Sembra uno stantio esercizio di retorica ricordare anzitutto a noi stessi quanto ci sia di mistificatorio nell’espressione “politica estera comune europea”. Nel 1998 fu introdotta dal Trattato di Amsterdam la figura dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza che avrebbe dovuto rappresentare il vertice della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea. In questo ruolo si sono alternati negli anni uomini e donne di maggiore o minore esperienza ciascuno dei quali ha comunque cercato di instillare nella funzione da loro ricoperta un “plus” che questa in origine non aveva. Qualcuno ci è riuscito meglio di altri ma tutto ciò non è stato sufficiente finora a dare all’Alto rappresentante quel rilievo nel quadro della costruzione comunitaria che i trattati gli avevano attribuito. Poco o nulla per questo scarso peso politico può essere imputato ai singoli politici che hanno rivestito tale ruolo (Javier Solana, Catherine Ashton, Federica Mogherini, Josep Borrell fino all’attuale Kaja Kallas) poiché il problema non risiede nella persona ma nel meccanismo che lo presiede.
Al momento della sua introduzione si è fatta una scommessa la cui posta risiedeva nel fatto che nominare un titolare della politica estera comune potesse, quasi magicamente, farla originare dalle volontà contraddittorie e talora contrastanti di troppi partners ma la lezione della realtà si è imposta con durezza anche stavolta indicando che la strada scelta non solo non avrebbe portato i risultati auspicati ma avrebbe messo in evidenza le incompiutezze presenti nei trattati.
Sarebbe sufficiente collegare l’azione dell’Alto rappresentante ai ripetuti allargamenti che si sono succeduti dal 1998 in avanti: il quinto (2004), il sesto (2007) e il settimo (2013) che hanno portato il numero dei Paesi membri a quello di un condominio decisamente affollato. Ha opportunamente evidenziato la ex-europarlamentare francese, già collaboratrice di Romano Prodi, Sylvie Goulard nel suo saggio “Grande da morire” come finora l’allargamento dell’UE sia stato visto come qualcosa di teleologicamente inevitabile a danno del consolidamento della struttura interna dell’Unione stessa cui va ad aggiungersi la possibilità di importare nell’UE situazioni interne ai vari Paesi candidati di instabilità tali da poter determinare vere e proprie crisi regionali. Il consolidamento delle strutture esistenti e la precisazione dei confini dell’Unione europea devono rappresentare le priorità ineludibili di questa generazione di leader europei a partire dall’abolizione dell’unanimità almeno per le questioni di maggior rilievo.
Sentire l’attuale Alto rappresentante Kallas costretta ad affermare al Parlamento europeo nella discussione sulle responsabilità di Israele in merito agli attacchi su Gaza che sulle misure restrittive da adottare eventualmente contro lo Stato ebraico debbono necessariamente esprimersi all’unanimità tutti i Paesi membri e che lei stessa non se la sarebbe sentita di portare la proposta di sanzioni in Consiglio fa un po’ tenerezza ma mette addosso anche lo sconforto che molti provano di fronte a una situazione che al momento sembra senza una via d’uscita onorevole.