"SOVRANITÀ E UNIONE EUROPEA"

22-03-2022 -

Sotto la pressione degli avvenimenti in Ucraina, dello show-down delle intenzioni aggressive e imperialistiche della Russia, pare che in tutti gli stati dell’Unione Europea si sia presa coscienza della necessità di una politica estera e di difesa comuni. C’è da temere però che questa sia non soltanto una pulsione effimera ma anche che questa politica comune venga intesa nel modo distorto che abbiamo visto in passato. Per costruire una tale politica estera e di difesa comune bisogna però prendere coscienza delle debolezze della politica degli stati UE che l’hanno fino ad oggi impedita e di ciò che occorre per costruire una ‘più perfetta Unione’. Come ancora non vediamo una politica comune nei rapporti euro-americani che richiederebbero la fine di quelle fratture che li hanno segnati a partire dai tentativi velleitari di Francia e Germania di perseguire propri interessi temporanei e non strategici, spesso in contrasto con gli Stati Uniti; tentativi che hanno rotto il fronte comune dell’Occidente, nella illusione che esse, egemoni nell’UE, possano contare qualcosa.
Questo è stato un errore che, se può essere giustificato da quelli della leadership americana, certo non lo è sul piano politico-strategico soprattutto perché, purtroppo, ci ha portato a dipendere dalla Russia nella fornitura di materie prime e ha aperto alla Cina spazi strategici. Forse ora, dopo l’aggressione russa all’Ucraina, Francia e Germania saranno costrette a ripensare la propria politica: ma non c’è da esserne sicuri.
Per esempio, alle sanzioni contro la Russia deliberate da tutti i paesi UE come risposta comune all’aggressione dovrebbe corrispondere una politica economica comune per farvi fronte ma finora non se ne è parlato.
Negli ultimi anni, la benzina rovesciata a bidoni ha infuocato la polemica contro il sovranismo. Da ultimo, a commento degli avvenimenti ucraini, abbiamo letto su un importante quotidiano l’atto di accusa secondo il quale i sovranisti avrebbero «eroso la base di consenso delle democrazie occidentali» ostacolando, se non impedendo, l’evoluzione del processo unitario europeo: si rimprovera ai ‘sovranisti’ di aver minato lo stato di diritto cercando di riservare al proprio stato – stando al trattato di adesione all’UE – il potere di regolare, per esempio, la materia dell’aborto o quella dell’immigrazione.
Questa sembra però una polemica mossa più da ragioni di politica interna, di lotta tra i partiti nei vari stati dell’UE, e meno da una reale e onesta riflessione sullo stato dell’Unione. Durante questa crisi, i sedicenti europeisti – che prima si erano scatenati a delegittimare interi paesi, come la Polonia e l’Ungheria, o partiti e movimenti politici accusandoli di sovranismo, autoritarismo, antieuropeismo, populismo e financo di fascismo – hanno riconosciuto che questi stessi paesi e partiti avevano fatto finalmente atto di contrizione e compreso il valore dell’Unione. Infatti questi paesi, di cui qualcuno aveva ipotizzato l’espulsione dall’UE, hanno fatto il loro dovere e, anche, sono stati i primi a indicare la strada della resistenza alla Russia perché ne conoscono bene propositi e violenza. Occorre dunque prendere atto che i limiti attuali incontrati dalla UE non dipendono dalle pulsioni sovraniste – di cui peraltro sarebbe bene intendere il significato – bensì proprio da un complesso di fattori che coinvolgono tutti gli stati membri.
Se vogliamo uscire da questo terreno sterile e contribuire all’avanzamento del processo unitario dovremmo, a mio parere, avviare una discussione meno condizionata da posizioni ‘ideologiche pregiudiziali’, se non dall’odio politico, e mettere a fuoco i temi europei, le visioni diverse del processo di unificazione: un tale mutamento di metodo, specialmente in questi tempi di crisi, sarebbe più proficuo per tutti.
Ai tempi di De Gaulle, nessuno pensava che la cosiddetta Europa delle patrie fosse populista o ‘fascista’ o definiva De Gaulle un autocrate come ora capita ai poveri Orban e Morawieski o a Kaczynski al quale, come indice del suo ‘sovranismo autocratico’, viene imputato pure il delitto di avere reso omaggio alla tomba del fratello Lech – il presidente della Polonia morto dodici anni fa in un misterioso disastro aereo in Russia – mentre i cimiteri polacchi erano chiusi a causa della pandemia.

