"LAICITA' E GARANZIE DI LIBERTA' DI RELIGIONE
E VERSO LA RELIGIONE.
LA PROSPETTIVA EUROPEA"

22-04-2019 -

«Quando arrivate dai cinesi» [ … ] dice (l'imperatore di Germania], «ricordatevi che siete l'avanguardia della cristianità», dice, «e ficcategli le baionette nella pancia, a ogni infedele maledetto che vedete» dice. «Fategli capire che vuol dire, la nostra civiltà occidentale» (F.P. DUNNE, Mr. Dooley's Philosopphy, New York, R.H. Russel, 1900, p. 93).

«Dobbiamo o no fare una Costituzione democratica, che abbia alla sua base i diritti di libertà? Tra questi c'è il diritto di eguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza» (Piero Calamandrei, Intervento in Assemblea costituente, 1947)

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare individualmente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti (art. 18 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo)

Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella Convenzione medesima deve essere assicurato senza alcuna distinzione (nel testo inglese si usa invece l'espressione without discrimination] di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni politiche o di altra natura, origine nazionale o sociale, fortuna o nascita, appartenenza a una minoranza (art. 14 convenzione europea dei diritti dell'uomo).

L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne (art. 1.2 del titolo I del trattato che istituisce la costituzione per l'unione europea).

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Più radici culturali dell'identità europea. – 3. Cultura cristiana e cultura europea. Cristianesimo e laicismo nella formazione della cultura europea. – 4. Ragionevolezza, antidogmatismo, tolleranza, dialogo. – 5. Controllo delle coscienze e riconoscimento della libertà di coscienza. – 6. La democrazia pluralista. Un cenno al problema della scuola laica in Europa. – 7. Identità collettive e diritti degli individui. – 8. Il contributo del diritto. – 9. L'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo. – 10. La giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo. – 11. Conclusioni. Bibliografia

1. Premessa. – L'idea di potere descrivere, con sufficiente precisione, il problema dei rapporti tra stati e chiese e la questione della laicità in Europa presenta molte difficoltà, considerando la varietà delle discipline riguardanti i diritti di libertà e le dinamiche europee in materia religiosa. Molti sono i paesi europei a strutturazione concordataria: Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Estonia, Alsazia-Mosella (regione della Francia nella quale è ancora in vigore un concordato del 1801, in quanto al momento dell'introduzione della legge sulla laicità del 1905 quelle terre appartenevano alla Germania), Germania, Italia, Lituania, Lettonia, Malta, Montenegro, Principato di Monaco, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di San Marino, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria. L'ordinamento belga distingue tra culti riconosciuti e culti non riconosciuti. Lo stato olandese negozia con un unico organismo che rappresenta tutte le confessioni religiose. Si registra talora, anche se in misura ridotta, la presenza, con diverse modalità e tipologie, di una Chiesa di Stato in Regno Unito, Grecia, Malta, Danimarca, Finlandia e (fino al 2000) Svezia. Soltanto la Francia prevede il principio costituzionale di laicità (pur in presenza di un sistema concordatario, nella regione dell'Alsazia Mosella).

