LA QUESTIONE DEI REFERENDUM, VOTARE E POI CAMBIARE
di Giorgio Benvenuto

26-05-2025 -

E’ aspra la polemica sul voto per i referendum e sulla scelta della astensione. Il referendum è una opportunità di far valere le proprie convinzioni rispetto a grandi temi della convivenza civile e in questo caso del lavoro. Se l’astensione è legittima varrebbe la pena di non considerarla e di utilizzare questa forma di democrazia diretta. Ricordo un precedente che fa parte della mia esperienza sindacale. Riguarda il referendum sulla scala mobile. Anche allora coloro che avevano approvato il cosiddetto Patto di san Valentino ebbero sollecitazioni non indifferenti per invitare a non andare a votare. E venivano da personalità della politica che, come Pannella, avevano promosso e difeso l’uso del referendum. Non accettammo quegli inviti ed andammo alla prova del voto con una campagna elettorale che vide prevalere anche al nord del Paese il No che raccolse la percentuale del 54,32%.

Naturalmente altro discorso va fatto per il referendum che riguarda la cittadinanza. La proposta mi convince ma è chiaro che va suffragata con una politica di integrazione e sicurezza che non lasci adito a dubbi su che tipo di convivenza civile vogliamo attuare.

I temi del lavoro sono stati evocati in questi giorni dal nuovo Papa Leone XIV che ha fatto riferimento alla Enciclica del suo predecessore Leone XIII “Rerum novarum” che posizionò la Chiesa non distante dai problemi gravi della rivoluzione industriale e più vicino alle attese dei cattolici che volevano impegnarsi nella politica e nel sociale. Oggi, ci dice Leone XIV, la sfida è quella della intelligenza artificiale, del potere che essa esprime, della sorte conseguente del lavoro e dei diritti del lavoro. Affrontare le questioni che concernono i quesiti referendari non dovrebbe prescindere anche dalla capacità di proporre ai cittadini le proposte politiche per affrontare uno scenario del lavoro profondamente in mutamento e sottoposto a leggi sempre più evidenti che derivano dai rapporti di forza e non da regole chiare. Su questo terreno il Papa dimostra di volere scendere, non mi pare che la sinistra politica italiana sia invece attrezzata per fare altrettanto. Ed è un ritardo che può pesare sia sulle condizioni di lavoro che sui nuovi orizzonti del lavoro per quanto riguarda la stabilità o, peggio, nuova precarietà.

Se si vuole ragionare sul dopo allora è innegabile che gli esiti di un referendum abrogativo si misurano sulle proposte che dovranno tener conto di una evoluzione continua della produzione, della economia e dei mercati. Una volta si era forse avvantaggiati dal fatto che avevamo grandi imprese che dettavano legge e una immigrazione interna. Oggi quello descritto è un mondo lontanissimo ed irrepetibile. Se pensiamo che l’art. 18 era stato immaginato in quella condizione economica e produttiva ci rendiamo conto che le tutele dei lavoratori hanno bisogno di una nuova e più variegata soluzione sotto l’incalzare della rivoluzione tecnologica. Ma non solo: il ruolo del Parlamento diventa ancor più importante per il dopo, quando si tratterà di colmare i vuoti del referendum con strategie di politica economica che hanno bisogno non di scontri frontali ma di confronto e risposte concrete. Non si dimentichi che alcuni dei più determinanti referendum della nostra storia nazionale si sono conclusi con dei…no, sul divorzio, sull’aborto, sulla scala mobile. Ma questo esito non ha precluso mai la continuazione di un confronto politico e sociale che fosse finalizzato a dare risposte puntuali sui problemi aperti.

Ed ancora sarà essenziale che si creino le condizioni che sostengano le confederazioni sindacali pur nelle loro distinzioni a ritrovare quello spirito del secondo dopoguerra dove si posero le basi per il decollo industriale del Paese malgrado le scissioni perché sia sul piano delle scelte da fare, per far ripartire l’economia compresi i licenziamenti per ricostruire le fabbriche, sia sul quello della vita interna, l’elezione delle commissioni interne, si comprese che occorreva lasciare libera l’azione sindacale ed in grado di trovare momenti fondamentali di unità di azione.

