"DPCM, COSTITUZIONE E ‘FASE 2’ "

21-05-2020 -

L'epidemia del covid19 sta agendo come un vero e proprio grimaldello che, con il suo corteo di morti e di effetti collaterali sull'economia e sulla politica, sta scardinando la società italiana anche nelle sue strutture costituzionali (v. il surreale dibattito sulle autonomie regionali) precipitandoci in una crisi sistemica, sanitaria, economica, politico-costituzionale.
La libertà di movimento, di circolazione delle persone e delle cose su tutto il territorio nazionale, la libertà economica sono un punto fermo dei diritti civili garantiti dalla Costituzione che, all'art. 16, prevede però la possibilità di limitarle con legge per motivi di sanità e sicurezza eccezionali. È lapalissiano che tali limitazioni possano essere stabilite soltanto per legge e non da semplici atti amministrativi anche se le modalità di applicazione stabilite dalla legge nazionale possono trovare espressione attraverso anche le c.d. ordinanze ‘contingibili e urgenti' emanate dalle regioni e dai comuni, che per loro stessa natura devono tenere conto delle situazioni attuali e locali, diverse da territorio a territorio.
Non v'è dubbio che queste prescrizioni e le garanzie dei diritti costituzionali siano state travolte dallo strumento normativo usato dal governo (il dpcm), forse in buona fede data la concitazione emergenziale, ma viene il sospetto che il governo si sia lasciato cogliere alla sprovvista anche sul piano delle procedure costituzionali e abbia perduto la testa emanando una serie di atti amministrativi, chiamati dpcm per nobilitarli, qualche volta contraddittori e contenenti norme talvolta innovative nelle materie più diverse, anche penali!
Tutti, non per contestare la necessità delle misure adottate, saremmo curiosi di avere l'opinione della Corte Costituzionale a questo riguardo; tutti saremmo altrettanto curiosi di sapere che cosa sarebbe successo se, a osare tanto, fosse stato un certo aspirante ai ‘pieni poteri'.
Comunque – ferme restando le garanzie costituzionali – sarebbe stato preferibile, anzi necessario, un decreto legge che, diversamente dai tanti emanati senza il carattere di necessità ed urgenza prescritto dalla Costituzione, lo avrebbe finalmente avuto e che, soprattutto, sarebbe dovuto prima passare dal Consiglio dei ministri, e avrebbe dovuto essere sottoposto poi alla firma del Presidente della Repubblica e all'approvazione del Parlamento: probabilmente sarebbe stato approvato anche rapidamente e a larga maggioranza, con il concorso dell'opposizione. Ma, dato il clima politico che ha caratterizzato tutta la storia della Repubblica specialmente negli ultimi vent'anni, è inutile discutere sui limiti che, dall'una parte e dall'altra, sono stati evidenziati nella messa in scena della cosiddetta concordia nazionale dettata dall'emergenza, interpretata dalla maggioranza come ‘doverosa informativa' al Parlamento e, dall'opposizione, come l'altrettanto ‘doverosa' elencazione degli errori e delle omissioni del governo.
C'è poco da aggiungere alle vagonate di critiche che hanno sommerso l'ennesimo discorso a reti unificate e l'ennesimo dpcm che il Presidente del consiglio ci ha regalati il 26 aprile in vista della c.d. fase 2. Però, se ci è permesso, si potrebbe ancora ribadire che la famosa ‘task force', che avrebbe dovuto suggerire le modalità della ripartenza, ha partorito un topolino, anche malformato, tanto da farci disilludere sulla qualità del governo tecnocratico: «Il primo passo per avviare l'Italia alla fase 2 è ripartire con decisione ma in sicurezza». È quanto dichiara Vittorio Colao spiegando che questa deve essere «adesso la priorità di tutti gli Italiani. Il nostro Comitato Economico Sociale vuole ora ascoltare e sistematizzare bisogni e opportunità di individui, famiglie e imprese, per consigliare priorità e interventi che possano sostenere il rilancio e la competitività dell'Italia nel 2020-21».
Quindi siamo ancora all'ascolto. È vero che questa ‘task force' è stata abborracciata tardivamente, appena venti giorni fa, dopo che alcuni avevano cominciato a porre il problema della ripresa delle attività produttive e, più in generale, dell'allentamento del guinzaglio con il quale, a causa del covid19, siamo stati incatenati, tuttavia nessuno avrebbe pensato che, a una settimana dal 4 maggio, data fissata come termine della ‘fase1', si potesse avere ancora soltanto un altro guazzabuglio di norme che, tra l'altro, pongono molte difficoltà interpretative e non offrono soluzione alcuna dei molti problemi che abbiamo davanti: un altro di quei dpcm ai quali Conte si è evidentemente affezionato e che ci dice soltanto che possiamo andare a visitare qualche ‘congiunto' (salvo a stabilire se si tratti di affetti stabili da autocertificare), fare una corsetta fuori porta, ‘di casa', riaprire qualche attività economica: sia bene inteso, tutte concessioni che potrebbero essere revocate in caso di recidiva dell'epidemia!
