"BESPRIZORNYE"

24-02-2020 -

Il dramma dei bambini abbandonati nella Russia sovietica è tornato di attualità nell'ultimo trentennio, in particolar modo grazie alla ripresa degli studi sull'argomento incentivata dall'apertura degli archivi post-dissoluzione dell'Urss. Luciano Mecacci, già ordinario di Psicologia generale presso l'Università degli Studi di Firenze, ha recentemente dedicato al tema un volume veramente interessante e, al tempo stesso, toccante per le numerose testimonianze riportate: Besprizornye, Bambini randagi nella Russia sovietica 1917-1935 (Adelphi, 2019)
In russo besprizornye assume il significato di «senza controllo/sorveglianza», mentre in italiano il termine è stato tradotto in più modi: «vagabondo», «randagio», «abbandonato» e, anche, «orfano». Poco noto ai più, esso è stato sicuramente incontrato dai lettori di Pasternak il quale, ne Il dottor Živago, ha fatto sì che la lavandaia Tanja – figlia di Jurij e di Lara, nell'immaginario collettivo rappresentati da Omar Sharif e Julie Christie, protagonisti del celebre film diretto da David Lean – raccontasse al maggiore generale dell'Armata Rossa – Evgraf Živago, in realtà suo zio – la propria infanzia di besprizornaja.
Mecacci si è interessato alla questione dei besprizornye – cui si era già avvicinato negli anni Settanta, durante alcuni soggiorni-studio in Russia – con un approccio innovativo rispetto a quello di tipo psicopedagogico, narrativo e memorialistico comune negli anni Venti del ‘900. Egli ha voluto realizzare, perciò, questo volume «descrivendo i besprizornye attraverso i loro pensieri, il loro linguaggio, le loro emozioni e i loro affetti, e a questo scopo si è dato ampio spazio alle testimonianze dei protagonisti, così come ai racconti e alle relazioni degli scrittori russi o stranieri negli anni Venti e nei primi anni Trenta. Ne risulterà così, ci auguriamo, un quadro completo – dall'interno e dall'esterno – dei vari aspetti della vita dei besprizornye: dalla fuga all'accattonaggio e al furto, dalle manifestazioni di aggressività e di autodistruzione alla vera e propria violenza psichica e fisica (fino all'omicidio), dalla prostituzione al consumo di droghe» (p. 15)
Ma chi erano questi «bambini randagi»? Si trattava, in generale, di ragazzini, anche molto piccoli, che avevano abbandonato i paesi natii dove non avevano più uno o entrambi i genitori; oppure erano fuggiti dalle colonie o dagli orfanotrofi dove, spesso, si moriva di freddo e di fame: di giorno questi giovinetti vagabondavano per le città vivendo di espedienti, mentre la notte cercavano riparo in ruderi, scantinati, stazioni, officine, tiepidi calderoni per fare l'asfalto. Scrive Mecacci: «La condizione in cui si trovarono gettati i besprizornye durante la Prima guerra mondiale, la guerra civile, la carestia del 1921-22, la grande carestia dei primi anni Trenta, le repressioni staliniane e infine la Seconda guerra mondiale fu segnata dal bisogno primario della fame, e degli espedienti per soddisfarlo: mendicare, rubare, uccidere» (p. 28).
La testimonianza, risalente al 1919, dell'attrice Anja Lacis da Orël, città della Russia centrale che ha dato i natali al romanziere Ivan Turgenev, è tanto evocativa quanto drammatica: «Per le strade di Orël, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprizorniki. Fra loro c'erano ragazzi con i visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a brandelli da cui l'ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e di spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve erano bande di briganti, vittime della guerra mondiale e della guerra civile. […]» (p. 22). Anche quanto scritto da Umberto Zanotti Bianco nel 1922, durante il suo viaggio in Urss come delegato del Comitato italiano di soccorso ai bambini russi, rivela un quadro desolante: «Alle varie stazioni bimbi cenciosi che ripetono in tono lamentoso “Zio, dammi un piccolo briciolo di pane”. Bimbi dai due ai sei anni e vecchi, per quanto il lamento sia diventato un abitudine, finiscono sempre per dare una profonda tristezza. E poi tanti visi sono scarni e senza sorriso. Più commoventi i bimbi che non parlano ma che strusciano sotto i vagoni per raccogliere avanzi di colazioni, bucce di mele, di poponi, bianchi d'uovo […]» (p. 52).
