"CAMBIARE TUTTO PERCHE' NULLA RIMANGA COM'E' " di Giorgio Benvenuto
21-05-2020 - EDITORIALE
La pandemia ci renderà migliori? Ci vorrà tempo per capirlo perché le trasformazioni, quando riguardano i comportamenti delle persone, non sono quasi mai immediatamente visibili: scavano silenziosamente, come una talpa al centro della nostra anima.
Saremo migliori? Sicuramente abbiamo un nutrito gruppo di scienziati che hanno acquisito, grazie alle numerose commissioni create dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, una notorietà inattesa, simile a quella delle star del rock. La scienza viene normalmente maltrattata in questo paese anche a causa di forze politiche animate da evidenti pulsioni antiscientifiche. Nella nostra vita la ricerca ha una funzione delicata e decisiva, come quella di chi amministra giustizia. Al pari dei giudici, gli scienziati dovrebbero usare con larghezza lo strumento della discrezione. Invece, l'esposizione eccessiva li ha fatti diventare simili ai politici: egocentrici e litigiosi. Il governo che si è saggiamente affidato alle loro valutazioni, alla fine è andato oltre dimenticando le sue prerogative (cioè decidere dopo aver fatto la sintesi delle indicazioni ricevute nel rispetto dell'interesse collettivo) e dalla consultazione è passato alla sostituzione: alla “sua” sostituzione come pubblico decisore.
Saremo migliori? Sarebbe già sufficiente essere più attenti. E smetterla di considerare gli anziani un peso che si alleggerisce un po' solo quando si rendono utili facendo i baby sitter o accettano passivamente di farsi tagliare le pensioni. La strage prodotta dalla pandemia è la conseguenza non solo di evidenti errori di chi avrebbe dovuto vigilare, ma anche dell'incuria collettiva. Abbiamo dimenticato che il paese sta anagraficamente cambiando. Per due motivi fondamentali: i babyboomers sono entrati o stanno entrando nell'età della vecchiaia; l'attesa di vita si sta progressivamente allungando. Eurostat ci dice che quella italiana è la popolazione più vecchia d'Europa con il 22,8 per cento di over 65 (la media Ue è 20,3), in tutto 13 milioni e 780 mila persone. La Liguria è una delle regioni più anziane del continente (28,5 per cento di over 65), superata da Chemnitz (Germania, 28,9). In dieci anni questa categoria anagrafica ha avuto una crescita di 1,8 milioni di unità mentre gli under 15 si sono ridotti di 400 mila unità. Ma c'è di più. Dal 2000 al 2017 gli over 70 sono passati da 7 a 10 milioni e promettono di essere quindici milioni nel 2042. L'attesa di vita a 65 anni nel 2017 per gli uomini era di 19 anni, nel 2042 sarà di 21, nel 1982 è stata di 14; per le donne nel 2017 era di 22 anni, nel 2042 sarà di 25, nel 1982 si fermava a 17. Il dato, volendo, fornisce una indicazione a chi è chiamato a governare: il sistema sanitario va rafforzato sul fronte dei servizi agli anziani e, in particolare, su quello delle malattie legate all'invecchiamento e sul versante dell'assistenza domiciliare.
Saremo migliori? Sicuramente siamo più scettici nei confronti dell'Europa. Tutti i sondaggi dicono che la nostra simpatia nei confronti di una istituzione che avvertiamo sempre più come matrigna che come madre, si è enormemente raffreddata sino a diventare aperta antipatia. La Germania, poi, è al centro dei nostri pensieri peggiori ma questo è, in qualche maniera, un atteggiamento ricorrente e vicendevole. I nostri rapporti con Berlino sono stati caratterizzati negli ultimi 120 anni da diffidenza mista a rare fasi di simpatia. Il peccato originale risale alla Grande Guerra quando ci “slegammo” in “zona Cesarini” dall'alleanza che ci teneva legati all'attuale capitale tedesca. Poi siamo tornati alleati con Mussolini ma si trattava più che altro di un rapporto personale tra due dittatori. In realtà, i rapporti dell'Ovra custoditi negli archivi segnalano abbondantemente la contrarietà della maggior parte del popolo italiano a quella alleanza. Contrarietà ricambiata dai tedeschi che soffrivano nei nostri confronti, e probabilmente soffrono ancora, di un evidente complesso di superiorità.
