"ATTUALITA' DI UN'ESORTAZIONE"

26-01-2021 -

La pandemia da Sars-Covid 19 è sicuramente l’episodio più tragico del primo ventennio del XXI secolo. Il mondo intero, iper-tecnologico e globalizzato, si è trovato ad affrontare un’emergenza sanitaria che l’ha colto palesemente impreparato; e, inidonei, sono stati anche i governi dei vari stati colpiti dall’epidemia e dalle conseguenti ripercussioni politiche e socio-economiche. Una policrisi, dunque, che ha messo in evidenza la regressione dei sistemi democratici sia meno consolidati (l’Ungheria, ad esempio), che storicamente ritenuti – pur nelle loro contraddizioni – fari di libertà, come i recenti fatti di Capitol Hill hanno, purtroppo, dimostrato.
In un’intervista rilasciata a «Il Corriere della Sera», il filosofo e sociologo francese Edgar Morin – classe 1921, la cui madre si ammalò di spagnola –, ha chiarito: «L’unificazione tecnico-economica del mondo, creata dalla diffusione del capitalismo aggressivo negli anni Novanta, ha generato un enorme paradosso che l’emergenza del coronavirus ha reso ormai visibile a tutti: questa interdipendenza tra le nazioni, anziché favorire un reale progresso nella conoscenza e nella comprensione tra i popoli, ha scatenato forme di egoismo e di ultranazionalismo. Il virus ha smascherato questa mancanza di un’autentica coscienza planetaria dell’umanità» (N. Ordine, Edgar Morin. Fratelli del mondo, 5 aprile 2020).
Fratellanza e solidarietà tra popoli sono, pertanto, sentimenti labili, quasi inesistenti. All’inizio, non casualmente, in molti (tutti?) speravano che il flagello epidemico restasse confinato nella lontana Cina. Ma il virus ha raggiunto il Vecchio continente e, poi, le Americhe dando linfa vitale a criticità ed egoismi. Dove dobbiamo ricercare «un’autentica coscienza planetaria dell’umanità»? Nelle lotte intestine all’UE? Nel momento in cui il premier austriaco Kurz ha blindato il Brennero? Nella Brexit? Oppure nelle sofferenze dei migranti ammassati nel campo di Lipa, in quella Bosnia-Erzegovina che si è candidata ad entrare in Europa?
Ad oggi, col 2021 agli inizi e innanzi alle prime campagne di vaccinazione di massa, nel mondo si contano oltre 90 milioni di contagi e i morti sono più di 2 milioni. In Italia, i decessi per Covid-19 sono oltre 80mila. Tra questi, tenuto debitamente conto della tragedia accaduta nelle Rsa, quasi 300 erano medici, molti dei quali hanno affrontato la “prima ondata” privi delle adeguate precauzioni: medici di base o in servizio presso gli ospedali, ma anche operatori sanitari caduti sotto i colpi di un nemico invisibile.
In un periodo così drammatico, costellato di lutti e sofferenze, di angosce, di confinamenti e privazioni, molti hanno riscoperto o letto per la prima volta La peste di Albert Camus (1913-1960). Uscito in Francia nel febbraio 1947 per i tipi delle Edizioni Gallimard e capace di vendere, in pochi giorni, 22mila copie, il romanzo è ambientato a Orano – allora Algeria francese –, colpita da un’epidemia di peste e chiusa d’autorità con un cordone sanitario. Nessuno può entrare, nessuno può più uscire dalla città: tuttavia, c’è chi continua la propria vita come se nulla fosse e chi si chiude in casa per paura del contagio; chi lucra sui generi di prima necessità e chi giudica la malattia come la giusta punizione divina per un’umanità oramai dissoluta e senza Dio (come non richiamare le prediche di padre Livio Fanzaga, che ha definito il Covid-19 «un progetto satanico delle élite mondiali»…). E, poi, nell’eterno scontro tra scienza e fede, c’è chi si dedica, invece, anima e corpo a combattere il virus: un medico, appunto, Bernard Rieux. È questi che nel romanzo, nell’imperversare della pestilenza in città, scrive: «una volta chiuse le porte, si accorsero di essere tutti […] presi nel medesimo sacco e che bisognava cavarsela. In tal modo, ad esempio, un sentimento sì individuale come la separazione da una persona cara diventò subito, sin dalle prime settimane, lo stesso di tutto un popolo, e, insieme con la paura, la principale sofferenza di quel lungo periodo d’esilio». La città di Orano immaginata da Camus, in una non meglio definita primavera degli anni Quaranta del secolo scorso, come – in piena “seconda ondata” – sono oggi divenute Parigi, Londra, New York, Manaus, Milano, Berlino.
