"IL PNRR: PROBLEMA O OPPORTUNITA'?"

22-05-2023 -

Da due anni e mezzo, da quando partì la processione di Villa Doria Pamphili officiata da Giuseppe Conte e che ebbe il nome pomposo di ‘stati generali’, abbiamo avanzato qualche dubbio sulle scelte che si stavano compiendo sui progetti del PNRR.

Come si ricorderà, una delle ragioni della crisi di governo che portò alla formazione del governo Draghi fu proprio l’evidente incapacità del governo Conte 2 – 5S/PD – di provvedere alla formulazione organica del PNRR.

Da Draghi tutti si attendevano una svolta epocale; si attendevano scelte da politica ardita, da ‘whatever it takes’, ma siamo rimasti delusi; per fare ciò, soprattutto in materia di riforme, egli avrebbe dovuto concordarne le linee generali prima di accettare l’incarico e non avrebbe dovuto accettarlo se non si fosse raggiunto un accordo utile sulle riforme e sul PNRR: purtroppo l’invenzione del suo governo era solo uno stratagemma ordito per evitare le elezioni nel gennaio 2021.

Era talmente evidente che il Piano presentato in extremis al Parlamento – che per discuterlo ebbe a disposizione solo pochissimi giorni – non avesse dietro una strategia per far fronte ai problemi strutturali del paese, che un anno dopo l’insediamento del suo governo, il Presidente Draghi, nel suo discorso quasi di addio, ha dovuto fare un appello perché si leggesse il Piano non solo come un insieme di progetti, numeri, tabelle, scadenze ma soprattutto «anche in un altro modo. Metteteci dentro le vite degli italiani, le nostre ma soprattutto quelle dei giovani, delle donne, dei cittadini che verranno … L’ansia dei territori svantaggiati di affrancarsi da disagi e povertà … soprattutto il destino del Paese … Dico questo perché sia chiaro che, nel realizzare i progetti, ritardi, inefficienze, miopi visioni di parte anteposte al bene comune peseranno sulle nostre vite ... E forse non vi sarà più il tempo per porvi rimedio».

Un appello sacrosanto se non fosse che questo piano era in realtà poco più di un elenco di progetti e tabelle – peraltro a quel tempo ancora tutto da definire – messi insieme per arrivare alla cifra ‘grossa’ mentre che il disegno complessivo che avrebbe dovuto sostenere il Piano draghiano era del tutto sfocato (per non dire ‘invisibile’).

Il PNRR prevede 358 misure finanziate da 191,5 miliardi di euro del Next generation Ue, cui si aggiungono 30,6 miliardi del fondo complementare, risorse prelevate dalle casse dello Stato. Sulla carta si potrebbe arrivare a 261 miliardi. Ogni 6 mesi la Commissione europea verifica il conseguimento delle scadenze e in caso di approvazione procede all’invio dei fondi. Un programma di portata colossale.

Sulla carta i capitoli di spesa e le finalità sembrano chiari (divario infratrutturale Nord-Sud; risanamento urbano e ambientale; consolidamento aree a rischio frane e inondazioni; modernizzazione e digitalizzazione delle imprese e dell’amministrazione pubblica, sistema giudiziario obsoleto e inquinato dalla politica; sistema degli appalti pubblici farraginoso e complicato da un codice che, sia pure evitando qualche truffa, in realtà rallenta soprattutto gl’investimenti infrastrutturali, nonché la riforma del fisco) ma la logica seguita è stata quella del finanziamento a pioggia di vecchi progetti, per lo più di interesse locale e senza alcun valore strategico (restyling di stadi di calcio, piste ciclabili e rivitalizzazione di borghi abbandonati e diroccati, sperando che qualcuno venga ad abitarci pur se senza il necessario per viverci: ma, per abitarli, non occorrerebbe prima ripristinare le condizioni per viverci?).

Ciò che è maggiormente evidente è invece la fretta con cui il Piano è stato messo insieme anche per la necessità di rincorrere le scadenze imposte dalle regole che governano il piano ‘Next generation EU’. Ora, mano a mano che si avvicinano le scadenze, vengono a galla i punti oscuri di un Piano nato male.

