Il professor Francis Fukuyama dice che la storia ha ripreso a correre. Ma ora sta andando nella direzione sbagliata. Il docente di Stanford, teorico della “Fine della Storia”, dice: “Trump ripete le politiche che negli anni Trenta ci portarono alla guerra. I nuovi dazi sono la decisione più idiota che abbia mai visto da un presidente americano. Saranno completamente controproducenti e probabilmente getteranno l'economia mondiale in una recessione molto grave, se non nella depressione. Tutto si basa sull'incapacità di Trump di capire come funziona l'economia. È difficile per me comprendere come un presidente americano possa fare qualcosa di così ridicolo e dannoso per la sua stessa società. La lamentela sull'america derubata non ha alcun senso. L'America ha prosperato enormemente grazie all'ordine commerciale liberale globale. Lui pensa che avere un deficit sia segno di sfruttamento, ma qualunque economista può spiegarti che non è così, è solo l'altro lato della medaglia del dominio del dollaro come moneta di riserva mondiale. Le decisioni di Trump sono basate su un'ignoranza così incredibile, che è difficile comprendere come sia potuto diventare presidente. Quando alla possibilità di riportare in Usa l'industria manifatturiera, non funzionerà così. Il costo per riportare negli Usa la produzione di tutte queste catene di approvvigionamento sarà semplicemente enorme. Le aziende americane non potranno permettersi di costruire impianti completamente nuovi, per l'alto costo della manodopera. E poi chi investirà tutti questi soldi, quando hai un presidente incoerente che cambia idea ogni due giorni? Tra due o quattro anni torneranno i democratici, tutto ciò sarà invertito, e avrai buttato i capitali. Non penso che accadrà. Riguardo la similitudine tra le politiche di Trump e i dazi degli anni Trenta, il tycoon si allinea con gli autocrati perché vuole esserne uno e cerca di muovere il sistema americano in tale direzione. L'unica speranza è che questa politica così stupida gli si ritorcerà contro. I prezzi aumenteranno e probabilmente getterà gli Usa e molte altre economie in una recessione enorme. Ciò non piacerà agli elettori americani, che sognavano l'età dell'oro. Quando le persone perdono il lavoro e il mondo cade in una depressione che delegittima i governi esistenti, quel tipo di instabilità crea conflitti”.
La politica di Trump distruggerà l'Alleanza atlantica e cancellerà ogni tipo di solidarietà tra le democrazie. Russia e Cina sono felici di trarre vantaggio da questa debolezza. Con i suoi avventurosi dazi il Presidente Trump ha terremotato il mondo e mandato fulmineamente in pensione l'era della globalizzazione sostituendola con quella del protezionismo: può allarmare, ma il vecchio ordine non tornerà e finché non si creeranno le condizioni per avviare negoziati tra gli States e il resto del mondo vivremo nella massima incertezza. Ed è bene non illudersi che ci siano scorciatoie per recuperare terreno. I colpi di bacchetta magica non esistono.
Anche Federico Fubini, uno dei migliori giornalisti economici della nuova generazione, lo ha scritto in un interessante e recente editoriale sul Corriere della Sera. Fubini suggerisce all'Italia e all'Europa un bagno di realismo evitando risposte emotive e cercando invece di costruire alternative muovendosi, “mattone dopo mattone”, su molti piani diversi: tecnologico e industriale, della difesa, della sicurezza e dell'integrazione finanziaria in Europa, dell'educazione della forza lavoro e dell'opinione pubblica. Ci vorrà tempo ma non ci sono altre strade. Secondo Fubini, “quello che, invece, l'Italia non deve fare è cadere nella trappola di Vance che è venuto nel nostro Paese il 18 aprile e che potrebbe provare a dividere e indebolire il fronte europeo. Caderci, per l'Italia, sarebbe come mettersi da sola un evitabile dazio in più”.
Ma forse, dopo il colloquio di Giorgia Meloni con Donald Trump, l'Italia c'è già cascata.
L'imposizione di dazi molto elevati non è certo un'invenzione di Donald Trump: molte volte e molto prima dell'annuncio del "Liberation Day", gli Stati Uniti hanno tentato la via della tassazione doganale per rilanciare l'economia nazionale e i risultati sono stati sempre inconcludenti se non addirittura catastrofici.