2. Più radici culturali dell'identità europea. – Di fronte alla complessità dei problemi riguardanti le politiche europee nell'attuale periodo storico, può essere motivo di sorpresa che, nei mesi che hanno preceduto l'approvazione della carta dei diritti del 15 dicembre 2000, uno dei temi sui quali in Italia il dibattito è stato più vivace e polemico è stato quello riguardante la necessità o meno che nel preambolo della costituzione, successivamente approvata il 19 giugno 2004, figurasse il richiamo, fortemente sostenuto dalla chiesa di Roma e da alcune confessioni evangeliche, alle radici cristiane, secondo alcuni giudaico-cristiane, dell'Europa.
Dopo la mancata ratifica del trattato e il fallimento delle prospettive costituzionali europee, si è giunti alla firma, nel 2007, del trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il trattato di Lisbona ha introdotto alcune importanti modifiche ai trattati istitutivi (il trattato sull'unione europea e il nuovo trattato sul funzionamento dell'unione europea, che sostituisce il trattato sulla comunità europea): alcune di esse interessano da vicino anche il fattore religioso, il principio di laicità in Europa e la materia dei diritti civili.
La convenzione europea nel 2004 aveva trovato un ragionevole compromesso sull'argomento, limitandosi soltanto a fare riferimento ai valori “culturali, religiosi ed umanistici dell'Europa”: dei 25 membri dell'Europa chiamati a pronunciarsi sul problema soltanto la Polonia e l'Italia avevano insistito nel ribadire fino alla votazione finale la necessità dell'inserimento delle radici cristiane; ai tempi di Aznar c'era anche la Spagna su questa posizione, che in seguito è mutata a seguito della politica del presidente Zapatero, dopo che il premier spagnolo aveva dichiarato che era giunta l'ora di

una svolta laica in cui nessuno impone le proprie credenze né nella scuola, né nella ricerca, né in alcun ambito della società.

Del resto, se davvero ci si fosse proposti di citare nel preambolo della costituzione europea tutte le “radici” significative dell'Europa, si sarebbe dovuto fare un elenco molto lungo, nel quale, accanto alla radice giudaico-cristiana, avrebbero dovuto quanto meno figurare le idee di libertà e di uguaglianza della rivoluzione francese, l'eredità della scienza nata con Galileo, Keplero, Cartesio e Darwin, il principio di incompetenza degli stati in materia religiosa, le concezioni del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di libera ricerca.
Non soltanto tuttavia ragioni di carattere pratico hanno indotto a ritenere che la sola inclusione delle radici cristiane avrebbe ingiustamente escluso aspetti altrettanto importanti che meritavano di essere menzionati, determinando così un grave squilibrio nella stessa immagine culturale del continente: vi era anche l'esigenza prioritaria di mantenere il principio di laicità, uno dei più apprezzabili aspetti della cultura europea rispetto alle culture che non sono ancora riuscite a separare i precetti divini dalle leggi umane.
Parlare delle radici laiche dell'Europa è un compito non facile perché, mentre moltissimo si è scritto sulle radici religiose dell'identità europea, molto meno trattato è l'argomento delle “radici laiche” dell'Europa. Si tratta di un argomento che riguarda varie discipline: in particolare, la storia delle idee, delle istituzioni, delle costituzioni e del pensiero giuridico e filosofico, il diritto europeo e il diritto costituzionale comparato.
Una delle ragioni che inducono a valutare separatamente i due problemi ai quali ho ora accennato – radici “religiose” e radici “laiche” del continente europeo – consiste proprio nella insistenza con la quale si afferma spesso che si tratta in fondo di un'unica questione, giacché i valori fondanti dell'Europa sono quelli delle civiltà ellenica e romana, dell'ebraismo e del cristianesimo, senza i quali non vi sarebbero stati illuminismo, idealismo, marxismo, libertà ed eguaglianza (Cossiga, 2004). Questa tesi dà per scontata una conclusione che appare tutt'altro che convincente: che cioè l'illuminismo, il laicismo, il pluralismo, le concezioni sui diritti di libertà e di eguaglianza affermatesi in Europa con la rivoluzione francese e l'idea dello stato di diritto non sono altro che derivazioni dei valori fondanti che si sono sopra ricordati, e cioè dei principi della civiltà greco-romana e della concezione giudaico-cristiana.
È noto al contrario che, nel considerare i problemi della tutela dei diritti degli uomini e delle donne nella società contemporanea, occorre non perdere di vista le essenziali differenze che, al di là delle parole e dei termini usati, sussistono, talora in misura assai accentuata, fra le diverse concezioni della vita individuale e sociale e dei diritti inalienabili della persona umana. Per esempio, i diritti umani considerati nella concezione cattolica

palesano immediatamente una vertiginosa distanza rispetto ai diritti umani e civili nel senso rigoroso del termine, quello di “Amnesty International”, per intenderci, che è poi il senso storicamente affermato a partire dalla rivoluzione americana e da quella francese (Flores d'Arcais, 2004).

