"MISERIA DELLA SOCIOLOGIA POLITICA E MISERIA DELLA POLITICA"

26-07-2022 -

Parafrasando il famoso duello tra Marx e Proudhon sulla ‘filosofia della miseria’ e sulla ‘miseria della filosofia’, ci viene da dire ‘miseria della sociologia politica’.

Domenico De Masi – l’illustre sociologo aspirante alla guida ideologica del manipolo di apriscatole parlamentari 5 stelle e autore di ricerche sociologiche tutte celebri per le scivolate d’ala che presentano come verità assolute i frutti della sua fervida fantasia – pare che abbia scambiato le battute del comico ‘garante’ dei 5S con il suo vecchio desiderio di mettere in crisi il governo Draghi, da lui mai accettato. Approfittando di un giornale scandalistico e scandalosamente fazioso, De Masi ha messo in giro la barzelletta secondo la quale Grillo gli avrebbe confidato le pressioni del premier Draghi per chiedere la rimozione di Conte dalla presidenza del Movimento.

Draghi ha smentito; Grillo non ha confermato.

Oddio, tutto è possibile, anche che Draghi non dica la verità sulle telefonate o sui messaggi con Grillo; è vero che Draghi ogni tanto si lascia andare e, preso da ‘ansia da prestazione’, cerca di adeguarsi a linguaggi e comportamenti dei politicanti, ma personalmente dubito che lo ‘sfingeo’ Presidente del Consiglio sia stato così imprudente da confidare le sue valutazioni negative su Conte a un barzellettiere come Grillo.

D’altra parte, mai sarebbe potuto sorgere il sospetto che qualcuno potesse chiedere a un capoccia come Grillo di ‘rimuovere’ il capo politico del M5S se questo non fosse nella ridicola condizione di essere un movimento eterodiretto, sia pure dal suo stesso comico creatore e papà-padrone: il sedicente garante, anche comico, si arroga infatti il diritto non solo di fare le nomine ma anche di disconoscere le capacità organizzativa e di leadership politica dei suoi ‘eletti’, come ha fatto dettando per Conte questo splendido epitaffio: «non ha visione politica … non ha capacità manageriale».

Non c’è bisogno di ricordare che, in un partito serio e democratico, i vertici direttivi sono nominati dalla base non da un Grillo ‘parlante’.

Poi a Conte è venuto pure il dubbio che la scissione dei 5S per mano di Di Maio sia stata voluta sempre da Draghi e, forse, da più in alto: infatti, prima che annunciasse il divorzio dal ‘pacifista’ Conte, Di Maio stava seduto sugli scranni del governo in Senato a scambiarsi sorrisini con il suo presunto mentore e, subito dopo e prima di annunciare la scissione, è salito al Colle più alto per far sapere che alea iacta est.

E ciò è molto più sospetto.

Come mai, in questa occasione, Mattarella ha ricevuto Di Maio? Forse perché continua a sentirsi il demiurgo saggio, o il burattinaio, di questo spettacolo umiliante offerto dalla politica italiana?

Siccome siamo un Paese che di scissioni partitiche ne ha viste tante, sappiamo bene che, fino ad ora, il Presidente della Repubblica (o il re, ai tempi della scissione di Livorno) non è stato mai informato anticipatamente delle intenzioni degli scissionisti.

Al Colle poi è salito pure Conte che ha chiesto al Presidente conto e ragione delle ipotizzate ‘interferenze’ di Draghi negli affari grillini. Certo, se c’è stata, una tale interferenza sarebbe piuttosto grave; tant’è che, nonostante le smentite, il buon avvocato Conte ha sfidato il Presidente del Consiglio, sostenendo di avere in mano le prove del misfatto: gli ‘screenshot’ degli sms che il Presidente del Consiglio avrebbe indirizzato a Grillo chiedendo la testa del cosiddetto capo politico dei 5S.

Ma se ha queste prove, come le ha avute? Qualcuno ha pure avanzato l’ipotesi che ci sia stato lo zampino dei vecchi amici di Conte nei servizi segreti, che l’ex Presidente del consiglio ha diretto da par suo; quale che sia la verità, dobbiamo dire che l’intercettazione del telefono di Draghi da parte di Conte sarebbe gravissima.