Douglas Irwin, professore di economia del Dartmouth College, ha scritto su X: “Abbiamo un presidente del XX secolo in un'economia del XXI secolo che vuole riportarci al XIX secolo”.
Keith Maskus, professore all'Università del Colorado, ha affermato: “Il XIX secolo ha segnato l'età dell'oro dei dazi negli Stati Uniti, con un tasso medio che sfiorava regolarmente il 50 percento: un'estensione di una dottrina adottata sin dalla fondazione del Paese, che sosteneva la protezione dell'economia americana durante l'industrializzazione. Studi accurati di quel periodo suggeriscono che i dazi hanno contribuito a proteggere in una certa misura lo sviluppo interno dell'industria, ma i due fattori più importanti erano l'accesso alla manodopera internazionale e al capitale che fluiva negli Stati Uniti durante quel periodo”.
Secondo Christopher Meissner, professore dell'Università della California, ha aggiunto: “Oltre a questi fattori un altro motivo per il quale negli Stati Uniti il settore industriale era fiorente, era legato alla grande disponibilità di risorse naturali. Carbone, petrolio, minerale di ferro, rame e legname, tutti essenziali per l'industria. Il settore industriale non sarebbe stato meno sviluppato se avessimo avuto dazi molto più bassi”.
Spesso Donald Trump cita a modello l'ex presidente degli Stati Uniti William McKinley, il 'padre' dell'ondata di dazi approvata nel 1890 e si riferisce agli anni tra il 1870 e il 1913, la cosiddetta 'Gilded Age', come il periodo in cui gli Stati Uniti sono stati più ricchi. Eppure, la tassazione doganale voluta da McKinley non impedì alle importazioni di continuare a crescere negli anni successivi al 1890, tanto che, quando nel 1894 fu deciso di abbassarla, la quantità di beni che gli Stati Uniti acquistavano all'estero rimase al di sotto dei picchi raggiunti negli anni precedenti.
Nel 1929, il professore di Harvard, George Roorbach scrisse: “Dalla fine della guerra civile, durante la quale gli Stati Uniti erano stati sotto un sistema protettivo quasi, se non del tutto, senza interruzione, l'importazione si era enormemente espansa e le fluttuazioni che si verificarono sembrano essere correlate principalmente a fattori diversi dagli alti e bassi delle tasse doganali”.
Il Center for Strategic and International Studies afferma: “Un anno dopo fu il presidente repubblicano Herbert Hoover a imporre una stretta ai dazi: lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 è ricordato soprattutto per aver innescato una guerra commerciale globale e aver aggravato la Grande depressione”.
Anche il Prof. Maskus, ha affermato: “Ciò che ha generato la Depressione sono stati molti fattori complicati, ma l'aumento dei dazi è senza dubbio uno di questi”.
La fine della seconda guerra mondiale segnò l'inizio di una nuova era nel commercio, definita dalla ratifica nel 1947 da parte di 23 paesi, tra cui gli Stati Uniti, dell'accordo di libero scambio Gatt che creò le condizioni per lo sviluppo del commercio internazionale imponendo dazi doganali più moderati. Lo slancio fu mantenuto dal North American Free Trade Agreement (Nafta) tra Stati Uniti, Messico e Canada, entrato in vigore nel 1994. Accanto al Nafta, il libero scambio negli Stati Uniti fu ulteriormente ampliato dalla creazione dell'Organizzazione mondiale del commercio nel 1995 e da un accordo di libero scambio del 2004 tra gli Stati Uniti e diversi Paesi dell'America centrale.
Durante il suo primo mandato, Donald Trump riaprì il registro dei dazi e decise nuove misure contro la Cina, molte delle quali furono mantenute sotto il suo successore, Joe Biden. Ma nonostante queste imposte, il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina continuò a crescere fino al 2022, quando il gigante asiatico fu colpito da un brutale rallentamento economico non correlato alle tariffe. Anche in quel caso, dice Maskus: “I dazi su Pechino non hanno impedito la crescita delle importazioni dalla Cina”.