Poi è arrivata l'Europa, ci siamo conosciuti, a volte apprezzati, non sempre capiti, abbiamo anche ironizzato su quelli che un tempo venivano con i carri armati e adesso scendevano con i “maggiolini” per le vacanze sulla riviera romagnola. Sono nati i luoghi comuni sulle “libere” bionde tedesche e sui focosi amanti latini, sulla nostra eleganza e la loro rigidità, le teste tonde e le teste quadre, dimenticando quel che diceva un grande tedesco, Immanuel Kant, a proposito del legno storto da cui è stato ricavato l'uomo. Oggi c'è chi propone di fuggire dall'Europa, di tagliare i ponti con la Germania per abbracciare la Cina con la quale abbiamo sempre avuto rapporti commerciali, già molto prima di Marco Polo, ai tempi dell'Impero romano e di quello degli Han. Ma l'Europa per quanto costruita con un legno più storto di quello utilizzato per il confezionamento del genere umano, resta il nostro destino: come tutti i destini irreversibili ci obbliga anche a portare la croce. Secondo un sondaggio Swg solo il 27 per cento degli italiani apprezza l'Unione Europea; secondo un'analisi di Tecnè il 42 per cento l'abbandonerebbe volentieri; secondo Demos, invece, il gradimento tocca il 30 per cento. L'Europa ha sicuramente sbagliato molto nella vicenda della pandemia ma sarebbe un errore buttare a mare una storia ricca di fascino e una idea che ha ancora una sua validità per quanto maltrattata da una classe dirigente che ha mostrato straordinari limiti di leadership, a cominciare da Angela Merkel che da sempre insegue un'occasione per scrivere la sua pagina di storia europea ma che si deve accontentare di leggere quelle scritte da altri suoi connazionali come Adenauer, Brandt, Schmidt e Kohl. Lei è rimasta la “ragazza” nata ad Amburgo ma cresciuta nella più provinciale Ddr: potente economicamente e perennemente temporeggiatrice come il famoso Quinto Fabio Massimo che la seconda guerra punica, però, la vinse.
Ma per quanto timida nelle sue iniziative, la cancelliera nel panorama europeo appare una gigante in una assemblea di nani. Dal punto di vista delle intenzioni e delle dichiarazioni di principio, la Merkel è sicuramente in sintonia con la cultura europeista. Il problema è che i fatti non sono sempre conseguenti perché ispirati da logiche elettorali e opportunistiche. Insomma, il problema è Confucio. Ma tra i tanti discorsi ascoltati nei giorni caldi della pandemia, sicuramente il più “nobile”, alto è stato quello pronunciato dalla cancelliere davanti al Bundestag: “Tutti i nostri sforzi a livello nazionale potranno alla fine avere successo se avremo successo in Europa […] Dobbiamo essere pronti, nello spirito di solidarietà, a realizzare contributi di ben altra natura, ossia molto più alti. Perché noi vogliamo che tutti gli stati membri dell'Unione europea possano riprendersi economicamente. Per noi in Germania riconoscerci nell'Europa unita fa parte della ragione di Stato […] L'Europa non è Europa se ognuno non sta dalla parte dell'altro in tempi di emergenza di cui nessuno ha colpa”. E qualche ora dopo, al Consiglio europeo faceva seguire a questa dichiarazione di principio l'indicazione di una politica comunitaria: “Se stiamo andando come sembra che stiamo andando, verso la mobilitazione di una quantità di denaro senza precedenti per costruire la necessaria capacità di bilancio, allora dobbiamo avere coerenza nei sistemi di tassazione delle società e ci serve un sentiero di convergenza, con una quantità di idee diverse su come usare i nostri sistemi fiscali”. Quello che propone la Merkel è un passo enorme nel senso dell'integrazione. Soprattutto di tipo psicologico perché all'interno del corpo di ogni tedesco c'è una vena che non si è mai prosciugata. L'ha indicata con chiarezza il germanista Angelo Bolaffi: “La Germania […] accettò di rinunziare all'amatissima Deutsche Mark (in tedesco il termine è femminile) perché non aveva alternative. Tale rinuncia è stato il prezzo che il governo federale tedesco ha dovuto pagare per l'approvazione dell'unione tedesca”.
