Il Movimento 5S è apparso sulla scena politica forte di un ‘giovanilismo’ avanguardista che lo ha accreditato come portatore della riforma radicale, taumaturgica, morale, anzitutto, e politica della società italiana. Molti, anche se non sicuri della sua competenza nella gestione dello stato, si aspettano e credono che questo ‘movimento’ sia capace di fare una tale riforma.
Ma, delle molte perplessità suscitate dai 5S, quella della competenza, sebbene seria, è la minore. Anche se si può ammettere che questo Movimento è riuscito finora a incanalare la protesta di quella parte della società italiana che ha subìto il peso maggiore dell’inefficienza delle istituzioni e della perdurante crisi economica e politica, dobbiamo chiederci se le ricette da esso proposte siano quelle giuste per operare il ‘cambiamento’ promesso.
Il M5S – il quale, per segnalare la propria diversità rispetto agli altri attori politici, tiene molto a non chiamarsi ‘partito’ – promette di rovesciare il processo di governo sottraendolo all’attuale partitocrazia e affidandolo alla ‘piattaforma Rousseau’, che sarebbe offerto dalla rivoluzione digitale della nostra epoca la strumento per attuare una sorta di democrazia diretta. A mio avviso, siamo però di fronte non solo a una pia illusione, o meglio fantasia, ma anche a una grossolana e pericolosa falsificazione: sembra piuttosto che questa modalità ‘digitale’ sposti il potere decisionale dall’agorà – oggi, purtroppo, partecipata da una grande maggioranza di analfabeti digitali – a una minoranza, a una élite. A meno che non si consideri democrazia diretta quella incarnata dalla minoranza di alcune migliaia di follower di Grillo, Casaleggio & Co., siamo di fronte alla contraddizione più netta del principio fondamentale della democrazia diretta in nome della quale i 5S hanno scomodato il povero Rousseau: i votanti sulla ‘piattaforma’ devono accontentarsi di non essere altro che una sorta di ‘comitato centrale’, sia pure allargato, di ascendenza sovietica.
Gli attuali governanti sono però ben lontani da un atteggiamento diverso da quello demagogico dei partiti che abbiamo fin qui conosciuto e dai cambiamenti positivi e radicali promessi: di recente, abbiamo potuto assistere a una commedia degli equivoci quando, a fronte della procedura d’infrazione minacciata dalla UE riguardo alla manovra di bilancio 2018-2019 che prevedeva uno deficit del 2,4% rispetto al PIL, il governo M5S-Lega ha presentato l’esilarante proposta di un deficit del 2,04% anziché del 2,4%. L’assonanza tra le due cifre è tale che viene da sospettare che il governo attuale ritenga che il popolo sia fatto di gonzi, facili da raggirare dandogli l’impressione che nulla sia stato cambiato: alla faccia della trasparenza, dello streaming e della ‘piattaforma’.
Questa aspettativa di cambiamento può rivelarsi dunque una illusione pericolosa. Pericolosa perché sarebbe una delusione cocente la constatazione che anche le pie intenzioni – definizione di una ‘nuova’ etica pubblica; lotta alla corruzione e al malaffare coniugato con la politica; lotta all’evasione fiscale e agli sperperi di denaro pubblico; lotta alla povertà e redistribuzione della ricchezza; etc. – di questi ‘movimentisti’, robespierristi più che rousseauviani, non sono realizzabili con i mezzi da essi proposti perché non affrontano, anzi aggravano, il problema di fondo, strutturale, che ha travagliato le varie ‘repubbliche’ italiane (I, II e III incipiente): lo statalismo che, di per sé, è portatore di quei mali cronici dai quali ci si vorrebbe e dovrebbe liberare veramente.
Il vero cambiamento potrebbe venire solo dall’abbandono definitivo di questo modello di stato interventista, che non fa che regalare soldi a destra e a manca senza ottenere nulla in cambio – la vicenda Bluetec di Termini Imerese, e non solo, dovrebbe insegnare qualcosa – ma non pare che questo governo intenda farlo.
L’orientamento di fondo del ‘Movimento’ e l’insediamento politico-culturale dei suoi membri appaiono sempre più evidenti e sono quelli dello ‘statalismo’ e della ‘nuova classe’, ma non quella formata da stuoli di burocrati, insomma tecnocrati, che Milovan Gilas vedeva assisa sulle strutture di potere comuniste, bensì quella, più modesta, fatta di veri e propri ‘personaggi in cerca d’autore’, di aspiranti ‘politici di professione’ con una spolveratina di tecnocrazia casaleggiana.