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In realtà, ciascuno è ‘sovranista’ a suo modo. E dobbiamo dire che ciascuno ha ragione nel sostenere la propria sovranità sia in rapporto all’UE sia, più in generale, rispetto alla cosiddetta globalizzazione di cui è bene prendere le misure prima che sia troppo tardi.
Per esempio, come già abbiamo ricordato in un precedente intervento su queste stesse pagine, il celebrato europeista Emmanuel Macron è un teorizzatore e sostenitore della sovranità ‘westfaliana’ alla quale è fedele perché «Ogni volta che abbiamo cercato di sostituirla, si sono creati squilibri … non credo affatto a una crisi della sovranità westfaliana. Ci tengo davvero ... tengo profondamente a questo principio. Profondamente».
Non è necessario ricordare che il sistema ‘westfaliano’ è quello che, per tre secoli, ha fatto da miccia alle guerre tra i ‘sovrani’ europei.
Sedicente multilateralista, il Presidente francese – come del resto i suoi predecessori in preda all’idea di una ‘Francia sovrana’, di una nuova grandeur, di un ‘impero neo-carolingio’ da interporre tra Est e Ovest – mostra una visione del rafforzamento dell’Unione europea che si può riassumere nel suo slogan elettorale: «Cambiare l’Europa per far avanzare la Francia». La politica da lui perseguita fino allo scoppio della guerra ucraina era stata sostanzialmente quella dell’intiepidimento del rapporto ‘atlantico’ e della rottura dei legami dell’Europa con i paesi anglosassoni, con la Gran Bretagna in particolare, come dimostra la protervia con la quale il negoziatore dell’UE per la ‘brexit’, il francese Barnier, ha cercato di mettere in difficoltà i britannici soprattutto riguardo ai delicati dossier dell’Irlanda e di Gibilterra.
A poche ore dalla conclusione delle trattative sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, Ursula von der Leyen, ha detto baldanzosamente: «Per me, la sovranità consiste nella possibilità di lavorare, viaggiare e studiare in ognuno dei 27 Stati membri dell’Ue. Consiste nel mettere insieme le nostre forze e parlare con una sola voce in un mondo di grandi potenze. E, in tempi di crisi, consiste nell’aiutarci l’un l’altro».
Diciamo la verità, in mancanza del federalizing process queste non sono che sante e belle parole! Infatti, nelle stesse ore, Boris Johnson ha invece detto:« Finalmente abbiamo ripreso il controllo sulle nostre leggi e il nostro destino, possiamo ora definire i nostri standard, innovare come vogliamo noi. D'ora in poi, le leggi britanniche saranno fatte dal Parlamento britannico, interpretate dai giudici britannici che siederanno in corti britanniche». Non avrebbe potuto esserci una presentazione più plastica del contrasto che ha portato alla ‘brexit’, provocata in gran parte dall’egemonismo ‘continentale’ di Francia e Germania. È chiaro che, fino a quel momento, un membro autorevole e importante dell’Unione come la Gran Bretagna aveva sofferto le forche caudine imposte dall’Unione. E potremmo fare altri esempi.
Alcuni pensano che, per far fonte al potenziale immobilismo dei 27, sia necessario ripensare il progetto di integrazione, liberandolo dall'idea irrealistica di un'Europa a misura unica dal momento che essa è differenziata nei fatti; ciò, a loro avviso, richiederebbe una differenziazione delle fasi dell’integrazione tale da consentire ad un nucleo di Paesi di andare avanti verso un’unione politica sempre più stretta anche attraverso il meccanismo delle «cooperazioni rafforzate» e lasciarne fuori gli altri. Insomma, un’unione a ‘due velocità’ o a ‘cerchi concentrici’, come già proponeva Jaques Delors che dovrebbe essere temporanea ma che, a mio avviso, sarebbe la via più diretta verso la ‘riproduzione’ delle criticità e dei contrasti che hanno caratterizzato la storia dell’Unione.
Anche Romano Prodi invoca un nuovo ‘asse Roma-Berlino’ come corollario necessario di quello con la Francia e l’eurodeputato Giuliano Pisapia fantastica di ‘due velocità’, quasi futuristiche, come volano per il rilancio europeo
Temo fortemente che l’introduzione di queste ulteriori diseguaglianze e di questi accordi interstatali rappresenterebbe un ostacolo molto grande per il vero europeismo al quale non serve affatto la frantumazione dell'Unione in aree separate e potenzialmente in conflitto. E qui è da richiamare la limpida formula del X Emendamento della Costituzione del Stati Uniti e l’altra sua disposizione che vieta accordi tra gli Stati (che invece in Europa abbondano: asse franco-tedesco; Trattato del Quirinale, ancora poco noto nei suoi contenuti; Patto di Visegrad). Se non si pone riparo ai difetti attuali dell’UE e delle sue istituzioni, che spesso prendono iniziative fuori della loro sfera di competenza, questo potrebbe essere il primo passo verso la disgregazione dell’UE: alla ‘’brexit’ vogliamo aggiungere altre ‘exit’?