Giocattoli senza batterie, vernici meno costose, imballaggi più economici: le aziende di beni di consumo degli Stati Uniti, in particolare quelle che fanno affidamento sulle fabbriche cinesi, studiano stratagemmi per evitare di aumentare i prezzi di vendita dei loro prodotti in seguito all'introduzione dei dazi commerciali da parte dell'amministrazione di Donald Trump. Kimberly Kirkendall, presidente della società di consulenza per la supply chain dell'International resource development, ha incoraggiato le imprese statunitensi a concentrarsi sul breve termine, soprattutto sulla necessità di esaminare le linee di prodotto da ogni angolazione per ricavare possibili risparmi. Sotto la lente i componenti dei prodotti che sono sostituibili Le preoccupazioni relative all'approvvigionamento non riguardano solo i grandi gruppi americani che si affidano ai produttori cinesi. Sasha Iglehart, fondatrice di una piccola azienda di abbigliamento online chiamata Shirt Story con sede nel Connecticut, ha una collezione di camicie da uomo riciclate che si vendono a circa 210 euro. L'imprenditrice ottiene i suoi bottoni vintage da un fornitore austriaco e teme che la tassazione del 20% sui beni provenienti dall'Unione europea possa ripercuotersi sulla sua attività. L'imprenditrice ha sottolineato: “D'ora in avanti cercherò venditori e collezionisti solo negli Stati Uniti”. Per molte imprese americane valutare quali componenti o dettagli si possano rimuovere dai loro prodotti o sostituirli con altri meno costosi è la mossa giusta per assorbire il potenziale impatto finanziario dei dazi. L'azienda di giocattoli Abacus Brands, che da Los Angeles progetta kit scientifici e altri giochi educativi, ha la maggior parte dei suoi prodotti realizzati in Cina. Utilizzando carta leggermente più sottile, il presidente Steve Rad conta di evitare di aumentare il prezzo al dettaglio. Per ridurre ulteriormente i costi di produzione l'azienda californiana sta inoltre pensando di passare dalla plastica al cartone per gli inserti che tengono fermi i pezzi dei giocattoli (i vassoi di cartone costano 6 centesimi l'uno rispetto ai 30 centesimi dell'attuale versione plastificata). I produttori di giocattoli si stanno riorganizzando per tagliare le spese. Aurora World, una catena nota per i suoi animali di peluche e i suoi veicoli giocattolo, sta pensando di usare vernici più economiche per contrastare i costi tariffari e di vendere i giocattoli senza le batterie. Modificare o ridurre l'imballaggio del prodotto è un altro ambito in cui gli importatori possono tagliare le spese e comporta il vantaggio di attrarre potenzialmente i clienti attenti alle questioni ambientali. Jay Foreman, ceo di Basic Fun, che commercializza giocattoli classici, ha raccontato al New York Post che presenterà ai rivenditori due diverse opzioni di imballaggio e chiederà loro di decidere quali preferiscono. La prima opzione consiste nella rimozione della scatola in favore di un vassoio attaccato alla parte inferiore dei giocattoli per tenerli fermi sugli scaffali per un risparmio di 1,13 euro al pezzo. La seconda prevede un semplice cartellino del prezzo di carta che riporta le informazioni sul marchio per tagliare 1,75 euro. Possono sembrare misure irrisorie, ma vanno raffrontate rispetto a centinaia di migliaia di pezzi prodotti. Di sicuro, oltre a scatenare il panico sulla scena economica globale, Trump ha acceso la fantasia dei commercianti americani.
La Cina di Xi Jinping reagisce ai dazi e al 'Giorno della Liberazionè' di Donald Trump con il varo di tariffe del 34% su tutte le importazioni di beni americani e inserisce nella sua lista nera nuove aziende a stelle e strisce, oltre a decidere un'ulteriore stretta sull'export di sette articoli di terre rare medie e pesanti.