Un ‘nuova classe’convinta, forse sinceramente, che la più grande parte della virtù si trovi nel settore pubblico e che un governo potente, nel quale essa abbia una posizione forte, possa ordinare meglio le cose ma questa ‘nuova classe stellata’, non sa, o fa finta di non sapere, di esser portatrice di un conflitto d’interessi, di un ‘dirty little secret’: parla di ‘governo del cambiamento’ e di redistribuzione della ricchezza ma il suo vero scopo è quello di acquisire potere e, soprattutto, di assicurarsi il proprio sostentamento con l’espansione della spesa pubblica e del settore pubblico dell’economia, anche questo alla faccia della restituzione che i parlamentari 5S fanno di una parte dei loro stipendi: lo rivelano, per esempio, i propositi o minacce di ‘nazionalizzazione’ delle banche bisognose di salvataggi o le proroghe ‘sine die’ dei prestiti statali ad aziende decotte come Alitalia, etc. – anzi la trasformazione di questi prestiti in capitali di partecipazione, preludio di ulteriori perdite a carico della collettività.
Lo rivelano anche misure come il ‘reddito di cittadinanza’ e ‘quota 100’; lo rivela l’occupazione dei posti di ‘sottogoverno’ in piena tradizione partitocratica e statalista, che invece essi dicevano dover essere abbandonata operando una incisiva riforma del ‘sottogoverno’ e sfoltendo i cosiddetti ‘enti inutili’ ormai innumerevoli.
Questa ‘nuova classe’, soprattutto si sente investita del diritto-dovere di guidare il popolo verso un destino radioso per mezzo di quella sorprendente scienza, che essa sola possiede, che può decidere questioni come il TAV a proposito del quale la volontà manifestata dai 5S è quella di rinunciare al TAV Torino-Lione o di riformularne il progetto; ma c’è da dire che, a parte i costi che ciò comporterebbe, l’eventuale rinuncia significherebbe una sicura emarginazione del territorio italiano perché il TAV passerebbe da qualche altra parte, per esempio dalla Germania; né sono convincenti gli argomenti economici addotti in favore della rinuncia come quello di utilizzare i fondi già stanziati, invece che per questo TAV, per il sacrosanto ammodernamento, anzi, costruzione, delle infrastrutture ferroviarie, stradali, etc., nel Mezzogiorno e nelle Isole: il TAV e questo ammodernamento non sono alternativi ma sono entrambi necessari!
I 5S e la Lega hanno sottoscritto il cosiddetto contratto di governo – che, spacciato come grande innovazione nella prassi politica, è, in realtà, solo un programma contraddittorio aperto al mercanteggiamento permanente nei ‘vertici notturni’ – ma ciascuna delle due parti dice di averlo fatto obtorto collo, come se ci fosse stata una prescrizione del medico, e senza condividerne pienamente alcune clausole (analisi costi-benefici TAV e grandi opere, reddito di cittadinanza, quota 100, legittima difesa, politica sui migranti, decreto sicurezza, condoni edilizi e fiscali inquinati da varie ‘manine’, flat tax, etc.).
Il connubio tra Lega e M5S è stato certamente una sorpresa: nulla, nei programmi della Lega – migranti, federalismo, flat tax – e per la contrapposizione tra i due partiti esibita durante la campagna elettorale del 2018, lo faceva presagire. Forse solo la rodomontata della sfida ai vincoli di bilancio imposti dall’UE poteva giustificare tale connubio ma il collante più forte è stato quello dell’occasione che si offriva alle due forze politiche: al M5S quella di afferrare il potere per la prima volta; alla Lega quella di affermare la sua indipendenza dalle altre forze del centro-destra e ricusate dai 5S.
Un contratto che forse non si sarebbe mai potuto materializzare se non vi fossero state, dopo il risultato delle elezioni del 4 marzo 2018, quella lunga impasse determinata dalla gestione defatigante delle ‘consultazioni’ e la scelta di non indire nuove elezioni per evitare – si è detto – un grave rischio di instabilità politica: una scelta a mio avviso sbagliata perché, nelle stesse circostanze elettorali e in condizioni socio-economiche ancora peggiori, perfino la Grecia e la Spagna avevano giustamente fatto ricorso a nuove, ripetute, consultazioni del corpo elettorale senza per questo correre alcun rischio di instabilità. Ma, forse, quella scelta aveva un altro scopo politico: forse quello di evitare al PD una più pesante perdita di voti o di favorire un accordo tra questo partito e il M5S.
