"GRAN BRETAGNA: ESSERE PREMIER"

25-07-2022 -

“Fuck that” ha risposto Boris Johnson a chi lo sollecitava a dimettersi. Fino all’ultimo, fino a quell’amarissimo giovedì 7 luglio 2022, ha sperato di continuare a svolgere quello che considera “il più bel lavoro del mondo”: essere Primo Ministro. Come Carlo I, era persuaso che Dio gli avesse dato il diritto di governare in eterno. E in un certo senso, ne è convinto tuttora: si è dimesso infatti solo da leader del partito Conservatore. Da primo ministro lo farà a ottobre, ha promesso. Nel frattempo, dice chi lo conosce bene, spera che accada qualcosa: la regina potrebbe morire; Putin potrebbe lanciare un attacco nucleare; i francesi sequestrare l’intera flotta peschereccia britannica; la Cina invadere Taiwan. Tre anni fa una miriade di elettori decise che sarebbe stato divertente avere un primo ministro divertente. E mise questo curioso personaggio, colto e gigione, abile e contafrottole, in grado di arrivare ai vertici del potere e diventare il leader della Gran Bretagna. Boris Johnson sembrava destinato a mietere solo successi: nel 2019 aveva portato il partito alla più grande vittoria in 32 anni, ridotto in cenere il Labour di Jeremy Corbin e il suo programma socialista e realizzato la Brexit. Si crede invincibile e comincia a commettere una serie di errori. Trasforma il partito conservatore nel partito di Johnson, allontanando personalità di tutto rispetto. Ignora ogni regola alla base di un’efficace conduzione di governo: nominare i collaboratori migliori e continuare con loro; identificare il programma di politica interna e attenersi ad esso; assicurarsi che la propria condotta sia ineccepibile; far sì che venga perseguito un programma politico coerente; mantenere le promesse date. Inesorabile, ha inizio la discesa. Emergono dapprima gli errori, poi una sequela di scandali. Più aumentano i problemi in patria, più disperatamente si aggrappa all’illusione di un successo all’estero: in questa chiave vanno viste il sostegno all’Ucraina dopo l’invasione russa e le visite al presidente Zelensky. E’ convinto che realizzare la Brexit sarà la soluzione di tutti i problemi, ma i problemi che deve affrontare – educazione, finanziamento del sistema sanitario, infrastrutture, produttività, immigrazione – non hanno mai avuto niente a che vedere con l’Europa. Tuttavia, nonostante i molti errori in politica interna, non sono questi a segnare l’inizio della fine, ma il suo comportamento in privato. Salta fuori che durante la pandemia, mentre il Paese è costretto in casa da un rigido lockdown, a Downing Street Johnson tiene feste affollate di ospiti, violando le sue stesse regole sul Covid. Che sono state fatte spese pazze per ristrutturare la sua abitazione. Che ha minimizzato o ignorato abusi sessuali commessi da ministri e sottosegretari. Gli scandali si succedono agli scandali. E intanto l’economia entra in crisi, il costo della vita sale, le liste d’attesa negli ospedali si allungano. La disfatta alle elezioni suppletive di giugno a Wakefield, Tiverton e Honiton sono il segno che l’uomo che era una volta un “vincente” è diventato un perdente nel nord come nel sud del Paese. La goccia che fa traboccare il vaso è l’affare Chris Pincher: nonostante fosse stato più volte avvertito del suo comportamento scorretto, Johnson non l’ha allontanato dal governo. La sua autorità sul partito comincia a sgretolarsi. I primi a dimettersi sono Sajid Javid, ministro della sanità, e Rishi Sunak, cancelliere dello scacchiere. La storia insegna che le dimissioni di due ministri anziani sono fatali al primo ministro. Johnson lo sa bene: sono state le sue dimissioni da ministro degli esteri a segnare l’inizio della fine della permanenza di Theresa May a Downing Street. Questa volta la situazione è molto più grave di quella nella quale era venuta a trovarsi la May: nel giro di un paio giorni si arriva a quota 62 membri del governo dimissionari - una quota mai raggiunta in 300 anni di storia. Ormai è chiaro che la partita è finita. Ma rassegnarsi alla sconfitta esula dal suo DNA. E rimane ostinatamente attaccato al potere. Fino a ottobre, quando presumibilmente si eleggerà il nuovo segretario conservatore, rimane primo ministro, continuando la politica di governo, inclusa la deportazione di migranti in Rwanda. Con il Paese sull’orlo di una grave crisi economica con un pesante carico fiscale - il più alto dal dopoguerra-, l’inflazione al 9,1% , il partito sull’orlo del disastro elettorale e spesa pubblica, tasse e disavanzo pubblico a livelli record, è necessario che i conservatori scelgano al più presto un nuovo leader del partito, che diventerà poi automaticamente il nuovo Premier britannico. La gara fra i vari candidati è alle prime battute, e si sta rivelando una lotta sanguinosa, nella quale nel tentativo di eliminare i rivali non si risparmiano i colpi bassi, le accuse e le insinuazioni infondate. E’ interessante però notare che 6 su 11 candidati appartengono a minorità etniche: colui che ha le maggiori possibilità di vittoria, Rishi Sunak - già Cancelliere dello Scacchiere - è figlio di immigrati indiani; Nadhim Zahawi è un rifugiato iracheno; Sajid Javid proviene da una famiglia di immigrati pakistani; Priti Patel è di origini indiane -tutti costoro hanno fatto parte del governo Johnson. I genitori di altri candidati vengono dalla Nigeria, Uganda, Kenya, Mauritius and Tanzania. La gara per la leadership del partito conservatore illustra la profonda trasformazione sociale che si è attuata in Gran Bretagna. Mai prima d’ora i contendenti per la carica di Premier sono stati così etnicamente diversi. Non solo. 6 su 10 candidati sono di colore. Per un Paese in cui l’86% dell’elettorato è bianco, è un fatto straordinario. Intanto il leader laburista Sir Keir Starmer, cercando di capitalizzare lo scompiglio a Downing Street, invoca nuove elezioni. Da quando ha sostituito Jeremy Corbin alla guida del partito, Starmer ha ridotto il potere della sinistra nel Labour Party, lasciando cadere le politiche assurde del suo predecessore. Ma non è riuscito a creare un legame con l’elettorato. Nonostante i sondaggi diano il suo partito in testa di 11 punti, a causa del suo basso indice di gradimento personale, la vittoria del Labour non è scontata. Comunque vada, l’era Johnson è tramontata. Ora si tratta di scegliere il suo successore. La Gran Bretagna ha potuto superare un Johnson: un altro del suo stampo rischierebbe di provocare un danno serio. I suoi critici sostengono che è solo una raffinata versione inglese di Donald Trump. Anche Boris Johnson ritiene che la sua carica gli è stata sottratta da una congrega di nemici irreducibili, colleghi di partito affetti dalla “mentalità del branco”. Trump e Johnson sono stati abbattuti dai loro molti, comuni difetti: eccessiva narcisistica autoindulgenza; radicata opportunistica menzogna; fame di continuo autocompiacimento; dipendenza dall’adulazione della folla. Trump e Johnson sono i due simboli del populismo che continua a rimodellare la politica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Grazie alla loro ambiguità hanno minato la fiducia del pubblico nelle istituzioni democratiche. Il vero, grosso dramma della politica britannica è quello di cui nessuno osa parlare: la sopravvivenza dello stesso Regno Unito. Il problema dell’indipendenza di Scozia, Galles e Irlanda del Nord non è scomparso.






Fonte: di Giulietta Rovera