"LA NUOVA MARCIA" di Marco Cianca

26-10-2022 -

Alla fine, l'imprevedibile è diventato realtà. Nei giorni della Marcia su Roma, gli eredi del Msi sono entrati a Palazzo Chigi. Le riflessioni storiche stimolate dal centenario dello squadrismo trionfante hanno lasciato il posto alla stupefatta analisi del presente. Come se un vecchio documentario in bianco e nero fosse all'improvviso, durante la proiezione, diventato a colori, facendo vedere che a piazzale Loreto non era finito proprio niente e che i figli dei figli hanno continuato ad alimentare la fiamma sul cenotafio del Duce fino a renderla abbagliante.

Scriveva Giorgio Pisanò, nell'introduzione ad una raccolta di scritti mussoliniani: “Privato della guida di Mussolini e degli uomini che sarebbero stato in grado di continuarne l'azione, il fascismo è sopravvissuto essenzialmente come patrimonio dei singoli in attesa che dalle nuove generazioni sorgano altri quadri politici. Saranno questi che, traendo ispirazione dal pensiero di Mussolini e dall'esperienza conclusiva della Repubblica sociale, ricondurranno il popolo italiano sui binari della vera libertà e della giustizia sociale”. Era il 1967, non tanto tempo fa. La violenza nera che aggrediva le lotte operaie e studentesche veniva affrontata essenzialmente come un problema di ordine pubblico. Le richieste di scioglimento del Movimento sociale erano respinte con il ragionamento che non si poteva mettere al bando un intero partito capace, nelle elezioni politiche del 1972, di sfiorare i tre milioni di voti. Lo stesso Pci, timoroso di scatenare al contrario un'ondata di anticomunismo, non ha mai preso sul serio una tale esigenza.

La verità è che questa sorta di riserva indiana non faceva davvero paura e anzi la Dc continuava a considerarla una possibile stampella, come era avvenuto nel 1960 con la sciagurata esperienza del governo Tambroni.

E così la talpa, tra complicità, connivenze, furbizie, miopie, ha continuato a scavare. Poi è arrivato Silvio Berlusconi, la storia e la memoria sono finite in lavatrice, insieme con i cervelli degli italiani. Lo sdoganamento apparve una scelta ormai matura, una mossa inevitabile, e il percorso di Gianfranco Fini, mentre i grandi partiti finivano sotto le macerie di Tangentopoli, sembrava avviarsi su un percorso virtuoso: il congresso di Fiuggi, la nascita di An, il giudizio “sul male assoluto”. Ma l'intricata vicenda della casa di Montecarlo oscurò il nuovo astro politico e il processo di rielaborazione ideologica finì in soffitta. La trasformazione delle vecchie nostalgie in un moderno conservatorismo, ammesso che fosse un intento sincero, non ebbe seguito, nonostante i lodevoli sforzi di Giuseppe Tatarella e Domenico Fisichella.

La talpa riprende il suo lavoro. Nel 2012 arrivano i Fratelli d'Italia, quasi nell'indifferenza generale. L'attenzione era tutta concentrata sull'avventura dell'esecutivo guidato da Mario Monti e i tormenti della destra estrema interessavano poco. Eppure, di fatto, veniva ripristinato il cordone ombelicale con il Msi, mettendo tra parentesi l'esperienza di Alleanza nazionale. Più Almirante che Fini.

Noi guardiamo al futuro, non rinvanghiamo il passato, assicuravano i fondatori, in prima fila Giorgia Meloni e Ignazio La Russa. Ora lei è presidente del consiglio, lui la seconda carica dello Stato. “Non rinnegare, non restaurare”, ripeteva Augusto De Marsanich. Una capacità mimetica che esclude pentimenti e autocritiche.

Non ho simpatia o vicinanza con i regimi totalitari, fascismo compreso, ha detto per la verità lei nel primo discorso alla Camera. Forse è in buona fede, forse si è autoconvinta, forse non ha le idee chiare. E in ogni caso Parigi val bene una messa. L'aula non risulta sorda e grigia ma, al contrario, suscita “emozione e rispetto”. Le leggi razziali vengono bollate come “il punto più basso” della nostra storia, “una vergogna” che ci segnerà per sempre. Il giudizio è perentorio. Ma, diciamolo, sarebbe davvero fuori di ogni logica sostenere il contrario. E non si può nemmeno tacere o far finta di niente, una volta che sei arrivata lì.

Meglio così, comunque. Il colore blu di tailleur e giacche sa di elegante conformità, altro che labari, orbace e divise. I sorrisi e i convenevoli condiscono di gentilezza il cambio delle poltrone. Abbracci e cordiali strette di mano, i saluti romani non si fanno nemmeno per scherzo. Tutto nella norma, sembrerebbe. È solo la nascita di un nuovo esecutivo, il sessantottesimo dell'era repubblicana.

Eppure, il linguaggio, la retorica, e persino la postura, un'altra parola ora di moda e che evoca le statue del Ventennio, sanno di intolleranza e hanno un qualcosa di minaccioso, se non proprio di violento. Contrapporre, e privilegiare, la democrazia “decidente”, venduta come presidenzialismo, rispetto a quella “interloquente” significa negare la necessità compromissoria e inclusiva che rappresenta il sale di una società aperta ed è alla base del parlamentarismo. Ci si può riempire la bocca con il termine “libertà” avendo però in mente la dittatura della maggioranza.

Quale maggioranza, poi? In base all'ignobile legge elettorale in vigore, figlia del Pd renziano, Fdl si è imposta, ha ricordato proprio in questi giorni Ilvo Diamanti, con il 26 per cento dei votanti, cioè il 17 per cento degli elettori.

Dio, Patria e Famiglia. Autarchia, nazionalismo, tradizione. Ordine, disciplina, gerarchia. Guai ai diversi e ai traditori! La normalità, concetto quanto mai falso e artefatto, non prevede diserzioni. L'uguaglianza non viene intesa come universale similitudine, fratellanza globale, ma come gabbia tribale.

La meritocrazia, invece di aiuto e riconoscimento di chi avrebbe capacità ma non è in grado di esprimerle, può essere declinata come subordinazione, affidabilità, omologazione. Se fai il bravo, ti premio. I cattivi dietro la lavagna. E il padronato stia tranquillo: “Non disturberemo chi vuole fare”. Un giorno, speriamo, verranno svelati gli l'interessi della grande imprenditoria rispetto ai miliardi del Pnrr. E qualcuno, speriamo ancora, racconterà quanto questi interessi abbiano o meno determinato il succedersi dei governi, dal Conte due alla situazione attuale passando per Draghi.

Una lettura di classe di quel che sta avvenendo non fa male. La tassa piatta mina già da programma la progressività fiscale. Rottamazioni e condoni confermeranno la stupidità di fedeltà e onestà fiscale. Una spruzzata di corporativismo potrebbe illudere professionisti, artigiani, commercianti. I forti gioiscono, i deboli tremano. La posizione e le alleanze in Europa restano tutte da chiarire. E l'ipocrisia la fa da sovrana.

Cent'anni dopo, la nuova marcia su Roma non avviene con i manganelli degli squadristi, non esalta propositi eversivi, non rompe la testa degli oppositori, non devasta le loro sedi. Segue i canali istituzionali, non vìola le regole del sistema, anche se promette modifiche estese e profonde. Ha il volto delicato di una donna, la prima presidente del consiglio. Ma loro sono lì, nella stanza dei bottoni. Vestali e sacerdoti della fiamma tricolore.