A proposito della formazione della cultura occidentale, credo che occorra partire da un'idea, sulla quale uno storico del valore di Jacques Le Goff è ritornato spesso con chiarezza nei suoi studi: l'identità europea si è costituita per stratificazioni successive e su un lungo periodo (Borelli, 2004). È questa la ragione principale per la quale non può certo dirsi che vi siano chiarezza e omogeneità sul modo di guardare alle radici comuni e alla comune identità dell'Europa.
Il primo strato è stato quello della cultura greco-romana portatrice dell'idea di democrazia, dello spirito scientifico, del metodo critico e dell'importanza del diritto. Il secondo strato, che molti, tra i quali lo stesso Le Goff, giustamente considerano essenziale, è lo strato medievale, con la diffusione dei valori giudeo-cristiani, la combinazione di unità europea e diversità nazionali: è questo lo strato del metodo scolastico e universitario, della filosofia scolastica, della nascita delle città, dell'equilibrio tra ragione e fede (Le Goff, 2004). Successivamente si sono sovrapposti lo strato scientifico dei secoli XVII e XVIII, lo strato dei Lumi del XVIII secolo, lo strato della rivoluzione francese, lo strato del romanticismo e quello dei lunghi progressi della democrazia e dell'affermarsi dei diritti, a partire dal XIX secolo: l'“età dei diritti” come è stata definita da Norberto Bobbio (1990a).
A proposito di ciascuno di questi “strati” occorrerebbe poi fare alcune necessarie precisazioni, al fine di non dimenticare molte importanti differenziazioni: così, quando si parla di civiltà greco-romana, occorre indagare – e lo ha fatto con ammirevole lucidità Piero Bellini in un saggio su Le radici culturali e religiose dell'identità europea (Bellini, 2005) – sui modi di realizzazione della congiunzione operativa fra due culture (fra due civiltà) distinte e tuttavia compiutamente compatibili. Giustamente Piero Bellini osserva che, se non si può certo dubitare che la visione individualistica dell'uomo è un portato culturale della modernità e non si può certo disconoscere il determinante apporto costruttivo dello spirito umanistico e rinascimentale, del giusnaturalismo, della filosofia dei lumi, dei principi rivoluzionari dell'89 e dell'esperimento liberale, non si può tuttavia negare che le radici profonde della scoperta della «unicità di ciascun uomo» vadano ricondotte alla speculazione filosofica più antica, già per sua parte giunta a teorizzare la superiore eccellenza dell'anima, concepita come un che di «strettamente individuale», di appartenente a «ciascun essere umano» proprio perché «essere umano» (Bellini, 2005, p. 3).

3. Cultura cristiana e cultura europea. Cristianesimo e laicismo nella formazione della cultura europea. – Pur non essendo possibile affrontare in questa sede la valutazione dei principali problemi che hanno caratterizzato la storia del continente europeo nel corso di molti secoli, può dirsi che certamente il cristianesimo (termine che va comunque inteso in senso molto esteso, andando dai greco-ortodossi fino ai luterani e ai cattolici, con in mezzo un ampio spettro di altre confessioni, comprese quella ebraica e quella musulmana) ha segnato la storia dell'Europa (Luiselli, 2004; Prinz, 2004): nel bene e nel male, occorre dire, pensando ai massacri che, per secoli, guerre e persecuzioni religiose hanno provocato.
Non vi è dubbio che sia necessario ribadire l'affermazione della centralità del cristianesimo nel processo di formazione dell'Europa; come giustamente si è osservato

Senza il cristianesimo noi non avremmo questa Europa (Luiselli, 2004, p. 582).