Insomma la Merkel per quanto frenata da quegli irrefrenabili istinti nazionalistici segnalati da Habermas, prova a dare dell'Europa una interpretazione in qualche maniera prossima a quella di Thomas Mann: una Germania europea, più che un'Europa tedesca. Forse non ci riesce pienamente ma a volte le capita pure di lanciare qualche segnale, qualche idea in questa direzione. E gli altri?
Tra gli altri ci sono pure gli italiani. Noi ci lamentiamo dell'egoismo altrui, ma negli ultimi anni, anzi decenni non abbiamo saputo produrre praticamente nulla al di là delle sterili lamentazioni. In questa assenza di proposta, inevitabilmente la Germania finisce per guardare con maggiore interesse verso l'area geografica a cui è stata storicamente sempre interessata, cioè l'Europa centro-orientale, trovando assonanze culturali e di linguaggi in quel pezzo di continente più sensibile agli spifferi dell'utilitarismo riletto in chiave protestante. L'Italia non è riuscita a proporre la propria leadership o il proprio pezzo di leadership nonostante l'uscita di scena della Gran Bretagna il cui vuoto avrebbe dovuto e potuto colmare. Ci ha sicuramente danneggiato il declino economico che in questi ultimi anni ci ha allontanato dalla “locomotiva” continentale. Ma è anche mancata una politica europea perché invece di concentrarci sul complesso dei problemi, ci siamo attardati nel dibattito inutile e sfibrante su populistiche bandierine ideologiche (Mes sì-Mes no). L'ultimo colpo d'ala lo abbiamo prodotto quando Craxi impose alla Thatcher l'ingresso della Spagna e del Portogallo. Poi sprazzi occasionali attraverso Carlo Azeglio Ciampi, Tommaso Padoa-Schioppa, ovviamente Romano Prodi. L'ultimo ricordo consegnato agli annali è rappresentato dai sorrisini ironici di Merkel e Sarkozy nei giorni in cui il governo Berlusconi veniva travolto dai tempestosi marosi dello spread. Ma non è certo un'immagine che ci riempie di orgoglio e di gloria. O eravamo subalterni (governo Monti) o puntavamo a strappare qualche decimale di flessibilità per gli ottanta euro, quota 100, il reddito di cittadinanza.
La responsabilità di questa debolezza progettuale incombe in particolare sulle spalle degli uomini del centro-sinistra anche perché sono gli unici dotati di una radicata cultura europeista. Ma sul tavolo di Bruxelles questa cultura non l'hanno spesa adeguatamente pur occupando posti di rilievo nella nomenklatura. Di fronte a una Merkel che ovviamente pone questioni fondamentali per il progresso dell'integrazione, l'Italia risponde con il vuoto delle idee. Il centro-sinistra italiano vive immerso nelle sue ossessioni ma stenta a mettere sul tavolo una proposta sistemica e prospettica. E pensare che la strada è stata anche aperta dalle sollecitazioni di Papa Francesco e di Mario Draghi che nei primi giorni della pandemia ha spiegato sul Financial Times che era “necessario un approccio su scala più vasta” e che “il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti” avrebbe dovuto essere per tutti noi di avvertimento. Al sovranismo, il centro sinistra non ha saputo contrapporre un'idea alternativa preferendo accettare passivamente un'Europa sempre più prigioniera di una logica liberista imposta dalle “vincenti” narrazioni politiche del nord: abbagliati da Schroeder, Blair e Clinton; dimentichi di Brandt, Palme e Roosevelt. Avremmo dovuto proporre una nuova rivoluzione europea nel nome di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni; avremmo dovuto rilanciare il discorso della Costituzione, rivendicare il completamento dell'impianto politico, pretendere il perfezionamento della struttura istituzionale in senso più democratico in ossequio al principio della sovranità popolare, reclamare la sburocratizzazione del sistema, sconfiggere l'abusivo primato tecnocratico, rivendicare la supremazia dei diritti sociali rispetto a quelli economici. Invece non siamo andati oltre un inutile vertice tragicamente evocativo al largo di Ventotene su una portaerei. Un capolavoro tanto nei contenuti quanto nei simboli.
