Mentre stiamo scrivendo, l'accordo sulla riforma del Patto di stabilità sembra essere in via di definizione. Purtroppo, però, la formula che si sta profilando all'orizzonte non sembra molto migliore di quella che ci lasceremo alle spalle.
Il governo italiano con, in primo piano, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti erano alla ricerca di nuovi spazi di flessibilità per i conti del Paese, tuttavia, dopo l'irrigidimento dei tedeschi pare che anche le ultime speranze in tal senso siano venute meno. La soluzione che presumibilmente verrà adottata ricalcherà in gran parte la volontà del governo di Berlino.
In un primo momento sembrava potesse essere possibile superare la pervicace opposizione della Germania a qualunque tentativo di adeguare le regole di un Patto di stabilità che anche l'ex-presidente della Commissione europea Romano Prodi aveva definito stupide ancorché necessarie ma auspicandone una riforma nel senso di una maggior flessibilità e intelligenza.
Ci troviamo, invece, di fronte a una riformulazione del Patto in termini di vincoli di bilancio che differisce ben poco dalla precedente. Certo, ora i piani di rientro dal debito eccessivo possono essere ‘personalizzati' concordando con la Commissione un tasso di variazione della spesa pubblica (escluse le spese per il pagamento degli interessi) per i quattro anni seguenti che diventano sette se i soldi vengono impiegati sul fronte delle riforme.
In verità, si sperava in qualcosa di più e di meglio dopo la pandemia, la guerra in Ucraina e le necessità dettate dal processo di transizione ecologica. Una persona non certo sospettabile di simpatie per il governo in carica come l'ex-commissario europeo e presidente del Consiglio Mario Monti ha affermato senza mezzi termini che «non è accettabile, è un'Europa con lo specchietto retrovisore quella che viene fuori da questo Patto. E questa era l'occasione per dare molto più spazio a seri investimenti pubblici» sollecitando, addirittura Giorgia Meloni a utilizzare, se necessario, l'arma del veto per tutelare al meglio gli interessi del nostro Paese.
Dall'altra parte, il ministro tedesco dell'Economia Christian Lindner sembra ritenere soddisfacente un modello di sviluppo europeo in cui tutte le variabili di crescita non sono dipendenti l'una dall'altra contrariamente a quanto evidenziato dalle crisi che si sono succedute negli ultimi anni.
Nella discussione che si è svolta in Italia sulla riforma del patto di stabilità c'è però un convitato di pietra ed è la sinistra che ormai pare aver abbracciato acriticamente ogni proposta di riforma venga da Bruxelles. C'è un bel libro, da poco uscito, ‘L'Europa senza retorica' di Barbara Curli in cui si cerca di decostruire quell'europeismo di maniera che ormai ingessa da decenni la sinistra italiana e la sua azione nel teatro europeo. Il complesso simbolico e le retoriche discorsive proprie di questa narrazione fanno sì che si finisca per vedere «la costruzione sovranazionale dell'Europa come un processo e come un progresso di per sé, e a giudicarne la natura a seconda del suo conformarsi o meno a modelli ideali di organizzazione europea (gli Stati Uniti d'Europa), a un dover essere extra-storico, e dunque a giudicarne le realizzazioni in base a tali modelli». Ovviamente facendo continuo ed esplicito riferimento all'Europa federale come obiettivo ultimo è naturale che ogni faticoso compromesso che si riesce a raggiungere nell'Europa a 27 venga visto come una sconfitta o un passo indietro. Curli scrive opportunamente di una «retorica della crisi perenne» che non spiega nulla e che tende a svalutare sistematicamente gli obiettivi raggiunti.
Molti esponenti della sinistra di governo di questo paese si riconoscono in questa narrazione. Ormai orfani della prospettiva palingenetica offerta dalla rivoluzione si prostrano devoti alla bandiera europea come fosse la Madonna di Lourdes senza mai essere sfiorati dal dubbio.
L'esempio supremo di questa narrazione si può riscontrare nella parabola politica di un uomo politico, peraltro di alta statura morale e intellettuale, come Giorgio Napolitano che volle simbolicamente aprire il suo settennato al Quirinale con una visita sull'isola di Ventotene.
Gli epigoni di Napolitano, non disponendo della sua preparazione culturale e del suo retroterra politico si limitano a sbandierare il vessillo europeo prestando il fianco anche a critiche sensate. Si veda, ad esempio il caso della vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno che ha voluto accompagnare la presidente popolare del PE Roberta Metsola nel suo tour elettorale nell'Italia meridionale – a Caserta ha inaugurato una lapide in ricordo di Ernesto Rossi – che ha avuto parole di elogio per Giorgia Meloni dei cui voti avrà probabilmente bisogno se si dovese candidare alla presidenza della Commissione in sostituzione di Ursula von der Leyen.