Non rappresenta certo una novità la tendenza a tradurre “cultura europea” in “cultura cristiana”: è sufficiente pensare alla fortuna che ha avuto la frase di Benedetto Croce ─ Perché non possiamo non dirci “cristiani” ─ con la quale nel 1942, in un breve articolo apparso nel volume XV della “Critica”, il grande filosofo, pur professandosi laico, avrebbe riconosciuto la fondazione storica della nostra identità (Gallini, 2004, spec. p. 395, ove l'a. osserva che comunque Croce esplicitava con chiarezza il primato dei valori laici da rivendicarsi quasi come una conquista identitaria).
Alternativa, rispetto alla tesi della coincidenza tra cultura europea e cultura cristiana, è l'opinione di chi all'opposto definisce cultura europea quella rinascimentale che sbocca nel liberalismo: secondo questa concezione l'uomo colto europeo è l'uomo liberale, tollerante, aperto a tutti i valori, l'uomo del dialogo, che ha convincimenti ma non dogmatismi, che ha una propria fede, non necessariamente religiosa, ma è rispettoso della diversa fede degli altri:

Che trova bello il mondo a condizione che accolga vari orientamenti, non uomini permeati tutti della stessa dottrina. Che respinge non solo l'idea di caste, ma quella di religioni o di culture nazionali, di tradizioni ed in genere di ricchezze spirituali buone per un popolo, non trasmissibili ad altri (Jemolo, 1955, p. 226).

Che il cristianesimo abbia avuto un ruolo centrale nella formazione della cultura europea è un'affermazione ovvia e che non può essere seriamente contraddetta. E tuttavia un'importanza essenziale per la formazione della cultura europea deve certamente riconoscersi anche alle concezioni, definite con le espressioni di laicità e di laicismo, consistenti nella tendenza ad escludere l'influenza della religione dalla vita e dalle istituzioni civili e politiche. Avviato nel secolo quattordicesimo da parte dei sostenitori dell'indipendenza dell'impero dal papato (ricordo tra gli altri Guglielmo di Occam e Marsilio da Padova), il laicismo è stato uno dei motivi fondamentali del pensiero moderno: si ritrova nel giusnaturalismo, nell'illuminismo, nel liberalismo dell'800, nel Kulturkampf tedesco (la battaglia condotta negli anni 1871-'79 da Bismark contro la chiesa cattolica e il partito cattolico del centro, consistente nella previsione di rigidi controlli statali sulle istituzioni educative e nelle misure di espulsione di vari ordini religiosi).
Caratterizzato da un iniziale anticlericalismo, il laicismo si è sviluppato in forme più articolate e alcune sue tesi relative al principio di indipendenza dello stato in materia religiosa sono state assunte dal pensiero religioso contemporaneo. Costituisce un'importante conquista del pensiero laico l'affermazione che, se è certamente necessario che gli stati non interferiscano nelle scelte confessionali dei loro cittadini, è però anche necessario che le chiese non interferiscano nelle scelte (legislative, amministrative e giurisdizionali) degli stati: la laicità degli ordinamenti, la distinzione tra “peccato” e “reato”, tra “norma morale” e norma giuridica, rappresentano la migliore difesa possibile anche per la garanzia delle libertà di religione e verso la religione.
Certo l'espressione laicità è un'espressione dai mille sensi e significati e non ne esistono definizioni o acquisizioni definitive, se si escludono i consueti riferimenti alla prassi del confronto e alla reciproca preliminare disposizione all'ascolto, al riconoscimento permanente delle differenze e alla finalità “inclusiva” dell'altro nel duplice contesto dell'eguaglianza e della diversità (Ottino, 2004). Considerando il problema della laicità dal punto di vista degli stati e delle organizzazioni internazionali, un utile contributo al dibattito può provenire da parte di chi si impegna ad approfondire il significato dei principi di uniformità e di differenziazione (Carloni, 2004). È infatti evidente che in applicazione del principio di laicità

armonizzare le diversità, senza distruggere le specificità individuali o comunitarie, diventa [ … ] un obbligo morale oltre che una necessità politica ed amministrativa (Eckert Cohen, 2004).