Superando i veti reciproci sulla premiership, estratto a sorpresa dal cilindro un Presidente del Consiglio (in quota 5S, però nemmeno passato dalla prova elettorale né dalle votazioni interne alla famosa ‘piattaforma’), le due parti hanno dato parvenza di rigidità contrattuale a clausole assai ambigue e aperte a ogni interpretazione.
Un vero affare, che la Lega ha fatto anche con la speranza di potere imporre, a sua volta, la propria leadership agli alleati di governo vista la loro inesperienza e di espropriare ulteriormente l’elettorato di Forza Italia e Fratelli d’Italia riducendoli all’insignificanza. Ma questo calcolo, forse corretto riguardo al centro-destra, alla lunga si è rivelato sbagliato rispetto ai 5S perché, tra le denunce di ‘manine’ e i colpi di scena sui migranti, la Lega pare sempre più in pericolo di cadere nelle loro trappole (per es. la mozione parlamentare sul TAV firmate da M5S e Lega, così ambigua da permettere interpretazioni del tutto opposte da parte degli stessi proponenti) e di dovere ingoiare rospi molto indigesti come quello dei migranti prima bloccati su qualche nave ong e poi almeno in parte ricevuti in Italia, una volta con la finta messa a carico del Vaticano, e un’altra volta con un fantomatico accordo di ripartizione tra i paesi UE: infatti, vista la chiusura dei porti proclamata da Salvini, Conte ha detto che avrebbe potuto andare a prenderli personalmente con l’aereo; o l’altro, teoricamente ancora più indigesto, della tergiversazione 5S sulle autonomie regionali.
Venendo al programma di questo governo è da sottolineare anzitutto un punto cruciale che qualifica entrambe queste forze politiche come sicuramente ‘stataliste’, in perfetta continuità con il passato, ed è quello appunto della politica economica avviata con la legge di bilancio 2019, approvata in tutta fretta negli ultimi giorni dell’anno scorso e caratterizzata dalla rinuncia a una riduzione significativa del carico fiscale generale, dall’aggravamento del deficit e del debito, dalla mina vagante della clausola di salvaguardia che minaccia un iper-aumento dell’IVA negli anni prossimi o qualche altro salasso fiscale dopo il primo colpo alla rivalutazione delle pensioni superiori alla cifra d‘oro di 1500,00 euro.
A proposito delle modalità parlamentari, piuttosto affrettate, con le quali è stata approvata tale legge, vale la pena di segnalare – non perché di ciò il governo abbia una qualche responsabilità ma per ricordare il deficit permanente di tutela giudiziaria di cui soffriamo in Italia – che la Corte Costituzionale, pur riconoscendo che il Parlamento non era stato messo in condizione di ‘conoscere per deliberare’, ha pilatescamente dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello stato presentato dal PD: ennesimo caso di “incostituzionalità legittimata”, come diceva Don Sturzo.
I 5S pomuovendo il cosiddetto reddito di cittadinanza – ora in realtà ridotto a un sussidio che nulla ha che fare con la cittadinanza e pure ridimensionato nella misura e complicato nelle modalità di erogazione – credono di potere insieme assicurare a ciascun cittadino il suo minimo vitale, incentivare i consumi per spingere la ripresa economica del paese e ottenere un più ampio consenso elettorale.
A loro volta, i leghisti, inseguendo i voti dei pensionandi, pensano che la cosiddetta ‘quota 100’ sia una variabile indipendente rispetto ai problemi sottostanti – trend demografico, produttività, risorse, etc. – e fanno rischiare la crisi del sistema previdenziale.
Nessuno nega la necessità – morale anzitutto, oltre che economica e politica – di un innalzamento del livello di vita e delle opportunità per i più poveri; non v’è dubbio però che le modalità di politica economica utili a questo scopo debbano essere più attentamente pensate e pesate: per ottenere un tale risultato, piuttosto che la redistribuzione del reddito con l’elargizione di sussidi diretti forse sarebbe necessaria la riqualificazione della spesa pubblica, una riformulazione delle politiche sociali, una copertura dei bisogni reali, e rigorosamente accertati, con servizi più efficienti e migliori ai cittadini e alle famiglie (case, istruzione, sanità, etc.) e anche un sussidio temporaneo in caso di perdurante disoccupazione o sottocupazione: bisogna dunque rovesciare l’atteggiamento degli indifferenti all’indebitamento crescente, dei keynesiani senza Keynes; bisogna fare rientrare il debito pubblico nei limiti della solvibilità dello stato, compiere le scelte economiche tenendo presente, e non ignorando, la scarsità delle risorse; bisogna promuovere prioritariamente lo sviluppo economico quale leva principale di distribuzione della ricchezza.