Saremo migliori? Slavoj Zizek, filosofo comunista non pentito, interprete di Marx attraverso le rimodulazioni di Althusser e la psicanalisi di Lacan, sostiene che “l'epidemia di Covid 19 dimostra non solo i limiti della globalizzazione ma anche quelli più letali del populismo nazionalista che insiste nella piena sovranità dello Stato: è la fine di 'prima l'America' (o qualunque altro paese)! […] La crisi attuale dimostra chiaramente che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell'interesse di tutti e di ciascuno di noi, e sono l'unica cosa razionale ed egoista da fare”. Posta così la questione diventa più complicata e allo stesso tempo intrigante perché obbliga a pensare a un cambiamento che non riguarda solo gli individui ma coinvolge soprattutto le istituzioni e, nel complesso, quell'organizzazione capitalistica che celebra quotidianamente la sua potenza ma poi si scopre un gigante dai piedi d'argilla davanti a un virus visibile solo al microscopio.
Mariana Mazzucato è una stimata economista. Ha scritto in un articolo sul “Guardian”: “Dagli anni Ottanta ai governi è stato detto di fare un passo indietro e lasciare che fossero le imprese a orientare la creazione della ricchezza, intervenendo solo allo scopo di risolvere i problemi quando si presentano. Il risultato è che non sempre i governi sono preparati ad affrontare crisi come Covid 19 o l'emergenza climatica […] Occorre un ripensamento di ciò che i governi devono fare: piuttosto che limitarsi a correggere i fallimenti del mercato quando si presentano, essi dovrebbero dedicarsi a concepire e creare mercati che garantiscano una crescita sostenibile e inclusiva”. Nei mesi del Covid si è scatenata la tempesta perfetta: la pandemia, le borse che crollavano, il prezzo del petrolio che scendeva letteralmente sotto lo zero. Troppe volte abbiamo detto che il sistema andava ripensato, che l'Italia andava ricostruita. Cominciando dall'apparato produttivo che ha accumulato enormi ritardi rispetto ai partner europei perché non tutti hanno capito per tempo che le vecchie produzioni che tiravano l'export non funzionavano più, che bisognava investire per costruire cose ad alto contenuto tecnologico; un grosso problema per un paese come l'Italia che ha fatto dissolvere l'Olivetti emarginandosi dal palcoscenico principale della terza rivoluzione industriale. Siamo estremamente interconnessi con la Germania (soprattutto nel settore automobilistico) ma negli ultimi decenni Berlino ha dirottato gran parte delle sue attenzioni, dal punto di vista delle forniture, verso i paesi del gruppo di Visegrad e forse per questo è così poco interessata al dumping sociale iscritto nel cuore dell'Europa al pari di quello fiscale.