A proposito dei vari significati che può assumere il concetto di laicità, può qui ricordarsi che, con la sentenza n. 203 del 1989, la nostra corte costituzionale ha inteso affermare l'esistenza nel nostro ordinamento della c.d. laicità positiva, quella cioè della

non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.

La corte costituzionale non ha invece accolto la concezione della laicità-neutralità, coerente con una idea della laicità che comporta l'irrilevanza per lo stato dei rapporti derivanti dalle convinzioni religiose dei suoi cittadini, nel senso di considerarli fatti privati da affidare esclusivamente alla coscienza dei credenti.
Tale concezione della laicità era bene espressa dalla formula del settimo principio fondamentale della costituzione della repubblica romana del 1849, nel quale si stabiliva che l'esercizio dei diritti privati e pubblici dei cittadini non avrebbe dovuto dipendere dalla loro credenza religiosa (Lariccia, 2019).
La chiesa cattolica tende spesso a svuotare del suo contenuto la parola laicità, un obiettivo che risulta chiaro se si valutano molti documenti ecclesiastici che riguardano tale questione: a titolo d'esempio ricordo la nota dottrinale che, nel novembre 2002, la congregazione cattolica per la dottrina della fede ha rivolto ai politici italiani, nella quale si legge:

Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa,

brano nel quale la chiara affermazione sull'esclusione della sfera morale dall'autonomia rispetto alla sfera civile e politica fa comprendere quali e quanti problemi si pongono in tema di rapporti tra morale civile e morale religiosa e tra società civile e società religiosa, per ricordare il titolo di un fortunato volume di Arturo Carlo Jemolo (1959). Il punto di vista delle gerarchie cattoliche, quando parlano di “sana laicità”, è che separazione della religione dalla politica non significa separazione fra la morale e la politica e che la chiesa cattolica è l'autorità divina, ultima e legittima, che definisce la verità in tema di moralità e che stabilisce ciò che è giusto in politica.
Se con riferimento al concetto di laicità non vi sono certezze, considerando che, per l'uomo laico, il dubbio è la condizione naturale dell'uomo che non voglia rinunciare alla ragione, può ritenersi tuttavia che vi sia una forte condivisione nel considerare la ragionevolezza, l'antidogmatismo, la tolleranza e il dialogo come tratti essenziali del pensiero laico, nel precisare che le garanzie della laicità sono soprattutto assicurate dai sistemi politico-giuridici che prevedono la democrazia e il pluralismo e nell'affermare che occorre guardare con diffidenza rispetto alle tesi che si propongono di privilegiare la posizione delle identità collettive rispetto ai singoli individui (Bovero, 2004).
Con riferimento a questi aspetti vediamo ora di inquadrare alcuni temi e problemi, anche di carattere storico, che meglio li chiariscono.

4. Ragionevolezza, antidogmatismo, tolleranza, dialogo. – Dopo che per millenni gli uomini prima si erano fatti guidare dai loro impulsi e poi erano vissuti nel mito, accettando le consuetudini locali delle società in cui vivevano, in seguito, nell'antico popolo greco, emerse la volontà di dubitare di ogni impulso e di ogni consuetudine: a questa volontà i greci hanno dato il nome di “filosofia”, espressione che può considerarsi un sinonimo di “spirito critico”. È bene tenere presente che alla base della libertà, della democrazia, del rispetto del diritto e della dignità dell'uomo che la costituzione europea dichiara di promuovere, c'è quello spirito critico, cioè la lotta contro le tirannidi che esigono la cieca accettazione dei loro principi, criteri e orientamenti (Severino, 2004).
Con il termine “laicismo” si indica l'atteggiamento di coloro che sostengono la necessità di escludere le dottrine religiose, e le istituzioni che se ne fanno interpreti (Lariccia, 1967a), dal funzionamento della cosa pubblica in ogni sua articolazione (Tortarolo, 1996).
Dal punto di vista storico il laicismo è nato nel contesto della storia politica dell'Europa occidentale ed ha assunto forme diverse a seconda delle varie configurazioni dei rapporti tra istituzioni statali ed ecclesiastiche; esso assume un diverso significato rispetto al fenomeno, assai importante nella storia e nella valutazione sociologica della società europea, della secolarizzazione (Magris, 2004), intesa come processo di diminuita rilevanza della religione nella vita sociale e pertanto la vicenda storica del laicismo può essere analizzata in modo autonomo (Tortarolo, 1996, p. 157).
Nel linguaggio politico contemporaneo, il laicismo si contrappone al confessionalismo, al clericalismo e al fondamentalismo (Bernardini, 2010, p. 65), secondo i quali, con differenze e analogie nell'uso delle tre espressioni, le istituzioni politiche devono essere collegate al rispetto obbligatorio per tutti dei principi religiosi della chiesa dominante. Poco meno di cento anni fa, nel 1907, nel parlamento italiano un sacerdote, deputato radicale e fondatore della democrazia cristiana, don Romolo Murri, dichiarava:

