"QUATTRO RICORRENZE E UN PAESE ALLO SBANDO" di Paolo Bagnoli

27-12-2018 -

L’ interrogativo è vecchio, ma non passato di moda. Esso, da Tacito in poi, vive nella coscienza collettiva: la memoria serve per il futuro? Diciamo subito: ne siamo ben convinti tanto quanto del fatto che la famosa formula della storia maestra della vita è stata forse tra le più disattese, in ogni tempo, dagli uomini in maniera universalistica.
Ritorniamo sulla questione poiché l’anno che si avvia alla chiusura inanella quattro richiami epocali della nostra vicenda nazionale, tutti legati alla ricorrenza segnata dal numero 8. Il 2018, infatti, ci riporta al 1848, al 1918, al 1938 e al 1948. Quattro date della memoria non riconducibili a quelle delle tante ricorrenze che, naturalmente, si avvicendano. Nel 1848, Carlo Alberto segnò una tappa della tolleranza e della convivenza per i valdesi e gli ebrei; il 1918 è l’anno della vittoria nella prima guerra mondiale che, con un prezzo altissimo di vite umane, completò l’assetto territoriale del Paese; l’Italia, purtroppo, perse il dopoguerra con le conseguenze che tutti sappiamo; il 1938 è l’anno della vergogna, quello nel quale con le leggi razziali si scrive la pagina più buia e infame della nostra storia; nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione inizia il cammino della democrazia repubblicana, la storia italiana volta pagina. Questi quattro passaggi fondamentali nella storia degli italiani dovrebbero essere tenuti insieme quali momenti che – naturalmente nella loro diversità – dovrebbero ammonirci sul significato della presenzialità della memoria nella stagione politica del presente. In fondo ognuno di essi ci dice del valore della convivenza e della centralità che ha la coesione sociale per l’essere stesso dello Stato e del governo delle situazioni sociali da affrontare. Quattro date che sono un invito alla costruzione di assetti di civiltà; tutto il contrario di quanto avviene oggi ove le pulsioni razziste, alla guerra sociale dell’uno contro l’altro, a un vero e proprio odio civile caratterizzano il governo del Paese. Il 2018 passerà alla storia con i colori gialloverdi; i colori del cinismo, della rabbia, delle falsità, dell’allontanarsi dalla modernità e di una pericolosissima febbre di acceso nazionalismo che ci porta a sbattere contro l’Europa con l’altissimo rischio di assai aspre ripercussioni sociali. Altro che convivenza, pace, cittadinanza fondata su libertà e su dignità, nonché concretezza della democrazia. Se crisi istituzionale, crisi sociale e crisi economica dovessero saldarsi la nostra democrazia, peraltro già abbastanza ammaccata – basti pensare agli attacchi virulenti portata alla libertà di stampa e, naturalmente, allo stupro istituzionale inferto dalla maggioranza al Senato alla vigilia di Natale - riceverebbe un colpo dalle conseguenze negative pesanti. Una volta tanto quella che potrebbe apparire come la solita cultura delle ricorrenze dovrebbe essere vissuta quale memoria che serve al futuro; ma il futuro si costruisce a partire dal presente. Esso, piaccia o non piaccia, non è esente dal passato poiché è lì che affonda le sue radici prime.
Con i piedi ben saldi nel presente e preoccupati seriamente per il nostro futuro torniamo però al passato, a Francesco De Sanctis. In un discorso tenuto a Foggia l’11 marzo 1880 il grande critico diceva queste parole: “E il morbo è questo, che abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza o della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I patrioti si ritirano. La fede nelle patrie sorti s’indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle passioni e degli interessi più volgari.”
Cos’altro possiamo aggiungere?
In un Paese nel quale la menzogna è assurta ad arte di governo bisognerà pure che si alzi, per quanto isolata, molto isolata, qualche voce di protesta e di denuncia. L’Italia è un Paese poco abituato indignarsi; non è nella sua indole a dimostrazione di quanto forte sia ancora il suo stacco dalla modernità. I nostri succhi gastrici sono immensi, sempre pronti a giustificare, a pietosamente comprendere, ad aspettare che venga il meglio, a cercare comunque di salvaguardare l’interesse privato e, così, tirare avanti. E pure, quasi sempre e comunque, ad avere simpatia per i furbi poiché da noi la furbizia è sintomo di bravura. Ma la furbizia, applicata alle cose pubbliche, alla politica, provoca – e nemmeno tanto alla lunga – danni seri, sia a chi la pratica che a chi la subisce.