Un percorso che tenendo conto della enorme diversità di scenari può tornare utile anche oggi.

La politica trascura infatti alcuni elementi che invece sono di forte impatto nelle attuali difficoltà: i sindacati italiani, caso quasi unico in Europa, non hanno ceduto ai corporativismi ma sono rimasti fedeli e coerenti con il valore della solidarietà e di conseguenza andrebbe loro riconosciuto un ruolo assai più rilevante di quello che nei fatti viene loro attribuito. Infatti è in tal modo che si evita il rischio che ognuno tenti di risolvere i problemi per proprio conto aumentando a dismisura il potere discrezionale dei potentati economici e finanziari. Ma vi è la tragedia di un’Europa che sta invecchiando a vista d’occhio dal punto di vista politico ed economico, da quello del peso esercitato nella realtà internazionale, da quello della valorizzazione della dignità del lavoro. E’ opportuno riflettere se tornare semplicemente al passato dopo i referendum non significhi aiutare questo pericoloso e veloce invecchiamento che sa di declino.

Il terreno della innovazione è il primo banco di prova peer guardare al futuro, inutile girarci attorno. Servono idee, coraggio, pazienza, discussione, conoscenza e passione. I quesiti referendari possono aprire la porta verso una diversa stagione di impegno, possono andare oltre l’immobilismo sociale e del sistema lavoro. Ma detto questo resta la questione di fondo: cosa costruiamo per non tornare indietro, per fronteggiare i cambiamenti, per non smarrire la via della giustizia sociale.

Del resto i referendum abrogativi necessitano da sempre di una nuova fase di confronto politico che porti a proposte costruttive su come procedere tenendo conto che il tempo non passa mai invano. Un esempio: è evidente con tutto quello che è successo che l’aumento esponenziale dei contratti a tempo indeterminato nasconde una facilità eccessiva nel poter licenziare. Tornare al passato però potrebbe riproporre quella estensione dei contratti a termine che furono allora una delle cause della precarietà sul lavoro. È necessario allora comprendere che occorrono proposte nuove in grado di registrare quello che è cambiato per evitare i problemi che si hanno alle spalle e trovare soluzioni aderenti allo stato della nostra vita economica, produttiva e sociale.

Su questo punto valgono zero gli slogan, peraltro inutilmente ripetitivi. La stagione referendaria dovrebbe invece aiutare a ricomporre uno schema di confronti che è quanto mai necessario a questo Paese che appare fermo ed inchiodato a contrapposizioni ed odii reciproci quanto invece in un’Europa sempre più in allarmante declino sarebbe il caso di rinvigorire ogni aspetto di dialogo e di reciproca attenzione.

Il movimento sindacale ha dimostrato di poter esser un interlocutore positivo nei riguardi del Governo ad esempio sul dramma delle vittime sul lavoro. Ma i temi che anche i referendum propongono dovrebbero poter richiedere confronti di merito fra tutte le parti sociali e fra le parti sociali e la politica. Ormai appare inconcludente ogni comportamento che sa di autolegittimazione oppure di autoreferenzialità. Si tratta invece di ricostruire molto e presto in questo Paese dal punto di vista delle regole, della ripresa industriale, della equità fiscale, dello stop alle fughe all’estero dei giovani e se vogliamo fare un riferimento ai diritti anche alla attualizzazione dello Statuto dei diritti dei Lavoratori. L’occasione del referendum insomma potrebbe favorire una fase di discussione e di proposta in grado di affrontare la realtà del mondo del lavoro come è oggi e soprattutto come potrà essere domani. In questo senso potrebbe anche tornare a convincere che partecipare ad un diritto come è quello di votare vuol dir anche mettere in moto processi nuovi di cui l’Italia ha assoluta necessità.





Fonte: di Giorgio Benvenuto