Giustamente le imprese hanno chiesto sostegno allo Stato sotto forma di liquidità. Ma se lo Stato è utile nel momento delle crisi, può esserlo ancora di più per evitarle. Va superato quel paradigma che ha portato alla distruzione di un enorme capitale attraverso la svendita delle aziende che facevano capo all'Iri: in molti casi l'investitore privato non si è rivelato migliore di quello pubblico e in alcuni lo ha superato nel peggio. Non si tratta di ritornare alle vecchie Partecipazioni Statali ma riservare alla mano pubblica quelle aree di investimento che incidono maggiormente sull'interesse generale. Significa chiedere allo Stato un intervento più massiccio sulla ricerca di base, quella che reclama capitali pazienti; un ruolo decisivo nella definizione dei principi e delle regole di una economia sostenibile. Soprattutto invitarlo a interessarsi un po' di più del sud tornando a spendersi su quella convergenza tra le due aree del paese che inseguiamo senza successo da ben oltre un secolo e mezzo. Da quarant'anni la “questione meridionale” è stata cancellata dal lessico politico e sociale. L'ultimo tentativo di affrontarla con uno sforzo creativo fu fatto dai sindacati quando a Palazzo Chigi vivacchiava un debole governo presieduto da Francesco Cossiga. Di tanto in tanto rispunta l'idea della banca per il sud; all'epoca fu avanzata la proposta di un fondo alimentato da un piccolo contributo degli stessi lavoratori, una trattenuta sullo stipendio dello 0,50 per finanziare investimenti che si erano bloccati dopo iniziative sciagurate (il quinto, mai nato, centro siderurgico di Gioia Tauro immaginato nel mezzo di una crisi petrolifera che aveva ridotto i consumi di acciaio). Il Pci di Berlinguer, in lotta con le maggioranze di allora dopo la fine della solidarietà nazionale, la boicottò facendola abortire, una linea che, ad esempio, la sinistra del dopoguerra guidata da Palmiro Togliatti e Pietro Nenni aveva evitato di seguire al contrario agevolando l'impegno massiccio per la ricostruzione del Mezzogiorno, nonostante l'estromissione dal governo e la proclamazione della conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti.
Ma il Pci del dopoguerra fece anche di più promuovendo una iniziativa che di tanto in tanto rispunta da una memoria sotterrata nel forzato oblio. L'ha ricostruita in un bel romanzo Viola Ardone: “Il treno dei bambini” (Einaudi). La guerra era appena finita, le condizioni del sud erano disperate. Non si mobilitarono le classi agiate, ma i contadini, gli operai prevalentemente dell'Emilia. Sessantamila ragazzini tra il 1945 e il 1951 salirono al nord: le famiglie che li accolsero li nutrirono e li fecero studiare. Più tardi i Modena City Ramblers avrebbero cantato: “Sui treni del bestiame oggi partono i bambini/ sui treni per l'Emilia un bambino per famiglia/... non si aprono ville abbandonate dai ricconi ma il cuore e le case di onesti lavoratori/... perché dove si mangia in sei si mangia in sette”. Questo senso di comunità è scomparso nel tempo e la pandemia compirebbe un vero miracolo se riuscisse a farlo rinascere. Ma non ci si può fermare all'invocazione di un evento soprannaturale. Per risvegliare l'attenzione su un pezzo d'Italia mandato alla deriva ci vuole l'impegno di una grande forza sociale di cambiamento. Il Mezzogiorno ha pagato anche l'assenza ingiustificata del sindacato, l'accettazione di un mondo costruito intorno a migliaia di monadi chiuse all'interno delle quali non penetrava più il soffio “rivoluzionario” dello slogan “Nord-Sud uniti nella lotta”. Solo un sindacato che recupera la sua funzione di “produttore” di coesione, può spingere la politica a fare quel che non riesce a fare perché interessata solo a piantare bandierine ma non a elaborare progetti in grado di ricostruire il tessuto socio-economico. Questa netta divisione ha pesato in maniera decisamente negativa nella fase del lockdown perché fermatosi il cuore produttivo del paese, siamo rimasti totalmente senza alternative. Rinunciare al Mezzogiorno equivale a rinunciare a una riedificazione dell'Italia su basi più solide, unificanti e inclusive. Se la generazione che uscì dalla guerra ricostruì produttivamente il paese, quella attuale ha la possibilità di completare l'opera cercando di agganciare i due vagoni della penisola.
