Negli ultimi giorni l’arresto di Cesare Battisti ha catalizzato l’attenzione dei media. Una notizia da molti attesa; da altri, certamente, no. Per alcuni, invece, il “teatrino” tanto desiderato tra conferenze stampa aeroportuali, divise e video da postare on-line.
La lotta armata ha drammaticamente contrassegnato la storia di questo Paese. Tra gli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta le notizie di azioni terroristiche hanno riempito, quasi quotidianamente, i notiziari nazionali in un susseguirsi di rapine, scontri a fuoco, omicidi, rapimenti, arresti e rocambolesche evasioni. Nel solo 1978, annus horribilis del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, vi sono stati, ad esempio, 28 omicidi politici.
Da quasi quarant’anni Battisti, ex leader dei Proletari Armati per il Comunismo, trascorreva la propria latitanza tra la Francia – protetto dalla cosiddetta “dottrina Mitterand” – ed il Sud America. Come lui, molti terroristi sono sfuggiti al carcere rifugiandosi all’estero: Giorgio Pietrostefani, ad esempio, esponente di primo piano di Lotta Continua condannato per l’omicidio del commissario Calabresi; oppure Oreste Scalzone, ex Potere Operaio e Avanguardia Operaia oggi libero grazie alla prescrizione e capace, a suo tempo, di sentenziare che chi chiedeva l’estradizione di Battisti era “un tossico-spacciatore dell’aggiunta di male in male”. Oltreoceano, per la precisione in Nicaragua, vive ancora indisturbato il brigatista Alessio Casimirri, uno dei componenti del commando di via Fani. In questo elenco, ben più nutrito di quanto diamo nota in questa sede, figura anche Achille Lollo, inquisito per il rogo di Primavalle del 1973 ove morirono, arsi vivi, due figli di un esponente missino della Capitale. A lungo latitante in America latina, Lollo ha beneficiato della prescrizione e, a quanto pare, oggi tende a ritrovarsi nella politica pentastellata. Misteri della fede (comunista).
La lotta armata, però, non ha avuto un’unica venatura cromatica: accanto ai “rossi”, infatti, vi erano gli estremisti della galassia neofascista, i terroristi “neri”. Tra di essi vogliamo ricordare Delfo Zorzi, accusato di coinvolgimento nelle stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, attualmente residente in Giappone. E anche la coppia Valerio Fioravanti-Francesca Mambro, oggi liberi e impegnati nel campo del volontariato.
Insomma, se lo Stato ha vinto contro il terrorismo, la giustizia italiana ha zoppicato e ottenuto risultati meno soddisfacenti. Lo Stato italiano, fortunatamente per il nostro Paese, non ha ceduto innanzi all’estremismo politico armato, all’eversione comunista e neofascista; non ha mai voluto riconoscere agli scellerati protagonisti dei cosiddetti “anni di piombo” la legittimità tanto bramata e ricercata a qualsiasi prezzo. Una legittimità che essi chiedevano ad uno Stato che, per primi, non riconoscevano come legittimo. Una legittimità la quale, ancora oggi, in molti continuano a cercare con nuovi e più moderni mezzi: blog, libri di memorie, interviste, dibattiti pubblici.
Il carnefice, difatti, affascina più della vittima e non sono rare le occasioni di pubblico dibattito cui partecipano gli ex terroristi.
In una di queste occasioni Barbara Balzerani, irriducibile delle BR, ha infelicemente sottolineato come, a suo (incondivisibile) giudizio, “fare la vittima” sia diventato un “mestiere”. In altra sede Sergio Segio ha definito la “sua” Prima linea “organizzazione combattente di sinistra” e non “gruppo terroristico”.
Per questi, come per altri casi, la storiografia dovrebbe contribuire a fare chiarezza. Al momento, tuttavia, tale disciplina resta parzialmente incatramata dalla limitatezza o, non di rado, dalla parzialità delle fonti. Alcuni studiosi, infine, tendono ad elaborare analisi che si intrecciano coi propri sentimentalismi autorappresentativi in una sorta di “rivoluzionarismo sociologico” il quale, condotto agli estremi, può persino stridere con l’effettiva critica di quanto avvenuto. Si tratta, forse, una vicenda troppo radicata nelle coscienze e nelle passioni politiche degli storici che hanno vissuto, da giovani adolescenti o da già validi studenti universitari, tali eventi per poter ottenere analisi obiettive?
Spetta ad una prossima generazione di studiosi approfondire il tema senza farsi influenzare dalle proprie autobiografie?
Ambigui, contorti, a volte criptici e persino deliranti, gli ex terroristi sono, oramai, simboli vetusti di un sanguinario fallimento. In un tempo lontano pretendevano di essere amati; oggi desiderano essere, almeno, capiti. Ma non è una cosa semplice.
Non possiamo omettere, tuttavia, che i “redenti rossi” – ma anche gli irriducibili che hanno scontato la propria pena – godono di una certa pietas, soprattutto da esponenti di una parte della sinistra che, magari, avrebbero desiderato essere al fianco di quei “figli della borghesia che recitano la rivoluzione” (per citare Il Provinciale di Giorgio Bocca, uno dei più bei libri mai scritti sulla storia d’Italia). Un simile atteggiamento rischia di dare un’immagine smussata della lotta armata, che spinge tutto il male da una sola parte (quella neofascista) permettendo all’altra (i “rossi”) di continuare – disarmati – la ricerca della propria legittimità sfruttando gli spazi loro concessi da giovani pseudo-rivoluzionari del XXI secolo, giornalisti, politici orfani di quella stagione, storici di trascorse simpatie extraparlamentari.
Parafrasando George Orwell, ci verrebbe da dire che, per alcuni, i terroristi sono tutti uguali, ma ci sono terroristi più uguali degli altri. Ciò è storicamente errato e, nei confronti delle vittime e dei loro familiari, moralmente ingiurioso.