All'inizio degli anni Venti, secondo alcune stime, i «bambini randagi» in Urss erano circa 7 milioni. La loro faticosa e tormentata esistenza transitava dai progetti rieducativi del sistema sovietico, fidente in un'opera di recupero e di rieducazione, alle più drastiche forme di repressione durante il regime stalinista. Tristemente nota, in quest'ultimo caso, è divenuta la risoluzione del Comitato esecutivo centrale dell'Unione Sovietica e del Consiglio dei commissari del popolo, approvata il 7 aprile 1935: «A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l'applicazione di tutte le misure punitive» (p. 29). Le misure punitive prevedevano anche la fucilazione e, come rileva Mecacci, la nota sull'applicazione del decreto a partire dai dodicenni fu voluta personalmente da Stalin.
Falliti i tentativi di recupero e di reinserimento nella società sovietica di questi giovani si passò, dunque, dalla lotta contro la besprizornost' – cioè il fenomeno dei besprizornye – alla sua liquidazione. Un'operazione di oblio che doveva interessare sia gli educatori che avevano separato la dottrina comunista dalla prospettiva del recupero sociale e del riscatto dei «bambini randagi», sia quelle opere che, fino agli anni Venti, erano state prodotte analizzando il problema da un punto di vista psicopedagogico ed educativo. Un esempio assai esplicativo riguarda il volume di Matvej Pogrebinskij La fabbrica degli uomini (1929), romanzo basato sulla sua esperienza di direttore della comune di Bolševo, a nord di Mosca, per la rieducazione forzata dei besprizornye, la loro alfabetizzazione, l'insegnamento di un mestiere, l'inserimento nella vita in società, l'educazione al rispetto delle regole e delle autorità statali sovietiche. Pogrebinskij finì suicida nel 1937, dopo l'arresto del promotore della comune di Bolševo, Genrich Jagoda, vicepresidente della OGPEU caduto in disgrazia e fucilato nel 1938. La moglie del «nemico del popolo» Pogrebinskij venne condannata a otto anni di gulag – in Kazakistan – assieme alla cognata; il fratello fu, invece, fucilato. Le autorità ritirarono le copie de La fabbrica degli uomini da tutte le biblioteche del Paese e le distrussero; «Lo stesso nome di Pogrebinskij scomparve dalla storia della “lotta alla besprizornost' ”, e riguardo alle colonie di rieducazione si parlò, con orgoglio, solo di quelle gestite da [Anton] Makarenko, sul quale non si abbatté la falce stalinista» (p. 75).
La storia dei besprizornye, certamente ancora da studiare e approfondire, denuncia l'ennesimo fallimento del comunismo, il falso mito della nuova società sovietica libera e giusta, i crimini atroci dello stalinismo. Come ci tiene a sottolineare Mecacci, nonostante il trionfalismo della propaganda staliniana buona parte dei «bambini randagi» non venne affatto integrata nella società sovietica, bensì la loro sorte «fu decisamente meno gloriosa: in genere entrarono nelle file della criminalità, e molti finirono nei lager, destino su ciò ha scritto pagine terribili Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag (p. 27). Molti altri furono, infine, assassinati dal regime per evitare ogni richiamo diretto a quelle problematiche che, falsamente, si consideravano risolte. Nel 1938 circa la metà degli ospiti della comune di Bolševo, oramai giovani uomini riscattatisi con il lavoro e, quindi, ex-besprizornye, vennero fucilati nel poligono di Butovo, controllato dall'NKVD. Le sue grandi fosse comuni, venti chilometri a sud di Mosca, furono scoperte soltanto dopo il crollo dell'Urss e, ad oggi, risultano avervi trovato la morte 20.762 vittime del terrore staliniano.



Fonte: di MIRCO BIANCHI