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Finora è rimasta inevasa la domanda che Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi ponevano settanta anni fa, cioè se, per dare sostanza al federalismo funzionale, non fosse prima necessario dare vita al federalismo politico per poter risolvere un complesso di questioni, per stabilire la cooperazione e un processo di pacificazione tra stati che si erano combattuti fino all’ultimo sangue non soltanto nella guerra appena conclusa ma per secoli. Invece, il gradualismo o ‘funzionalismo’ della costruzione dell’unità europea attraverso integrazioni settoriali successive si è dimostrato fino ad ora l’unico avanzamento possibile.
Nonostante i progressi e la svolta di Maastricht, il processo di integrazione europea non ha ancora dato vita all’unità politica che vagheggiamo. Nessuno oggi mira realmente a fare il ‘grande passo federalista’ e, anche se il processo incrementale di integrazione dei mercati e di formazione di una comunità di diritto e il funzionalismo contengano “in nuce” il federalismo, non si può dire che questo seme si sia sviluppato molto.
Lo stesso meritorio Piano di aiuti che l’UE ha varato per venire in soccorso degli stati membri, colpiti furiosamente dalla pandemia nella loro economia oltre che nella salute e nelle vite dei cittadini, ha solo in minima parte quel carattere che si vorrebbe come passo del processo di federalizzazione, cioè l’assunzione del debito a carico dell’Unione: infatti, il piano, che porta il marchio Macron-Merkel, è una partita di giro che non rappresenta un nuovo modello di Unione. Meglio di niente.
La ragione per la quale non riusciamo a superare questo limite – che, come è stato detto su queste pagine, può essere considerato il ‘peccato originale’ del processo inaugurato nella Conferenza di Messina e con il trattato di Roma istitutivo della CEE – sta nel fatto che non siamo stati fin qui capaci di riconoscere le modalità necessarie a promuovere un processo di una vera e propria integrazione politica: il processo federativo non si può fare calando dall’alto una camicia di Nesso sugli stati dell’Unione o invocando la supremazia dell’ordinamento giuridico europeo sopra quelli degli stati membri senza prima avere stabilito i limiti di una tale supremazia.
Un’idea di questa logica centralista è quella di Macron che, in occasione dell’inizio del semestre della presidenza francese, dell’UE ha detto al Parlamento europeo: «Bisogna aggiornare la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea per introdurre il diritto all’aborto». Macron ha impiccato lo stato di diritto europeo al feticcio del diritto all’aborto intendendo così privare gli ordinamenti giuridici statuali di ogni autonomia.

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Come diceva Walter Lippmann, «nessun gruppo di oligarchi insediati nella capitale può dirigere un sistema che abbisogna di una quantità di decisioni che debbono essere prese quotidianamente. Supporre che tutto ciò possa essere amministrato o anche semplicemente diretto da un punto centrale, da un cervello umano, da un gabinetto di ministri o da una cabala di rivoluzionari, significa soltanto che non si è capita la situazione».
Invece di pensare a stabilire una chiara ‘commerce cluase’ che distingua il commercio interstatale da quello intrastatale e quindi a limitare le competenze dell’Unione solo al primo; invece di distinguere i progetti economici di interesse comunitario da quelli di interesse locale, si continua a perseguire un ottuso dirigismo. Un esempio recente si è avuto con le «Guidelines for Inclusive Communication», di cui ci siamo occupati nell’ultimo numero di questa rivista; a queste si è aggiunta un’altra direttiva della Commissione Europea, indicativa di un trend assai preoccupante dell’estremismo ‘verde’, quella sull’efficientamento energetico degli edifici. In teoria, essa punterebbe a favorire la transizione ecologica ma, in realtà, penalizza case e appartamenti che, ad avviso degli illustri eurotecnocrati, "sprecano" troppo: la sanzione minacciata sarebbe il divieto di vendita e di affitto di questi edifici in caso di mancato adeguamento – a partire dal 2027 ed entro il 2033 – a standard piuttosto pazzeschi (che fanno il paio con la misura delle banane). Pare che solo in Italia siano milioni gli edifici, la maggior parte dei quali risalenti a qualche secolo fa, a dovere esser adeguati: con quali costi, con quali conseguenze per il mercato immobiliare, per l’esercizio del diritto di proprietà e per la stessa transizione ecologica, visto che milioni di immobili dovranno essere necessariamente abbandonati? Faremo degli italiani o degli spagnoli un popolo di senzatetto? A tale sanzione si potrebbe aggiungere anche una tassazione punitiva, oltre a quella già annunziata derivante dalla revisione del catasto imposta da una direttiva europea. E, visto che dal 2035 non si potranno più costruire motori a scoppio, chiuderemo tutte le nostre fabbriche e lasceremo a piedi milioni di italiani che non potranno permettersi le costosissime auto elettriche?
Da ultimo, pare che la Commissione abbia stabilito nuovi standard di emissione di CO2 per le centrali elettriche tali da escludere dal finanziamento quelle già in costruzione in Italia secondo gli standard precedentemente stabiliti dalla stessa Commissione: un esempio luminoso di retroattività delle leggi nonché di estremismo ideologico e di claudicante bilanciamento degl’interessi degli stati membri.