Se essere anticlericale ha il senso pienamente negativo di essere contro il clericalismo, certo io sono anticlericale. Ma io sono agli antipodi degli anticlericali dell'estrema sinistra, poiché io sono anticlericale principalmente nel nome e per la tutela degli interessi religiosi:

parole che dimostrano quel che spesso si afferma a proposito della possibilità di riscontrare atteggiamenti di consapevole spirito laico anche in ambienti religiosi.
Una forma di dualismo è

la premessa storica allo sviluppo del pensiero laico, che è impossibile immaginare in un contesto politico-religioso improntato al cesaropapismo o dominato dall'identità di Stato e Chiesa (Tortarolo, 1996, p. 157).

L'avvento dello stato moderno influì profondamente sull'originaria concezione unitaria del potere politico: la nozione stessa di respublica christiana, considerata quale unico punto di riferimento della potestà sovrana in Europa, anche se ripartita fra l'impero e la chiesa cattolica, venne meno con il riconoscimento dell'esistenza di una pluralità di stati sovrani e si affermarono il principio della parità degli stati e la regola della loro sovranità: è nel quadro di questa evoluzione che la chiesa cattolica, come è avvenuto per la maggior parte delle altre chiese, pur se tenacemente impegnata nella difesa del suo potere temporale, ha dovuto gradualmente limitare il suo campo d'azione alla sfera dei rapporti spirituali (Pizzorusso, 2002, spec. pp. 124-25).
Il pensiero e l'atteggiamento di quanti si professano laici riconoscono nella separazione tra la sfera pubblica della politica e la sfera privata della vita religiosa una condizione necessaria per la dignità dell'uomo e per il libero esplicarsi di tutte le sue capacità. Il laicismo deve dunque ritenersi un orientamento tendenzialmente individualista e razionalista, con un riferimento tuttavia più ampio e comprensivo rispetto a quello della tematica religiosa, potendosi esso ritenere una concezione della cultura e della vita civile basata sulla tolleranza delle credenze di tutti e sul rifiuto del dogmatismo in ogni settore della vita sociale.
Un elemento essenziale del pensiero laico è stato individuato nel principio della tolleranza, detto anche principio del “dialogo”, a proposito del quale Guido Calogero, uno dei maggiori studiosi della filosofia del dialogo, così si esprimeva nel 1960:

Si tratta non già di scoprire una religione o una filosofia universale al disopra delle religioni e delle filosofie particolari che si contrappongono nel mondo, e neppure di vagheggiarle tutte allo stesso modo in una loro imbalsamazione da museo, ma bensì di vedere se, e in che misura, nelle singole culture, sia presente quel fondamentale principio della tolleranza, o principio del dialogo, secondo cui il rispetto, e la volontà di comprensione, per le culture e filosofie e religioni altrui, è ancora più importante, ai fini della civile convivenza di tutti, del sincero convincimento della verità delle idee proposte (Calogero, 1967a, p. 72).