Il duello rusticano doveva avere luogo lunedì 4 luglio alle ore 16: nel pomeriggio di fuoco i contendenti sarebbero stati armati dei rispettivi cellulari. Poi, la tragedia della Marmolada, li ha costretti a rinviarlo di due giorni, sempre con le stesse armi ma a Conte è stata concessa l’arma supplementare di un ‘papello’ calibro 7 (pagine) con le richieste irrinunciabili dei 5S: negoziati per la pace in Ucraina (il governo dovrebbe farsi promotore di iniziative diplomatiche che portino alla fine del conflitto); salario minimo; superbonus edilizio, reddito di cittadinanza; stop al termovalorizzatore di Roma; sto alle nuove trivellazioni di gas; etc.. Ah, dimenticavo il famoso cashback!

Come si vede tutte questioni di ‘alta politica’ e tutte risolte: “vedremo, vedrò, si vedrà” è stata la serafica risposta del Draghi ‘desnudo’.

La sfida si è ridotta a far presente a Draghi il ‘disagio politico’ dei 5S e alla richiesta di ‘discontinuità’ nell’azione di governo: ma gli ‘screenshot’ sono rimasti in canna, Conte non ha sparato un colpo: almeno Casalino non si è esibito con i suoi comunicati e Travaglio se l’è cavata con una ‘elegia’ – la cui eleganza spetta ai lettori giudicare – sui «mejo opinionisti del bigoncio» che si aspettavano un Conte avventurista che avrebbe portato a Draghi solo «un foglietto con scritto ‘suca’ o ‘ciaone’ come fecero i due Matteo rovesciando il Conte 1 e il Conte 2 senza spiegare il motivo (anche perché non ce n’era). E sono rimasti delusi quando ha consegnato un corposo documento che impedisce loro (ma non c’è limite alla demenza) di evocare il ‘nuovo Papeete’».

Le prove del pettegolezzo Draghi-grilliano restano nella coscienza di De Masi. Spetterebbe infatti a lui dirci la verità – ne va della sua credibilità non solo politica ma anche scientifica – ma è insolitamente abbottonatissimo.

Insomma, un ultimatum con riserva di non farne niente, cioè lo stesso atteggiamento che Il Conte ‘leader’ ha tenuto per la questione delle armi all’Ucraina: ha minacciato lo stop alle armi e al governo, ha subito la scissione di Di Maio e, poi, ha votato per il mantenimento del decreto che ne aveva autorizzato la fornitura. Infatti, il giorno dopo, i contiani hanno votato, alla Camera, la fiducia al governo posta dal governo sul decreto ‘aiuti’ facendo così decadere l’emendamento che i essi stessi avevano presentato per mantenere le misure di cui al ‘papello’ e, poi, i grillini contiani non hanno votato il decreto.

Miseria della politica!

Conte si riservava infatti l’ultimo colpo ai tempi ragionevoli che, con un eloquio ingarbugliato da azzeccagarbugli, ha lasciato a Draghi per cambiare politica: «Ci aspettiamo risposte convincenti dal governo entro luglio sui temi che abbiamo posto. Chiediamo chiarezza. Basta ricatti, basta cambiali in bianco. Ovviamente le urgenze che abbiamo posto non sono urgenze che richiedono una pronta risposta. A noi non serve una pronta risposta, occorre però una risposta in tempi ragionevoli. Nessuno può pensare che ci sia un rinvio a dopo l’estate, diciamo che in questo mese o nei prossimi giorni andrà chiarita qual è la disponibilità del premier Draghi e del governo a lavorare con noi».

Il povero Conte ha tentato di risolvere un dilemma assai arduo – votare la fiducia così perdendo un’altra fetta del suo partito e l’alta protezione di Travaglio e De Masi, o non votarla così aprendo la crisi per andare alle elezioni con il rischio di perdere buona parte dei suoi parlamentari? – mettendo in mare una mina vagante, cioè la minaccia di uscire dal governo senza farlo, di dare l’appoggio esterno al governo e, nel frattempo, bombardarlo continuamente fino alle elezioni nella speranza di recuperare consensi con una campagna demagogica su temi come reddito di cittadinanza o la transizione verde (e l’Ucraina).