Ma abbiamo bisogno di soggetti che riescano a dare un senso compiuto al bisogno di cambiamento, per fare in modo che se non tutto, almeno molto non sia più come prima. Davide Conti nel suo libro su Piazza Fontana ricostruisce l'ambiente politico, sociale, economico, anche militare che fece da sfondo alla strage che inaugurò la tragica stagione della strategia della tensione. Il 1969 fu un anno di grandi battaglie operaie che poi, per semplicità mediatiche, sono state sintetizzate in una sorta di sigla, l'Autunno caldo. Scrive lo storico: “Le lotte e le vertenze del movimento sindacale si configurarono in questa dinamica come un orizzonte di senso di portata complessiva in grado di svolgere una funzione generale di progresso per tutto il paese in ordine agli squilibri e alle tare storiche dell'Italia postunitaria”. Il miracolo economico aveva garantito una grande crescita ma non aveva favorito un adeguato sviluppo civile, né prodotto la giusta dose di riforme modernizzatrici. La lievitazione del Pil aveva lasciato intatti gli squilibri aggiungendone di nuovi causati dal massiccio trasferimento al nord di manodopera meridionale. Nel 1966 il salario medio di un operaio si aggirava intorno a 70 mila lire quando l'Istat sosteneva che ne servissero 100 mila per garantire un decente livello di vita a una famiglia; a metà degli anni Sessanta a fronte di un aumento della produttività del 15 per cento, le retribuzioni nell'industria calarono del 4 per cento. Il sindacato seppe interpretare il bisogno di rinnovamento, riuscì a proporsi a una vasta comunità come soggetto di trasformazione a dispetto di forze che, al contrario, lavoravano, spesso nell'ombra per una stabilizzazione in senso autoritario. Erano anni di politica “debole”, segnati dalla crisi del centro-sinistra, dal suo irreversibile esaurimento. Oggi abbiamo un evidente vuoto di leadership, l'assenza di punti di riferimento sicuri, affidabili. Il sindacato è un grande protagonista sociale, lavora nelle viscere del paese, ne interpreta bisogni e umori, non vive con la gente attraverso i social ma vive tra la gente nei posti di lavoro, laddove la fatica può essere disperazione o speranza: deve solo riuscire a ritrovare lo spirito di mezzo secolo fa quando attraverso la contrattazione riformò la società sulla base di un'idea modernizzatrice che partiva dalla creazione di un funzionante welfare avendo per giunta di fronte una Confindustria arroccata in un immobile e a volte rancoroso passatismo.
Abbiamo attraversato anni in cui il lavoro è stato svalutato; d'altro canto, dopo l'introduzione dell'euro era l'unica cosa che potevamo svalutare visto che con la scomparsa della lira era andata perduta l'altra leva con la quale si spingevano le esportazioni. Questo è il momento per restituirgli dignità, anche salariale. In vent'anni i precari sono raddoppiati, dal 12 al 24 per cento, mentre solo il 10 per cento dei lavoratori dipendenti sono riusciti a mantenere invariato il proprio potere d'acquisto rispetto a un quarto di secolo fa. In compenso, la macchina dello Stato funziona perché l'80 per cento del combustibile (le imposte) viene fornito da lavoratori dipendenti e pensionati, mentre trecentomila italiani tengono al calduccio i loro averi nelle banche svizzere e decine di migliaia nei paradisi fiscali più esotici. Abbiamo capito e si spera una volta per tutte, che il welfare non è un costo ma un investimento sulla vita di tutti noi; che nella sanità l'area dei privati non va ampliata ma ridimensionata, anche a dispetto delle troppe “baronie” che hanno sempre frenato l'evoluzione del sistema; che quella pubblica va valorizzata e potenziata e non evocata, semmai in malo modo, solo quando la situazione volge al peggio.