L’attualità del pensiero di Camus è ancor più evidente ne l’Exhortation aux médecins de la peste, pubblicato per la prima volta ne «Les Cahiers de la Plèiade» (1947) e riproposto dalle Edizioni Gallimard nell’aprile 2020. Scritto, probabilmente, nel 1941, questo breve testo viene considerato uno dei lavori preparatori proprio alla stesura de La peste. Ciò che colpisce immediatamente il lettore è come il testo possa adattarsi a quanto sta avvenendo nel mondo da un anno a questa parte. Prendendo spunto dalla profilassi seguita in passato durante le epidemie, Camus elabora una lettura filosofico-morale degli accadimenti che coinvolgeranno idealmente Orano e i suoi abitanti esortando i medici ad adottare un modus operandi interiore che li aiuti a mantenere i nervi saldi e a non avere paura; a serbare la pace dell’animo; a dominarsi per poter dominare e sconfiggere il male. Eccolo, allora, spronare i medici indirizzando loro il monito seguente: «Voi, […] medici della peste, vi dovete fortificare contro l’idea della morte e riconciliarvi con essa, prima di entrare nel regno che la peste gli prepara. Se siete vincitori su questo punto, lo sarete sempre e vi si vedrà sorridere nel mezzo del terrore. Concludete che avete bisogno di essere filosofi». Filosofi di loro stessi, quindi, al fine di trovare la forza morale per andare avanti e compiere quella dolorosa, ma preziosissima, missione sanitaria. Ciò nonostante – e Camus l’ha ben presente –, fortificarsi contro la paura della morte non significa assuefarsi all’idea stessa del trapasso e questo vale per tutti, non soltanto per i medici, che non devono assolutamente abituarsi «a vedere gli uomini morire come delle mosche».
L’Exhortation scritta da Camus, che invitiamo a leggere, è razionale, moralmente diretta, nemica del fatalismo e conscia delle difficoltà che il timore di un nemico invisibile e di una fine ultima possono suscitare nell’uomo. Niente di quanto egli propone, come consciamente viene rilevato dallo stesso autore, è di facile applicazione e anche per i medici, nonostante le cautele protettive, «malgrado il vostro placido coraggio e la fermezza dei vostri sforzi, verrà un giorno in cui vorrete gridare il vostro disgusto davanti alla paura e al dolore di tutti. In quel giorno non ci sarà più rimedio che io [Camus] possa offrirvi, se non la compassione che è sorella dell’ignoranza».
L’assurdo, l’incertezza, la paura, l’imprevedibile contraddistinguono, volenti o nolenti, la vita di ogni essere umano, così come le vittorie e le sconfitte, la forza e la debolezza d’animo. Tutti siamo consapevoli che la morte è una tappa inevitabile del percorso dell’esistenza, ma innanzi ad essa non si è mai preparati. E, allora, vale la pena citare ancora una volta le parole di Edgar Morin: «La vita è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze. Anche se celata o rimossa, l’incertezza accompagna la grande avventura dell’umanità, ogni storia nazionale, ogni vita individuale. Perché ogni vita è un’avventura incerta: non sappiamo prima quello che ci attende né quando arriverà la morte. Facciamo tutti parte di questa avventura, piena di ignoranza, ignoto, follia, ragione, mistero, sogni, gioia, dolore. E incertezza» (Il potere dell’incertezza, «La Repubblica», 1 ottobre 2020).



Fonte: di MIRCO BIANCHI