E’ chiaro che nelle pratiche pubbliche occorra un pizzico di furbizia, ma si tratta di un qualcosa di diverso rispetto a quella cui assistiamo oggi, poiché l’uso dell’accortezza corrisponde per lo più a conoscenza del mestiere e anche a senso di responsabilità. Quando la furbizia è un tutt’uno con la menzogna vuol dire che solo a quest’ultimo fattore è ridotta la pratica politica: al realismo si sostituisce la truffa e siamo alla bancarotta della gestione politica. L’Italia sovranista-populista-demagogica che ha legittimato questo governo – peggiore di ogni possibile immaginazione – è, infatti, sull’orlo della bancarotta non solo metaforicamente. Una compagine di governo – improvvisata e ridicola nella componente grillina, arrogante e nevroticamente autoritativa in quella leghista – sta incartando il Paese in una lunare drammaticità iperbolica e irrealistica per affermare, in un continuo braccio di ferro, il prevalere del messaggio demagogico dell’una rispetto a quello, altrettanto demagogico, dell’altra. E poiché la realtà mediatica costituisce il campo di estrinsecazione di tale duello, bisogna riconoscere che la sua gestione da parte leghista è ben più efficace di quella grillna; tanto ansiosa di essere efficace nello spasmo continuo di rubare il tempo a tutti e primeggiare incurante se si possono creare dei danni. Salvini, l’uomo che le televisioni riprendono sempre in cammino, di felpa vestito o in camicia e sempre con il telefono attaccato all’orecchio, è il vero grande protagonista di questa rappresentazione. Attraverso la collezione di felpe che ha, indossa il costume di scena. A un popolo, quale quello italiano, che ama il melodramma, viene trasmesso il messaggio del gesto e della parola che lo accompagna. Il pensiero gli è materia estranea; ciò che conta è la suggestione e il coinvolgimento emotivo che poi diviene consenso politico.
La politica quale melodramma è cosa vecchia in Italia. Il gesto quale espressione suprema dell’intenzione; la recita del copione ritenuto adatto all’ occasione infischiandosene di ogni ragione, di ogni altro motivo purché scatti l’applauso, il sentimento di identificazione e di condivisione, l’apparire un elemento di forza che rassicura e pilota il processo storico, è un qualcosa di ben conosciuto. E’ triste constatare quanto, nonostante tutte le controrepliche della storia, ancora una volta quanto il nostro Paese ami i domatori di circo. Sarebbe difficile farne un elenco completo; ma subito le figure tragicomiche di Marinetti, D’Annunzio, Mussolini, Giannini ci danno la sostanza del problema. Mussolini amava vestirsi da scena a secondo delle occasioni: non sappiamo quante divise avesse, con o senza pennacchi, ma sempre da indossare con il passo volitivo e la mascella serrata. Quando poi mise il pennacchio anche al re, la recita giunse al massimo e il popolo italiano applaudiva. Salvini non è Mussolini, ma le sue innumerevoli felpe hanno lo stesso significato simbolico che avevano le tante divise della buonanima. In fondo è la stessa Italia provinciale, sagraiola e un po’ ridicola. I leghisti, nati come antitaliani, sono oggi i più fedeli rappresentanti dei mali storici della nostra indole. Dal simbolo della Lega è scomparsa la parola Nord; lo stesso nome del partito è in subordine rispetto a quello del suo leader. Furbo – almeno si crede – spregiudicato e cinico, Salvini sublima la crisi italiana risolvendo nelle parole il fatto politico. Ma le parole non fanno governo né, tantomeno, producono governabilità. E’ una maschera e le felpe sono consustanziali alla mascherata. I politici in maschera,tuttavia, nascondono sempre un’insidia poiché testimoniano di una fragilità che, se nel momento non appare, viene fuori in seguito poiché la politica, ogni politica, non può realizzarsi se non è un pensiero compiuto che dà senso alle cose; infatti, solo così, essa esprime quella forza che le permette di essere. E’ una maschera; quella maschera dispotica che giace – come scriveva Mario Paggi su “Lo Stato Moderno” nel novembre 1946 – “nel cassetto della biancheria di ogni buon italiano.”
Rispetto a Salvini, Di Maio fa tenerezza; con lui tutti i suoi. La ricaduta sul Paese del loro fallimento avrà ripercussioni pesanti. Infatti, oltre ai danni materiali, occorrerà cercare di risanare quelli morali e culturali. In questi mesi di governo Di Maio è stato l’alfiere degli annunci, dichiarazioni e rappresentazioni che non avevano né babbo né mamma. La falsificazione della realtà è stata assunta a canone dell’agire grillino. Un esempio per tutti: il 27 settembre la compagnia pentastellata gridava – a dimostrazione che l’insegnamento di Beppe Grillo non è stato invano – con squadristica rappresentazione di conquista del palazzo irrompendo sul balcone della sede del governo, che la manovra sarebbe stata al 2,4%. Il governo del popolo, tramite la manovra del popolo, con un presidente del consiglio avvocato del popolo, aveva sconfitto la miseria. Di conseguenza, giù a testa bassa e lancia in resta contro l’Europa; lui e Salvini spargenti dichiarazioni irridenti e maleducate contro la Comunità. Si sono viste come sono andate le cose. Hanno fatto come i pifferi di montagna che andarono per suonare e furono suonati. Tria e Conte sono sembrate come due partire Iva nello studio gialloverde “Salvini - Di Maio”; chissà se bisognerà fare pure un decreto dignità? Ragionando in termini pietosi, il presidente del consiglio e il ministro del tesoro ne avrebbero bisogno. Il massimo della rappresentazione della falsità lo abbiamo avuto quando, oramai tramontato il 2,4%, si è sventolato il 2,04% vendendo un prodotto avariato. Nell’immaginario collettivo, tuttavia, poteva avere lo stesso effetto dell’altro. Bastava non far sparire il 4. Un teatro, ma di periferia e con attori improvvisati!
Il popolo, la storia ce lo dice, si rovina spesso con le sue stesse mani. La democrazia però, è superiore a ogni altro reggimento politico poiché permette di rimediare agli errori; permette di ritornare sui passi sbagliati che sono stati compiuti. Bisogna volerlo, naturalmente. Certo che in un Paese senza opposizione le cose sono maledettamente complicate. Lo sbando è oramai la nostra realtà quotidiana.