Poi, finalmente, il 14 luglio, Conte ha sciolto la riserva dichiarandosi insoddisfatto delle risposte ottenute dal Presidente del Consiglio e annunciando che, in Senato, non avrebbe votato la fiducia al governo, con il paradosso che a chiedere la fiducia sempre sullo stesso decreto a nome del governo era un suo ministro, D’Incà, e con l’ulteriore paradosso che i ministri 5S non si sono dimessi.

Questa mossa astuta è stata smascherata da Draghi che – coerentemente con la sua annunciata indisponibilità ad assoggettare il governo alle pressioni/ricatti/rinvii di un Conte passato dal cavourismo (chi non ricorda la topica del ‘geniale’ Eugenio Scalfari che, qualche anno fa, riconosceva i grandi meriti del Conte di Volturara Appula designandolo quale degno erede del Conte di Cavour?) al garibaldinismo (si fa per dire) – ha presentato le sue dimissioni perché convinto di non potere andare avanti con una maggioranza del genere e che sia meglio andare a votare.

Quando Draghi ha detto, dopo aver presentato le dimissioni, che «decide solo Mattarella» non ci siamo sentiti per niente rassicurati e, quando Provenzano aggiunge che «la destra vuole le urne: perché farle un regalo?», ci vediamo riprecipitati ancora una volta contro il vecchio spauracchio dei ‘barbari alle porte’, lo spaventapasseri che, da sempre, il PD usa per ‘presidiare’ il suo ‘campo largo’.

Ma Mattarella – come al solito deciso a puntellare con tutti i mezzi il castello in rovina del PD e senza tenere conto della motivazione precisa avanzata da Draghi («La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo») – ha respinto le dimissioni e, prendendo tempo per assecondare la richiesta di Letta, che diceva di voler «scongiurare la crisi» riabbracciandosi a Conte, ha rinviato Draghi alle Camere imponendogli la dolorosa penitenza di andare a giustificarsi e a chiedere uno straccio di ‘fiducia’ dopo trattative ‘levantine’.

La sua ‘saggezza’ ancora una volta gli ha consigliato di impaniare il Paese in una rete di ‘non possumus’ e di manovre occulte. Draghi e PD, all’unisono, avevano minacciato che, nel caso in cui i 5S si fossero ritirati dal governo, non vi sarebbe stato alcun altro tipo di governo o di maggioranza in questa legislatura e che, quindi, si sarebbe dovuto andare alle elezioni: ma era solo un’ammuina. Un’ammuina duplice: quella dei 5S, che non votano la fiducia ma non fanno dimettere i propri ministri, e quella del PD che, dopo aver impedito per anni il ricorso alle elezioni e avendo contribuito a prosciugare il serbatoio di voti dei 5S, forse ora sentendosi elettoralmente più al sicuro la spara grossa sulle elezioni ma, in realtà, non intende avventurarsi nella terra inesplorata dell’umore degli elettori fino a quando non riuscirà a cambiare a suo vantaggio la legge elettorale e a sistemare i propri affari con le numerose nomine negli enti pubblici che si stanno approssimando: già si è servito un buon antipasto con la nomina di un certo Bernardo Mattarella a capo di Invitalia, il posto che fu del famoso Arcuri: di bene in meglio.

Una tale ‘sceneggiata’ ha dato pure adito al solito Travaglio di ironizzare sul Draghi che «si sfiducia da sé e si fa il ‘papeete’ da solo» e sul pantano nel quale si mutano ancora una volta i giardini del Quirinale; mentre De Masi accolla a Draghi stesso la responsabilità della sua caduta non solo per non aver ottemperato al diktat di Conte ma per non voler governare con una maggioranza diversa da quella che lo portò a Palazzo Chigi; Massimo Giannini ha scatenato la caccia a Salvini accusandolo sulla ‘Stampa’ di aver provocato la crisi. Questa caccia si è conclusa con il discorso che Draghi ha fatto il 20 luglio al Senato: marginalizzando il peso contiano nell’apertura della crisi e sottacendo i punti di dissenso con i 5S, egli ha attaccato la Lega pur senza nominarla e, così, non so quanto consapevolmente, spingendola fuori dalla maggioranza.