Storicamente il principio di tolleranza nasce come reazione alle persecuzioni religiose e prepara gradualmente la separazione della sfera politico-statale dalla sfera religiosa e l'affermazione della libertà di coscienza e della libertà di pensiero. Il principio del dialogo si è venuto sempre più affermando nella filosofia contemporanea e, nelle più diverse situazioni di cultura e di pensiero, vale per qualsiasi coscienza rispettosa di sé e delle altre coscienze: vale, o dovrebbe comunque valere, anche per ogni cattolico consapevole che la convivenza civile comporta pure, come è ovvio, esigenze di coesistenza con i non cattolici e i non credenti.
È un principio, quello della tolleranza, le cui origini devono farsi risalire all'umanesimo del XVI secolo, che trova la sua massima espressione nel periodo dell'illuminismo del XVIII secolo e che diviene in seguito parte integrante del pensiero liberale. Giustamente si è osservato in proposito che alle origini la tolleranza non aveva un significato propriamente libertario, ma alludeva a una scelta di opportunità, compiuta dal sovrano in nome della pace sociale e che tale scelta si opponeva alla politica di repressioni dei dissenzienti, ma non riconosceva alcune dignità al dissenso o all'eresia e aveva insomma il carattere di una concessione revocabile in ogni momento (Manetti, 2000, p. 460).

5. Controllo delle coscienze e riconoscimento della libertà di coscienza. – Nel giugno dell'anno 2003 il pontefice Giovanni Paolo II rinnovò il mea culpa per gli orrori dell'inquisizione, confermando la posizione assunta in alcuni suoi precedenti interventi in occasione del giubileo. Il papa ha chiesto perdono per lo

spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo

e ha ribadito che

è giusto che la Chiesa si faccia carico del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell'arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo.

La storia ha dimostrato che il problema della costrizione esercitata in materia di fede non si è limitato alle sue forme più evidenti: la tortura e la morte; per un lungo periodo ci sono state forme di violenza meno evidenti e più profonde, che si sono esercitate sistematicamente sulle coscienze, nel momento della confessione sacramentale. Prima in maniera sporadica, poi, a partire dal 1559 e per volontà di Paolo IV, in maniera sistematica e capillare, tutti i cristiani che si recarono a fare la confessione dei loro peccati furono interrogati preliminarmente su eventuali loro reati o semplici conoscenze di reati di eresia o letture di libri proibiti. E, se qualcosa emergeva, venivano rinviati al tribunale dell'inquisizione per fare formale denunzia o auto-denunziarsi. Come ha osservato Adriano Prosperi, tra i maggiori studiosi dei problemi dell'inquisizione, se la violenza della tortura o del patibolo spezzava i corpi, la violenza morale esercitata attraverso la subordinazione della confessione all'inquisizione spezzò le coscienze; e lo fece indiscriminatamente su tutta la popolazione in età di confessione.
Il sacramento della confessione assumeva quindi una funzione sociale perché essa non riguardava soltanto il rapporto degli essere umani con Dio ma mirava anche, direttamente o indirettamente, a modellare la loro condotta e i loro rapporti sociali, in una prospettiva nella quale la disciplina delle anime era destinata ad influire sempre più sulla condotta sociale e sull'ordine pubblico (De Boer, 2004, p. 71).
Per un lungo periodo la sfera pubblica e la sfera privata rimasero così intrecciate che il potere pubblico e il potere ecclesiastico continuarono a esercitare un intenso controllo delle coscienze individuali: era allora inimmaginabile una concezione che consentisse di porre il problema della libertà di coscienza.
La libertà di coscienza, definibile come

la libertà per l'individuo di agire, nella propria condotta esterna, rilevante ai fini della regolamentazione normativa, in conformità ai dettami della propria coscienza (Margotta Broglio, 1967, p. 32),