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Agl’inizi di questo secolo, fu fatto un tentativo di dare una costituzione all’Unione Europea sotto forma di trattato; la convenzione costituzionale, coordinata da un Presidium di cui faceva parte Giuliano Amato, partorì, sotto forma di trattato, una ‘costituzione’ europea farraginosa , contraddittoria e ingestibile.
Per fortuna, essa venne respinta da referendum popolari indetti in alcuni paesi democratici. In Italia, invece, non si fece ricorso al popolo, non vi furono referendum, sarebbe bastata la ratifica del Parlamento; noi non fummo chiamati al voto in virtù dell’art. 75 della Costituzione il quale proibisce il referendum sulle leggi di autorizzazione a ratifica dei trattati internazionali. Il che significa che il popolo italiano non potrà mai dire la sua su una eventuale, futura Costituzione europea. Non potrebbe essere questa una delle ragioni della tiepidezza con cui in Italia si guarda all’Unione? Ma una costituzione può essere considerata alla stregua di un trattato internazionale? Ricordiamo a tutti che le costituzioni, per essere efficaci, devono essere conosciute, approvate e amate. E, in particolare, lo devono essere quelle che mettono sotto lo stesso scettro popoli diversi come quelli che fanno parte dell’UE: infatti dobbiamo evitare che si lasci in incubazione il tarlo del conflitto tra le varie minoranze che devono essere messe insieme.
Ancora non si è usciti dalla logica politica del dirigismo dall’alto secondo il prevalere di determinati interessi e non ci si è avviati verso quella di un equilibrio di poteri costituzionali con la preservazione dei ‘liberi Stati’ in una ‘libera Unione’: a tal fine servirebbe una distribuzione del potere in forma non gerarchica ma contrattuale e paritaria: un sistema duale in cui due autorità governano lo stesso territorio e il medesimo popolo, ciascuna suprema nella propria sfera e nessuna delle due suprema nella sfera dell’altra.
Non temiamo di usare la parola sovranità in un’epoca in cui è stata messa al bando; non lo temiamo perché, se la sovranità degli stati può rappresentare un freno nel cammino verso forme di unioni sovranazionali, è pure vero che una ‘unione’ può essere stabilita saldamente solo garantendo a ciascun membro sicurezza dentro la propria sfera di poteri.
Un concetto antico, che Alexander Hamilton – considerato come un centralizzatore radicale e che invece era pienamente consapevole della necessità di un equilibrio tra il governo federale e i suoi costituenti – espose con grande chiarezza: «La Costituzione che viene proposta, lungi dall’implicare una abolizione dei governi statali, li rende parti costituenti di una nazione sovrana [...] lasciando ad essi una buona parte della sovranità».
Era la soluzione del problema del governo dei grandi territori, posto da Montesquieu.
La forma federale dello stato deve essere pensata, compatibilmente con la sua complessità, in termini di massima semplicità ed efficienza per non correre il rischio di inventare una «gioiosa macchina da guerra» o un federalismo di carta come quello dell’URSS. Il problema del federalismo è di come dividere la sovranità, che certamente va vista in una nuova ottica, forse quella suggerita da Otto Bauer e Karl Renner, quella di uno «Stato federativo delle nazionalità», in cui la sovranità è divisa ai diversi livelli politici, o quella delle “piccole patrie” di Jacques Maritain.
Questo vale per la nostra Unione Europea – Habermas dice che la via per superare la tecnocrazia europea e incamminarsi verso la democrazia sovranazionale è quella della ‘sovranità condivisa’ – ma vale soprattutto per il processo di universalizzazione dei diritti. Il federalizing process che ha avuto successo in America con una precisa, specifica, definitiva distinzione e attribuzione delle competenze e dei poteri ai due ordini di governo, in Europa non è tenuto al palo dal ‘sovranismo’ bensì dalla volontà egemonica di alcuni paesi; esso non potrà partire fino a quando non si comprenderà che una più perfetta unione può essere costruita soltanto sul principio della sovranità ‘divisa’.
Fino a quando non ci sarà una costituzione che definisca in modo certo i poteri del governo federale europeo rispetto a quelli riservati agli stati membri non sarà possibile che «l’Unione Europea sia – come una volta disse Mario Draghi – «la costruzione istituzionale che in molte aree permette agli Stati membri di essere sovrani», cioè rafforzandoli nell’unità.





Fonte: di GIUSEPPE BUTTA'