Nei cinque giorni intercorsi dalle dimissioni di Draghi sono corse le ipotesi più varie. Si è parlato, come se fossero intercambiabili, di un governo Draghi con i 5S – che il Segretario ‘parigino’ del PD sostiene per concimare il suo ‘campo largo’ – o senza i 5S – che pare possa piacere a Lega e Forza Italia ma non al ‘parigino’, che ha subito scatenato un fuoco di sbarramento giungendo ad accusare i due partiti del centrodestra di essere alleati di FdI, unico partito all’opposizione – o, peggio ancora, di un governo balneare (sta circolando l’ipotesi terrificante di un governo presieduto da Giuliano Amato). Tutte contornate dai pressing – anche stranieri, e anche UE, che si è distinta per le non troppo velate minacce di non darci più i finanziamenti del PNRR – perché Draghi salvi il paese sommerso dalle ‘emergenze’.

Un pressing strano e inedito che vede la sinistra in prima fila – dalla CGIL a Renzi, dalla Confcooperative a Letta e ai sindaci – ma anche la Conferenza episcopale italiana e il Financial Times, a implorare Draghi perché non lasci l’Italia nei guai. Un pressing che ha pure avuto l’effetto indesiderato di indurre Draghi a credere di poter dire: «sono qui solo perché gl’italiani me lo chiedono». Un errore fatale.

Fare apparire Draghi come l’uomo del destino è un pessimo servizio per lui e, soprattutto, per il Paese, che non merita di essere condannato per sempre al trasformismo. Con tutto il rispetto, in questo caso Draghi non sarebbe altro che una foglia di fico del PD. Il pressing altro non è infatti che un appello perché egli si metta alla ricerca di ‘responsabili’ e di ‘costruttori’, quelli evocati da Mattarella nel gennaio ’21, ai quali Conte fece una caccia spietata: ma forse, ora come allora, l’emergenza vera è quella del PD che, in mezzo al guado, rischia di affogare senza la ciambella del ‘campo largo’, che ormai la penosa esibizione dei 5S ha reso impraticabile.

Ora, dopo la vicenda paradossale dei 5S con un piede fuori dal governo e i suoi ministri dentro, come si sarebbe potuto giustificare un ennesimo gioco d’artificio mettendo in campo o un Draghi bis, con o senza i 5S, o un ulteriore governo tecnico? se, in nome delle emergenze, andasse a finire con un nuovo pastrocchio ‘machiavellico’, per non dire ‘mattarellico’, allora dovremmo dire che il prezzo pagato in questi anni per salvarci dalle emergenze è stato tutto a carico della democrazia, a carico del popolo le cui capacità di autogoverno sono state messe in dubbio, anzi sono state temute. Anche il buon Di Maio, grande teorico della democrazia rouseauviana, temendo di non essere pronto a concorrere a elezioni anticipate e di non poter ricavare alcun beneficio dalla sua pugnalata edipica al padre-padrone, ci avverte che il voto anticipato ci porterebbe sull’orlo del baratro. Lo vorremmo rassicurare, nel senso cioè che il baratro lo potremmo evitare giusto con le elezioni immediate – cioè restituendo al popolo lo scettro di cui da tempo è stato privato.

La giornata del 20 luglio – che ha visto Draghi pendolare tra ‘comunicazioni fiduciarie’ e ‘campi larghi’ come surrogato dell’unità nazionale – è stata quella della fiera delle ‘formule di governo’, più o meno di fantasia, per risolvere il busillis della crisi; una giornata che si è aperta con l’appello di Draghi a un ‘nuovo patto di fiducia e unità’ ed è scivolata subito verso l’infausto epilogo: questo appello era infatti soltanto ‘retorico’ per non dire ‘ipocrita’, visto che si scontrava con la pretesa del Presidente del Consiglio di dettare a tutti ma senza consultare tutti ma solo i suoi mentori più alti (Mattarella e Letta), i termini di questo patto rinnovato.