A questo proposito, a parte il dubbio, legittimo e naturale, che da qui al 2026 si possano eseguire le grandi opere pubbliche annunciate secondo un cronoprogramma immodificabile, noto sommessamente che queste regole perentorie sulle scadenze – quasi un equivalente dei click day in cui manca una qualsiasi valutazione di merito e vale solo la velocità del click – sono frutto di un modello tecnocratico-dirigista, formalmente o ideologicamente perfezionista, tipico dell’attuale maggioranza che guida le istituzioni europee. Un modello che si sta rivelando un’arma a doppio taglio: magari si spendono i soldi entro i termini fissati ma con ben magri risultati dal punto di vista dell’efficacia dell’investimento. Non sarebbe meglio finanziare progetti valutandoli caso per caso con i criteri della loro adesione alle finalità del finanziamento e della loro fattibilità calcolando però i tempi necessari alla realizzazione (appunto caso per caso, senza fretta)?

Naturalmente, la scoperta di un ritardo nella tabella di marcia prevista è stata una manna dal cielo per i confezionatori di questo PNRR che, come un toro, si sono lanciati contro il panno rosso che hanno davanti, il governo Meloni: la valanga di accuse non è cessata nemmeno di fronte all’evidenza che nessuno di questi progetti è attribuibile al governo oggi in carica, e che, essendosi questo governo insediato dopo l’approvazione del Piano e appena da pochi mesi, non può essere considerato responsabile né della qualità del Piano né dei ritardi.

Il 30 dicembre 2022, un monitoraggio della Fondazione indipendente Openpolis ha rivelato che 14 degli interventi considerati completati in realtà risultavano ancora alle prese con problemi burocratici e che, alla scadenze prevista, diversi interventi non erano stati proprio realizzati: cybersicurezza; potenziamento dei centri per l’impiego; progetti a sostegno dei disabili e nuovi posti letto per studenti (in realtà non era stato fatto alcun bando) – e l’ultima relazione della Corte dei Conti al Parlamento ha evidenziato come non si sia ancora posto mano alla riforma della Pubblica amministrazione e ha avvertito della necessità di ripensare l’impianto del PNRR, di risolvere le criticità in settori cruciali che rallentano l’ingolfata macchina burocratica, di rinviare scadenze e tempi di spesa, di concedere deroghe, cancellare o spostare le risorse da un progetto all’altro.

Ma, anche di fronte a ciò, il commissario Gentiloni ha appoggiato solo a mezza bocca la richiesta presentata in tal senso dal governo Meloni alla Commissione UE. Del resto, già all’epoca della campagna elettorale del settembre scorso, si lanciavano anatemi su chi proponeva di ‘rinegoziare’ il PNRR in seguito alla scoperta di questi difetti strutturali, dei costi enormemente aumentati, dei ritardi allora sospettati e ora accertati.

Tuttavia, se non una revisione radicale, dovrebbe essere possibile e necessario un aggiustamento in corso d’opera a meno che l’UE non voglia togliere con la mano sinistra ciò che ha dato con la mano destra: il rischio concreto (fino ad ora sventato) è quello di perdere tranche di finanziamento per molti miliardi di euro. Il primo ad ammetterlo è stato nei giorni scorsi Francesco Giavazzi, già consigliere economico del precedente governo: «Vedo difficile il pagamento della terza rata del PNRR se prima non saranno risolti i rilievi sollevati dalla Commissione europea». È molto più di un allarme.

Franco Bernabè – non sospettabile di simpatie meloniane – ha suggerito di non strumentalizzare politicamente un tale problema e ha detto: «Che non fossimo in grado di spendere questi soldi era noto fin dall’inizio. Lo stupore semmai era come mai l’Italia, a differenza dei Paesi che avevano chiesto solo i contributi a fondo perduto, si fosse imbarcata in un programma di investimenti colossali che non è in grado di reggere e attuare ... La prudenza avrebbe imposto di gestire una cosa ambiziosa ma ragionevole ... Il Paese ha enormi difficoltà a costruire un progetto di spesa efficiente e funzionale. Adesso c’è il problema della terza e quarta tranche? Eh sì, ma la strumentalizzazione politica non serve a nessuno e non fa bene all’Italia. Maggioranza e opposizione devono prendere atto che ci sono problemi strutturali da affrontare nel lungo periodo. Su questo deve concentrarsi il PNRR».

