"MALEDETTA BOLOGNINA -
La svolta che avviò il declino della sinistra"

20-06-2022 -

L'anno scorso abbiamo celebrato (abbastanza in sordina), il centenario della fondazione del PCI, ma anche il trentennale del suo scioglimento, avvenuto il 4 febbraio 1991, al termine di un percorso biennale avviato con la famosa “svolta della Bolognina”; e quest'anno ricorre il trentennale di “tangentopoli” che sancì la crisi e poi la scomparsa del PSI al termine di un travagliato declino. L'occasione appare propizia per una valutazione storico-politica di quegli avvenimenti e complessivamente delle scelte compiute da socialisti e comunisti nel “triennio caldo” 1989-1992 che, per vie diverse, portò alla fine di entrambi i partiti.

Nel 1989 il PCI era ormai un partito molto diverso dagli altri partiti comunisti occidentali: aveva da tempo avviato un lento ma costante processo di adesione al metodo liberal-democratico e pluralista e di contestuale allontanamento dall'URSS. Ciò non aveva contribuito, tuttavia, a un avvicinamento fra i due partiti della sinistra che, anzi si erano progressivamente allontanati, specie nel periodo in cui le rispettive leadership furono assunte da Craxi e da Berlinguer. La lunga, opposta collocazione (l'uno al governo e l'altro all'opposizione), infatti, aveva fatto evolvere le relazioni a sinistra in senso fortemente concorrenziale finendo per deteriorare anche i rapporti personali fra i due gruppi dirigenti. La caduta del Muro li colse entrambi impreparati e forse nessuno dei due seppe compiere scelte all'altezza della situazione. La morte prematura di Berlinguer aveva, del resto, privato i comunisti di una guida esperta e li aveva colti ancora “in mezzo al guado” avendo abbandonato la sponda sovietica e non avendo ancora avuto il coraggio di definire la meta del nuovo percorso avviato. Dal canto suo, la dirigenza del Psi vide nella caduta del muro semplicemente l'occasione per un “ritorno a Canossa” dei comunisti, in realtà sostanzialmente improponibile, se non altro, per le diverse dimensioni dei due partiti. Occhetto e il suo entourage, dal canto loro, si mossero in modo confuso e contraddittorio. Significativo appare, al riguardo, l'episodio raccontato dal segretario del Labour Party Kinnock che, incontrandolo a Bruxelles il 9 novembre, cioè la sera della caduta del Muro, gli chiese: “non pensi che ora il Pci dovrebbe cambiare nome?”; e si sentì rispondere che la cosa era “molto difficile”. Tre giorni dopo, quindi, lo stesso Kinnock fu molto sorpreso nell'apprendere quello che Occhetto aveva detto alla Bolognina. Secondo Chiarante, uno dei massimi dirigenti del PCI, prima di quel discorso, Occhetto non consultò né la direzione né la segreteria. Sondaggi seri ed attendili condotti sulle opinioni della base e dei dirigenti locali del PCI in quegli anni, dimostrano peraltro che l'adesione del PCI al metodo democratico e il distacco dall'URSS erano stati poco interiorizzati dalla base e che, anzi, i vecchi miti costituivano ancora il vero collante interno del partito. Il gruppo dirigente del PCI era, del resto, profondamente convinto (emerge dagli atti dei due congressi della svolta ma anche da quelli precedenti) che la socialdemocrazia occidentale fosse ormai in crisi, essendo riuscita ad incidere solo marginalmente sulle distorsioni del sistema capitalistico. In queste condizioni e per queste ragioni maturò la scelta di rifiutare la proposta craxiana di “unità socialista”. Di contro, però, Occhetto e i suoi non pensarono alla creazione – come molti si aspettavano - di un altro partito socialista ma decisero di avventurarsi in una navigazione priva di chiare direzioni e prospettive. Alcuni autorevoli storici hanno definito il Pds un partito “radicale di massa” ma neanche questa opzione emerse chiaramente nel dibattito congressuale. Di fatto, negli anni successivi, il nuovo partito avviò quella sua lunga “marcia verso il centro” che, col tempo, passando anche per l'innamoramento kennediano dei DS di Veltroni, pervenne alla fusione fredda con la Margherita che ha dato vita al PD. La costante di questo iter è stata la marginalizzazione della componente ex migliorista o dichiaratamente socialista (che nel nuovo partito è rimasta sempre una sorta di “ospite” tollerato). Anche e soprattutto per questo, lo scoppio di Tangentopoli (1992-93) finì per acuire la contrapposizione fra ex comunisti e socialisti, col risultato che i brandelli del partito craxiano si dispersero per mille rivoli e solo una piccola minoranza aderì al PD.

E anche a causa della scarsa presenza socialista al suo interno, che il PDS-DS-PD, ha visto la sua evoluzione caratterizzata da un sempre più marcato disorientamento ideologico e culturale che lo ha portato ad oscillare fra il liberismo renziano, confusi rigurgiti antagonistici o radical chic e, oggi, persino tentato da ipotesi di alleanze strategiche con il populismo grillino. A conti fatti, questo percorso si è rivelato sterile e senza prospettive. È mancata, in realtà, al maggior partito della sinistra italiana qualsiasi prospettiva “utopica”, intesa nel senso di Baumann, volta cioè a preconizzare un sistema economico e sociale profondamente diverso dal capitalismo, che ponga al centro la persona umana e i suoi bisogni, fondato sui valori del lavoro e della solidarietà comunitaria. Insomma, sono proprio gli ideali, i sogni, le utopie che emergono dalla storia dei socialisti e dei comunisti italiani ma anche da importanti componenti del mondo cattolico, che mancano alla sinistra di oggi, che si definisce genericamente “democratica”. Ecco perché bisognerebbe “ripartire” idealmente dalla Bolognina quando il PSI e il PCI, insieme alle espressioni del cattolicesimo più avanzato, avrebbero potuto e dovuto avviare un percorso unitario che, nella piena adesione del metodo democratico-pluralista e del libero mercato, quindi in una prospettiva genuinamente riformista, non rinunciasse però a trasformare radicalmente un sistema che ormai sta mostrando tutti i suoi limiti. È sempre più evidente, infatti, che un capitalismo globalizzato, solo temperato (con il welfare) o annacquato (nei suoi aspetti deteriori) resta un sistema caratterizzato da diffuso precariato e da enormi, crescenti disuguaglianze; non crea cioè una società felice. Oggi, dopo questa epocale crisi pandemica, strati sempre più diffusi della popolazione se ne stanno rendendo conto ed esprimono una forte esigenza di cambiamenti radicali (che talvolta scivola verso miopi opzioni populiste). È necessario, è improcrastinabile che la politica sappia interpretare, orientare e organizzare queste istanze con un “nuovo socialismo” (il nome si vedrà) adatto al XXI secolo.





Fonte: di Liliana Cazzato