Qui si vuole evidenziare non tanto che le c.d. aperture sono state poche o molte quanto, piuttosto, che v'è il dubbio giustificato che esse non siano state pensate in funzione di un piano, di una strategia: infatti, il molto o il poco si può valutare soltanto in relazione alle difese predisposte, e già disponibili, contro la possibile recidiva. Ed è su questo che la ‘task force' e il governo dicono poco.
Perché, se si deve convivere con il virus, non si tratta di accettare il rischio fatalisticamente ma di disporci alla difesa seguendo le indicazioni dei medici: ci saremmo aspettati che, a questo punto, ci si offrisse una legge quadro nazionale e relativi finanziamenti alle regioni per un'organizzazione sanitaria atta a impedire la recidiva dell'epidemia: predisposizione – regione per regione, comune per comune – degli strumenti idonei per il tracciamento del contagio come i test molecolari e sieriologici (ma il dpcm tace financo sulla ‘app' che lo stesso Conte aveva annunciato con grande enfasi: forse per evitare le polemiche al riguardo?); delle strutture sanitarie territoriali per l'assistenza e la cura domiciliare (clamorosamente mancata in questa prima ondata dell'epidemia), in prospettiva anche con la telemedicina; della individuazione e protezione dei loci elettivi per l'insorgenza dei focolai epidemici (ospedali, rsa, metropolitane, etc.). Questo lo stato può fare, nel rispetto delle autonomie, con le leggi quadro e i finanziamenti necessari.
Ci saremmo anche aspettati che fosse già chiara la strategia per riavviare l'economia e la società del nostro paese con progetti e investimenti per la riorganizzazione della produzione, dei trasporti, del lavoro, ben definiti e organici se non già realizzati o, almeno, ‘cantierabili': non basta infatti giocherellare con i codici ATECO per includere o escludere la riapertura di attività produttive o commerciali; bisogna piuttosto stabilire i criteri, le regole, gli strumenti, i finanziamenti che consentano di incentivare le imprese, soprattutto le piccole, perché li adottino per poter riprendere subito l'attività. Forse, se i famosi prestiti garantiti dallo stato e sottoposti al giogo bancario arriveranno in tempo, molte delle imprese piccole e grandi potranno salvarsi ma, anche qui, manca una visione prospettica e l'immensa quantità di debito straordinario che si sta accumulando nella pancia dello stato – e dei privati – sembra destinata alla sterilità, rischiamo cioè che il debito finisca nel nulla, nella solita direzione dei sussidi a pioggia sui quali possono avventarsi anche gli speculatori, e si aggiunga alla montagna della spesa improduttiva.
Naturalmente bisogna risarcire i danni subiti dalle imprese e dai lavoratori a causa della sospensione delle attività imposta dall'interesse pubblico ma serve anche che gli aiuti siano finalizzati e condizionati a una sicura riapertura: tra l'altro, se questa non avvenisse, in futuro lo Stato stesso rischierebbe di non riuscire a finanziarsi con le varie imposte.
Come si vede, la situazione è complessa, difficile, pesante: parafrasando quanto Lord Beveridge disse sulle necessità del dopo-guerra, possiamo prevedere che il dopo-epidemia possa essere ancora più critico dell'epidemia stessa e che, «appunto perciò, è necessario che quello che il governo fa sia definito democraticamente dopo aver accertato le opinioni del popolo».
Questa necessità non sembra essere percepita in Italia; pare anzi che la ripresa della normale dialettica politica si allontani molto più di quella delle attività produttive e della mobilità dei cittadini: le elezioni regionali e amministrative previste a maggio sono state rinviate non di qualche mese, com'era possibile e come era stato chiesto dalle regioni interessate, bensì di molti mesi, a fine settembre/metà dicembre, correndo il rischio di un altro rinvio visto che potrebbero ricadere in un periodo di doppia epidemia, quella solita dell'influenza e quella di una possibile seconda ondata di covid19.
Forse questa scelta, lo diciamo senza iattanza, è stata dettata dallo stesso istinto di conservazione che, nell'agosto 2019, ha spinto il PD e il M5S a varare il governo ‘impossibile' con il fine apparente di fare la manovra di bilancio per salvare il paese ma, sostanzialmente, per ‘scongiurare' il ‘pericolo' Salvini affidando il paese ai salvatori della patria (Renzi, Grillo, Zingaretti, Bersani, etc.) e raggiungere lo scopo che si prefissero i padri di quell'accordo, compresi quelli ‘putativi': allontanare il più possibile le elezioni politiche.
Se si fosse cinici, si potrebbe dire che gli unici a beneficiare del covid19 siano gli ‘incumbents' del potere: dobbiamo soltanto sperare che, alla scadenza della legislatura, nel 2023, l'epidemia sia alle nostre spalle e non offra pretesti ulteriori per rinviare il rinnovo del Parlamento. A questo proposito ricordiamo che l'art. 60 della Costituzione stabilisce che il Parlamento può essere prorogato solo in caso di guerra ma aggiungiamo anche che questa previsione della nostra Costituzione non è condivisa, per esempio, da quella degli Stati Uniti dove, in piena guerra, si celebrano le elezioni presidenziali e congressuali proprio perché si pensa che, in democrazia, l'ultima parola spetta agli elettori: anche sulla guerra.