L’economista Fabrizio Barca – anch’egli non sospettabile di simpatie meloniane – pensa che i possibili ritardi sul PNRR non siano facilmente recuperabili: «Per il mio Paese e l’Europa mi augurerei di essere d’accordo con l’ottimismo di Meloni riguardo al PNRR. Va detto però che il sistema di monitoraggio è pessimo e che la conoscenza che hanno i cittadini di quello che sta succedendo è poca. Sul monitoraggio, l’impostazione improbabile del governo Conte e per l'altrettanto improbabile proseguimento di non monitoraggio fatto dal governo Draghi offrono al governo Meloni una mela interessante ma col baco. Ricordiamo che alla fine dello scorso anno avevamo speso la metà di quanto dovevamo e l’esecutivo entrante non ha effettuato né una relazione sull’attuazione né una due diligence, quindi ne sappiamo poco ... Dopo Conte neanche Draghi ha fatto abbastanza, ci sono infrastrutture, non solo ferroviarie, da realizzare, abbiamo intere aree sismiche a rischio e il problema della ricostruzione. Gli ultimi tre governi hanno ignorato il dialogo sociale, e quest’ultimo nel rivedere il codice degli appalti vede il dibattito pubblico come qualcosa di noioso. Serve qualità, cioè funzionari pubblici. Il problema non è nel sistema ma è politico».

Ma ciò che è più importante dell’intemerata di Barca è la presa d’atto che in questi progetti «manca una mission strategica»: ‘mission’ che noi, in altra occasione, abbiamo chiamato ‘anima’ del PNRR.

Infatti, oltre la green transition, il Paese avrebbe bisogno non soltanto di risanare le rovine lasciate dalla pandemia bensì anche di recuperare il ritardo di una sua parte importante, del Meridione d’Italia lasciato indietro dal modello di sviluppo fin qui prevalente.

Mara Carfagna, ministro per il Sud nel governo Draghi, aveva annunciato che «Dietro i “titoli” delle missioni [del PNRR] ci sono riforme che aspettiamo da un ventennio, grandi opere pubbliche, investimenti nella modernizzazione del Paese, connessioni più veloci, alta velocità, più presidi sanitari, più infrastrutture sociali, enormi agevolazioni per chi vuole investire al Sud e nelle aree interne». Ma già la distribuzione teorica dei fondi (che prevederebbe la destinazione del 40% al Sud) sembra del tutto insufficiente a realizzare il riequilibrio territoriale in materia di infrastrutture fisiche (ferrovie, strade, porti, etc.), pensiamo anzi che il divario continuerà ad allargarsi dal momento che, per le infrastrutture, al Nord verrà destinato l’altro 50% degli investimenti. La stessa proporzione e lo stesso risultato valgono per tutte le altre aree d’intervento (digitalizzazione, ‘green transition’, sanità, etc.,).

In realtà, non solo è insufficiente la somma teoricamente stanziata per il Sud (e non solo per effetto dell’inflazione che oggi richiederebbe una revisione dei costi), ma soprattutto sono del tutto utopistici i tempi previsti dal momento che, in molti casi, siamo molto lontani dalla cantierizzazione di molti dei progetti previsti. C’è da temere che molte delle opere non ancora avviate, come l’alta velocità fino a Reggio Calabria, possano cadere sotto la ghigliottina delle ‘scadenze’.

La modernizzazione delle strutture economiche e sociali – dalla ‘rivoluzione green’ a quella digitale – nonché la riduzione di disuguaglianze vecchie e nuove, sono certamente obiettivi da perseguire in tutto il Paese ma, altrettanto certamente, la ripartizione delle risorse per tali obiettivi dovrebbe conto delle posizioni di partenza delle sezioni oggi fortemente deficitarie. Bisognerebbe rovesciare le politiche – finora volte prima ad accrescere le potenzialità produttive del Nord e, dopo, a trasferire una quota del nuovo reddito al Sud – che hanno ostacolato lo sviluppo del Sud per farne il vero volano della ‘modernizzazione’ e la rinascita di tutto il Paese: l’armonizzazione ‘nazionale’ non è un interesse ‘costituito stupido’ come quelli di cui Draghi diceva di non doversi tenere conto. Senza una tale svolta, la ‘questione meridionale’ è destinata all’eternità e il divario Nord-Sud è destinato ad accentuarsi.





Fonte: di Giuseppe Butta'