Dobbiamo, però, anche chiederci quale lezione riusciremo ad apprendere da questa vicenda e quali soluzioni nel medio-periodo riusciremo a dare ai problemi accentuati o creati ex novo dalla pandemia. La Merkel parla di un sistema fiscale da armonizzare a livello europeo. Quello italiano, nel frattempo, brilla per iniquità perché in realtà fa pagare sempre ai soliti noti, cioè prevalentemente a coloro che hanno la ritenuta alla fonte. Nel tempo ha smarrito, con la scusa della semplificazione, la progressività e per raccattare la maggiore quantità di gettito possibile dalle fasce di reddito più comuni tra lavoratori dipendenti e pensionati, ha creato un vero e proprio scalone tra la seconda e la terza aliquota con la conseguenza che il salasso è troppo gravoso per alcune tasche, quindi ingiusto. L'Irpef è come una margherita: ha perso petali con la conseguenza che pezzi di reddito personale (ad esempio quelli di origine finanziaria) possono contare su tassazioni decisamente leggere. Abbiamo la “patrimoniale dei poveri”, l'Imu, ma se si prova a parlare di una patrimoniale vera, peraltro sollecitata persino da organizzazioni come il Fmi, che vada a colpire anche in maniera blanda le grandi ricchezze, chi quelle grandi ricchezze detiene e ha potere sull'universo dei media, immediatamente organizza una campagna contro la proposta semmai mettendo nel mirino gli spietati “tassatori” della sinistra. Eppure nel mondo appena il 4 per cento del gettito fiscale deriva da imposte sul patrimonio. In compenso un terzo della ricchezza dei miliardari proviene da successioni ereditarie. Traduzione: le tasse di successione alleggerite tra gli anni Ottanta e Novanta sotto la pressione del liberismo non hanno favorito i comuni mortali come una propaganda mirata e ben orchestrata ha sostenuto, ma prevalentemente i più ricchi. Il risultato di questa operazione è anche un altro: oggi un terzo dei giovani con genitori non abbienti è destinato a rimanere al gradino più basso della scala reddituale; al contrario, il 58 per cento dei figli del 40 per cento più ricco, resterà sui gradini più alti a dispetto di qualsiasi catastrofe.
Papa Francesco nell'enciclica Laudato si' scriveva: “La crisi finanziaria del 2007-2008 era l'occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell'attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c'è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo”. Non solo quei criteri non sono stati ripensati, ma la disuguaglianza, che ne è la conseguenza, è cresciuta. La peste del 1347 rese più equa la distribuzione del reddito per un secolo e mezzo. L'economia di allora era diversa: si basava sull'agricoltura e l'artigianato; dal punto di vista tecnologico quello non era certo un mondo avanzatissimo e le “braccia” avevano una funzione centrale nel processo produttivo. Ciò che accadde allora non si ripeterà adesso; la pandemia produrrà più disoccupazione e disuguaglianza, un processo quest'ultimo apparentemente inarrestabile, come ci spiegano con dovizia di particolari Bezos e i suoi amici. La popolazione mondiale ormai sfiora gli otto miliardi. Eppure 6,9 miliardi di persone detengono tutte insieme appena la metà della ricchezza netta dell'1 per cento più ricco. Il 60 per cento della popolazione mondiale ha meno disponibilità di 2153 super-ricchi; appena ventidue persone mettono insieme la ricchezza detenuta da tutte le donne africane. Nel nostro paese il 10 per cento più abbiente possiede una ricchezza pari a sei volte quella del 50 per cento più povero; l'1 per cento più ricco ha un patrimonio più pingue del 70 per cento più povero. Nel mondo il 10 per cento dei lavoratori che percepiscono i salari più bassi (ventidue dollari al mese) avrà bisogno di tre secoli e mezzo per raggiungere la media salariale della fascia più alta. Se esistesse un umano praticamente immortale in grado di risparmiare 10 mila dollari al giorno dall'epoca delle piramidi ad oggi, dopo questa gran fatica avrebbe messo insieme appena un quinto del patrimonio medio dei cinque miliardari più ricchi. Possiamo provare a costruire le condizioni per quel cambiamento reclamato dal Papa? Il governo italiano, pur tra mille contraddizioni, ha provato a sostenere tutte le vittime economiche della pandemia, un necessario intervento assistenziale in un momento in cui milioni di persone si sono ritrovate senza reddito. Ma questo non può esaurire tutti i nostri bisogni. Soprattutto non può soddisfare tutte le nostre attese. Il rischio, in questi casi, è quello dell'appagamento, fermarsi all'oggi senza guardare alla prospettiva. Ma è l'Italia di domani che i partiti e, soprattutto, i sindacati devono provare a immaginare perché per troppo tempo siamo andati avanti con lo sguardo voltato all'indietro. Questo è il tempo dell'azione non della rassegnazione. È il tempo della coerenza non del gattopardismo; non possiamo permetterci di pensare come Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”. Al contrario è necessario che tutto cambi proprio per evitare che tutto resti com'è.
Concludendo, saremo migliori? Dipende solo da noi.