Poi Draghi ha fatto la sua scelta di campo, ha abbandonato il ‘bozzolo dell’unità nazionale’ nel quale il suo governo era nato e cresciuto e ha accettato la stampella pdina sotto le mentite spoglie di Casini. In sostanza, Draghi intendeva salvare capra e cavoli al PD perché, pur non evitando la crisi del governo, ha fornito a Letta l’alibi per poter continuare a flirtare con Conte (infatti, qualcuno, in un estremo tentativo di inciucio, ha pure tentato di fargli riavere i voti di Conte): è stata questa la scintilla che ha fatto esplodere quella miscela esplosiva che covava dall’inizio sotto il governo di ‘alto profilo’: l’incompatibilità tra le forze politiche che l’hanno formato.

Poi, finalmente, Draghi, dopo aver fatto passare ‘a nuttata’, ha preso atto dell’impossibilità di rabberciare la situazione e, dopo essersi beato della standing ovation tributatagli solo da una parte della Camera, è andato al Quirinale per dimettersi irrevocabilmente.

Una giornata che, francamente, ci poteva essere risparmiata se solo si fosse per tempo preso atto della situazione e non si fosse praticata la respirazione bocca a bocca al governo già defunto.

Mattarella – dopo aver finalmente ‘studiato’, e con profitto, la vicenda del governo Ciampi che, minacciato di essere sfiduciato dalla ‘sinistra’ comprensiva del cosiddetto ‘partito dei giudici’, si dimise inducendo il Presidente della Repubblica a sciogliere senza indugio le Camere – si è deciso e ha annunciato, con mestizia, l’indizione di nuove elezioni.

Ma vogliamo ‘rassenerarlo’: in una democrazia funzionante, il ricorso alle elezioni è un fatto vitale; nessuno venga a dirci che l’emergenza della ‘guerra alle porte’ o del PNRR non le permetterebbe; per affrontare le emergenze, serve la volontà degli elettori non quella dei tecnici. I danni che può fare il popolo con le sue scelte elettorali sono sempre minori rispetto a quelli prodotti da una scelta, necessariamente di parte, quale quella di imporre un governo cosiddetto del ‘presidente’, con connesso e dubbio potere di controllo che il Presidente si è arrogato sulla nomina dei ministri e, quindi, sull’indirizzo politico del governo. La nostra Costituzione, checché ne dicano i ‘costituzionalisti’ di corte, non prevede un siffatto ‘monstrum’; per quanto meraviglioso possa essere, esso è frutto di una involuzione autoritaria.

Questa vicenda ci spinge ancora una volta a chiederci se sia stato veramente saggio formare un governo cosiddetto di unità nazionale ma che non aveva nulla di unità e poco di nazionale; un governo annunciato con la famosa excusatio non petita che Mattarella, contrito, ci ha propinato nel gennaio 2021: «sarebbero necessarie le elezioni ma non si può; purtroppo, la pandemia, il PNRR, etc., lo vietano sicché ho dovuto convocare Draghi per domattina alle 11, per formare un governo di ‘alto profilo’, senza alcuna formula politica».

Una invenzione da premio Nobel che ha condannato questo stesso governo e il Paese alle convulsioni di questa nostra estate.

Questa crisi è quasi un miracolo di cui dovremmo ringraziare il cielo e profittarne: i 5S tornino là da dove sono venuti, quasi dal nulla. Certo dovremo rimpiangere il Presidente Draghi per le sue qualità personali e, soprattutto, per la fermezza con la quale ha guidato la politica estera italiana – tanto che qualcuno si chiede se Mosca non abbia messo lo zampino nella sua caduta – ma, ad essere sincero, io ho molti dubbi sulla linea che Draghi ha seguito nel confezionamento del PNRR, del tutto afono sul Mezzogiorno. E, inoltre, ho la certezza che il suo governo non ha fatto nulla per provvedere alle carenze strutturali del sistema sanitario, scolastico e dei trasporti del nostro paese e ha preferito crogiolarsi nel green pass e nell’obbligo vaccinale.






Fonte: di Giuseppe Butta'