John Maynard Keynes sosteneva che la spesa pubblica, soprattutto per investimenti, dovesse essere il perno di una politica economica diretta a invertire un ciclo recessivo e a promuovere l’occupazione con misure di politica di bilancio e monetarie anche in deficit. Egli era favorevole a sostenere il reddito degli inoccupati e dei disoccupati con gli opportuni strumenti di politica sociale ma, a fronte di una capacità produttiva inutilizzata o deficitaria, poneva maggiormente l’accento sulla spesa pubblica produttiva, sugli investimenti per riavviare il ciclo economico e sostenere l’occupazione e non pensava minimamente che lo stato potesse fare ricorso all’indebitamento senza alcun limite.
Insomma questo tipo di spesa pubblica improduttiva, specialmente se fatta in debito, ha l’effetto macroeconomico di produrre ‘recessione’ piuttosto che ricchezza da distribuire. Una politica diretta a stimolare i consumi non serve a superare la crisi anzi danneggia lo sviluppo perché viene fatta a spese degl’investimenti: dopo il 1929, la decisione del Presidente Hoover di sostenere i salari contribuì a trasformare quella che era una normale recessione in una Grande Depressione. Del resto, anche l’ esperienza americana della ‘war on poverty’ negli Stati Uniti, iniziata da Johnson negli anni ’60, prova che il mero aumento della spesa pubblica in sussidi diretti ottiene nel tempo risultati sempre decrescenti perché non incide realmente sulla riduzione dell’area della povertà né promuove sviluppo economico.
La recessione infatti non è causata dalla mancanza di consumi ma dalla mancanza di investimenti, privati e pubblici: è la produzione di beni e servizi a creare valore e, quindi, opportunità di lavoro, di creazione di nuovo reddito, di incremento dei consumi. Inoltre l’indebitamento crescente espone lo stato a rischi finanziari e di insolvibilità che, a loro, volta, frenano l’economia reale. Il compito principale e il più difficile dello stato, soprattutto quando le condizioni di partenza siano negative sul piano istituzionale e infrastrutturale, è dunque quello di promuovere gl’investimenti privati creando l’ambiente istituzionale, infrastrutturale, economico e finanziario più adatto a questo fine.
Se si fa una redistribuzione che sottrae risorse agli investimenti pubblici, vero volano dello sviluppo economico, cioè alla produzione di nuova ricchezza cui possano accedere anche le fasce sociali più povere, si potrà pure essere soddisfatti per avere adottato una misura di equità sociale ma, certamente, non si sarà prodotta nuova ricchezza né, tantomeno, si sarà riformato il sistema del welfare. Quando il welfare viene utilizzato per tentare di risolvere i problemi sociali, di costruire la ‘great society’ con vari programmi di intervento economico dello stato, spesso inefficienti e inefficaci per i costi finanziari e burocratici incomparabilmente più alti rispetto ai risultati e agli obiettivi, il risultato è che il sistema di welfare viene minato nella sua sostenibilità economica, specialmente in Italia dove nel grande calderone dell’INPS la previdenza è stata mescolata impropriamente con l’assistenza rendendo ancora più fragile il già traballante sistema pensionistico.
Invece di risolvere il problema sociale della povertà e della disoccupazione, il ‘reddito di cittadinanza’ – con l’aggiunta della ‘quota 100’ – rischia di innescarne uno più grave e pericoloso, di mettere in mare una mina vagante che potrà far saltare per aria l’intera società italiana. Inoltre, le condizioni che sono state poste per il godimento di questo sussidio sono di difficile realizzazione, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. Sarà quasi impossibile, che ad ognuno dei destinatari del sussidio, possano essere proposte ben tre offerte di lavoro nell’arco di diciotto mesi e poi, visto che la domanda per il suo ottenimento potrà essere riproposta dopo un mese dalla cessazione della corresponsione del reddito, chi lo avrà perduto o perché ha rifiutato le tre proposte di lavori, o perché non gli saranno state fatte, potrà riproporre la domanda, all’infinito: saranno molti, troppi, a mantenere a vita il sussidio e a passare dal reddito di cittadinanza alla ‘pensione di cittadinanza’.
E poi, ci sarà mai un governo o un parlamento che abbia il coraggio, oltre che la forza, di revocare una tale misura?