"BOLIVIA"

21-12-2019 -

Piantagioni di coca e miniere di litio, argento e rame sono la ricchezza di una regione con una superficie tre volte quella dell’Italia e una popolazione di 10 milioni di abitanti: la Bolivia, Paese poverissimo e multietnico, dove convivono bianchi e indios. Questi ultimi, che costituiscono il 65 per cento della popolazione, fino a vent’anni fa sopravvivevano nelle campagne grazie all’agricoltura di sussistenza o vivevano in baraccopoli ai bordi delle grandi città. I ricchi, che hanno dominato la politica boliviana a partire dalla conquista spagnola nel Cinquecento, si identificano invece con antenati bianchi ed europei (il 12 per cento della popolazione). Dopo la conquista dell’indipendenza nel 1809, alla guida della regione si sono alternate dittature, sanguinari regimi militari appoggiati da organizzazioni para-fasciste (qui trovò rifugio il criminale di guerra nazista tedesco Klaus Barbie, qui fu catturato e ucciso Ernesto “Che” Guevara) e coalizioni di partiti di centro-destra che hanno sempre oppresso la maggioranza indigena. Sorprendentemente, nel 2005 per la prima volta nella sua storia viene eletto presidente un indio: Evo Morales. Nato nel 1959 in una famiglia di contadini Aymara, dopo aver aiutato per anni suo padre nei campi, comincia a lavorare come sindacalista dei “cocaleros”, i coltivatori di piante di coca - dalla quale si estrae la cocaina. Fonda poi e diventa il leader del Movimento per il Socialismo (MAS), un partito che chiede la fine delle privatizzazioni, la legalizzazione della coca e un’equa distribuzione della ricchezza nel Paese. Nel 2005 il governo, costretto alle dimissioni a causa delle proteste e dei disordini per via della crisi che colpisce la maggioranza del paese indio, indice elezioni anticipate. E Morales, sostenuto dal MAS, vince con il 54 per cento dei voti. I suoi primi provvedimenti non lasciano dubbi sul nuovo corso imboccato dal Paese. Dimezza lo stipendio suo e quello dei suoi ministri. Mette mano alla riforma agraria, con l'obiettivo di redistribuire la terra ai contadini. Nazionalizza le riserve di idrocarburi, di litio e di minerali: in questo modo l'80% dei profitti dell'estrazione del petrolio rimane nelle mani dello Stato e viene usato in iniziative volte a combattere la povertà e l'analfabetismo. La povertà estrema del paese scende così dal 38 al 18 per cento. I servizi pubblici sono drasticamente migliorati. Agli indigeni, da sempre trattati come cittadini di seconda classe, vengono assegnate posizioni di primo piano: alcuni entrano nel suo governo.
Per 13 anni, Morales sembra invincibile: dopo aver vinto le elezioni presidenziali del 2005, è rieletto nel 2009 (64,2% dei voti) e nel 2014 (60% dei voti) nonostante avesse promesso di non ricandidarsi per un terzo mandato. Nel 2009 vara la nuova Costituzione, che definisce la Bolivia uno stato “pluri-nazionale”, riconosce trenta diverse lingue locali e toglie lo status di religione di stato al cattolicesimo. La nuova costituzione si propone inoltre di realizzare riforme per rinforzare il ruolo dello Stato e della giustizia sociale e dare maggior potere alla maggioranza indigena, storicamente soffocata dalla classe dirigente bianca.
Con il passare degli anni Morales si sposta verso il centro, tentando invano di ricucire i rapporti con la minoranza bianca e benestante del paese, danneggiata economicamente dalla sua politica e che non gli perdona il suo sostegno alla cultura indio. Gli atteggiamenti via via sempre più autoritari, l’ostinazione di voler rimanere al potere gli alienano le simpatie di molti sostenitori. La sua popolarità comincia a calare. La Costituzione gli vieta un quarto mandato, ma il pensiero di dover rinunciare al potere gli è inaccettabile. Nel 2016 indice un referendum per eliminare il limite ai mandati e venne sconfitto. Ricorre allora al Tribunale Supremo, un organo influenzato dal MAS, dove la corte stabilisce che il limite dei mandati è una violazione dei diritti umani. Morales può così candidarsi alle elezioni fissate per l’ottobre del 2019 e ancora una volta ottiene la maggioranza: quasi il 50 per cento dei voti, mentre il candidato centrista Carlos Mesa si piazza a 10 punti percentuali di distanza. L’opposizione lo accusa di brogli e organizza una serie di proteste nelle principali città boliviane, con scontri, incendi, saccheggi, morti e feriti. L’opinione pubblica internazionale si schiera contro Morales, la polizia si ammutina, i generali dell’esercito gli chiedono di gettare la spugna. Il 10 novembre, il più longevo leader dell’America latina annuncia le sue dimissioni e lascia il Paese per il Messico, dove ottiene asilo dal governo di sinistra di Andrés Manuel López Obrador.
E’ a questo punto che entra in scena la seconda vicepresidente del Senato, Jeanine Áñez, che il 13 novembre - per rinuncia del vice del presidente dimissionario, del presidente della Camera dei deputati, del numero uno e due del Senato - si autoproclama presidente ad interim della Bolivia. 52 anni, laureata in giurisprudenza, già dirigente della tv Totalvisiòn, ha partecipato alla stesura della nuova carta costituzionale del 2009. Senatrice dal 2010 per il partito di estrema destra Unidad Demócrata (UD), fra i principali oppositori del MAS di Morales, si è distinta soprattutto per le sue campagne contro la violenza di genere. Il giorno del giuramento, entra nel palazzo presidenziale con in mano una Bibbia extralarge, affermando: "La Bibbia è tornata nel palazzo", in un Paese laico per costituzione, riportando di fatto al centro della politica la religione dei conquistatori; del resto nel suo nuovo governo, su venti ministri, uno solo è indigeno. Le popolazioni indigene, temendo l’emarginazione, danno il via a una serie di proteste. Contro costoro, polizia e militari aprono il fuoco. Bilancio: decine di morti, centinaia di feriti, un migliaio di arresti – una punizione collettiva nei confronti della maggioranza indigena per aver commesso l’imperdonabile peccato di aver osato sfidare centinaia di anni di razzismo, apartheid e oppressione. Il nuovo corso della politica boliviana è cominciato: Jeanine Áñez infatti solleva da qualsiasi conseguenza i militari per aver impiegato la forza contro i dimostranti, emette un mandato di cattura contro Morales. E la libertà di stampa viene non solo non garantita, ma minacciata dal governo. Il Paese diventa di fatto ingovernabile, e Áñez è costretta a fare marcia indietro, aprendo negoziati con gli organi legislativi del precedente governo. Viene così varata una legge che autorizza a nuove elezioni entro 120 giorni e revoca l’impunità per le azioni dei militari contro i manifestanti. Cosa accadrà ora alla Bolivia? Finirà sotto un regime militare o sotto un governo autoritario della destra reazionaria?



Fonte: di GIULIETTA ROVERA