La rappresaglia di Pechino tiene conto del fatto che, secondo i dati doganali cinesi, il Paese ha importato beni per un valore stabile di 163,6 miliardi di dollari dagli Stati Uniti nel 2024. Mentre le esportazioni verso l'America hanno avuto una crescita del 4,9% a 524,6 miliardi. Le tariffe, in altri termini, danneggeranno la Cina in quei beni per i quali non esiste un sostituto facile, tra macchinari e microchip avanzati. Ma molte delle importazioni dagli Stati Uniti sono energia e materie prime agricole, per le quali Pechino può trovare sostituti altrove tra Russia e Brasile. In base al valore, il 23% delle importazioni cinesi dagli Usa nel 2024 era di macchinari e prodotti elettronici, seguito da beni agricoli e alimentari al 16% ed energia al 14%.
La mossa della Cina rischia di innescare un'escalation delle tensioni. Il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, aveva già messo in guardia i Paesi dal reagire. In un'intervista a Fox News ha detto: “Il mio consiglio in questo momento è: non reagite. Sedetevi, prendetevela, vediamo come va. Perché se reagirete, ci sarà un'escalation. Se non reagirete, questo è il punto più alto”. Invece Pechino reagisce in diversi modi restituendo persino gli aerei costruiti da Boeing.
La pressione dell'amministrazione Trump, tuttavia, complica gli sforzi della Cina per affrontare le proprie sfide economiche, come la profonda crisi immobiliare e la debole domanda, in un momento in cui le finanze pubbliche sono in tensione.
Gli Stati Uniti si preparano alla più imponente ondata di proteste dall'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Sotto lo slogan 'Hands Off!' (Giù le mani) sono già scesi in piazza gli americani colpiti dai cambiamenti politici, economici, sociali e legali. Organizzazioni di sinistra hanno dichiarato che più di 500.000 persone sono scese in piazza a Washington DC, in Florida e in diverse altri Stati per opporsi all'eccesso autoritario e al programma sostenuto dai miliardari di Donald Trump. MoveOn, una delle organizzazioni che ha organizzato la giornata di protesta insieme a decine di gruppi sindacali, ambientalisti e altri gruppi progressisti, ha riferito l'organizzazione di più di mille eventi programmati in tutto il Paese.
Gli organizzatori hanno affermato di aver ricevuto quasi 250.000 adesioni alle manifestazioni contro le politiche trumpiane sulla gestione dei sussidi della previdenza sociale, i licenziamenti dei dipendenti federali, gli attacchi alle tutele dei consumatori e alle politiche anti-immigrazione e gli attacchi alle persone transgender. Le proteste sono anche contro il coinvolgimento di Elon Musk nel governo federale.
L'evento più importante è stato quello al National Mall di Washington DC, dove alcuni membri del Congresso, tra cui i democratici Jamie Raskin del Maryland, Maxwell Frost della Florida e Ilhan Omar del Minnesota, hanno parlato alla folla.
Il sito web della protesta afferma: “Questa è una mobilitazione nazionale per fermare la presa di potere più sfacciata della storia moderna. Trump, Musk e i loro compari miliardari stanno orchestrando un assalto totale al nostro governo, alla nostra economia e ai nostri diritti fondamentali”. Le proteste sono arrivate dopo il crollo del mercato azionario verificatosi questa settimana, in seguito all'annuncio di Trump sui dazi "reciproci" globali. Secondo un sondaggio dell'agenzia Reuters, il tasso di approvazione del presidente Usa è sceso al 43%, il livello più basso da quando è entrato in carica.
Quelle di Trump, son prese di posizioni talmente illogiche e strampalate che risultano scioccanti per la loro imprevedibilità. Tutto questo potrebbe farci pensare che la crisi del capitalismo è molto più grave di quanto possiamo immaginare. Le prese di posizione sullo scenario internazionale sono quelle in cui ogni Paese cerca di fare il proprio interesse a scapito degli altri incluso l'appropriazione delle “terre rare” per l'utilizzo dei minerali necessari alla nuova industria del digitale e dell'automotive.
In Europa non appare una vera politica già delineata, ma soltanto escamotage propagandistiche dei vari leader per restare in sella senza perdere il potere.
Invece, non si è ancora capito che l'umanità ha bisogno di una Patria e che il capitalismo va sostituito con la democrazia economica.