazionale, si aprirebbero nuove vie di lotta per la democrazia politica o ci sarebbe una nuova forma di dittatura comunista e quale sarà il prezzo pagato dall’umanità? Ma tutto questo sarà proprio così negativo o si apriranno nuove vie da raggiungere seguendo la meta indicata dal faro del socialismo liberale portato avanti dal movimento di Giustizia e Libertà e dal Partito d’Azione? Tutto é possibile, dipenderà (come sosteneva Guido Calogero) dalla volontà manifestata da tutte le persone che formano l’Umanità. I percorsi per una Patria dell’Umanità e per una democrazia economica non sarebbero soltanto una irraggiungibile utopia, ma una realtà realizzabile con perseveranza e tanta buona volontà.





Fonte: di Salvatore Rondello