viene intesa non nel senso di un aspetto particolare del diritto di libertà religiosa, ma come libertà autonoma, più ampia della libertà religiosa e, in un certo senso, precedente tale libertà; la garanzia della libertà di coscienza riguarda l'esercizio di una libertà che deve essere idonea a ricomprendere ogni possibile atteggiamento dell'individuo imputabile alla sua coscienza e che assume un significato sul piano giuridico quando non si risolve nell'ambito della sfera meramente individuale (Lariccia, 1989a, 1989b; Tardiola, Lariccia, 1999).
La corte costituzionale italiana ha riconosciuto il diritto alla libera formazione della coscienza, senza influssi di natura familiare, ambientale, sociale o istituzionale, nelle sentenze n. 409 del 1989, n. 467 del 1991 e n. 149 del 1995.
Il riconoscimento della libertà di coscienza significa che lo stato si impegna a non esercitare alcuna costrizione della coscienza individuale, ritenendosi unicamente ammissibili forme eventuali di limitazione che trovino il loro fondamento nelle disposizioni che le prevedono. I poteri pubblici non devono dunque proporsi di influenzare le decisioni di coscienza del singolo o di collegare ad esse privilegi o svantaggi.

6. La democrazia pluralista. Un cenno al problema della scuola laica in Europa. –Nella maggior parte dei paesi d'Europa la nozione di tolleranza verso le idee e le credenze, non soltanto religiose, che costituisce uno degli aspetti essenziali del concetto di laicità, ha trovato la sua realizzazione nella garanzia del pluralismo, che può intendersi come

il diritto di ciascuno e di tutti non solo di credere, ma di perseguire in forma organizzata le proprie convinzioni, senza alcun limite di ordine pubblico ideale (Manetti, 2000; sull'organizzazione e la rappresentanza degli interessi religiosi, Lariccia, 1967a; sulla nozione di ordine pubblico, con specifico riferimento alla costituzione italiana del 1948, Pace A., M. Manetti (2006).

Per comprendere il pluralismo di oggi, e valutare i caratteri che esso assume in Europa nelle società democratiche contemporanee, è necessario riconsiderare la storia europea dell'età moderna, età in cui gli stati si erano ormai consolidati e tutti avevano in comune tra loro un principio fondamentale: un re, una legge, una fede. Per la mentalità di allora, dominata dall'idea e dal principio dell'unità, risultava praticamente impossibile accettare il diverso, il non-conforme, l'a-normale e l'idea di tolleranza non era concepibile, perché sui valori ultimi, quelli religiosi, non si poteva transigere: di qui i roghi in Europa e le guerre civili in Francia, in Germania e in Inghilterra. Ma vi furono anche uomini che intuirono che era necessario trovare delle soluzioni, e che occorreva cominciare a credere nella tolleranza e nell'accettazione del diverso: solo in seguito il pluralismo trasformò il principio della tolleranza in quello della libertà religiosa (Bobbio, 1990b; Matteucci, 1996).
Anche se il processo storico di differenziazione culturale e sociale di cui il pluralismo è espressione è assai antico, le teorie pluralistiche possono ritenersi un prodotto del novecento e assumono grande importanza per potere comprendere il movimento di reazione contro il monismo statalistico e per potere valutare la sfida che il terzo millennio pone al pluralismo, che è quella delle società multiculturali e multietniche: una sfida densa di rischi e di pericoli, ma anche di grandi potenzialità per il futuro dell'umanità.
Perché il principio del pluralismo possa concretamente realizzarsi sul piano istituzionale, occorre la realizzazione di una complessiva unità nella tutela delle diversità: obiettivi al quale, nei regimi democratici, tendono i principi di eguaglianza e di solidarietà e le garanzie delle libertà di espressione e di manifestazione del pensiero.
Una considerazione particolare merita il tema della scuola al quale mi limito qui ad accennare. Soltanto una scuola veramente laica, che rispetti cioè tutte le fedi senza privilegiarne alcuna, è in grado di operare su un piano di parità e cioè con piena legittimità costituzionale.
Il pluralismo religioso e culturale, sulla cui importanza nel sistema costituzionale italiano possono leggersi le sentenze della corte costituzionale 12 aprile 1989, n. 203e 14 gennaio 1991, n. 13, può realizzarsi soltanto se le istituzioni scolastiche rimangono imparziali di fronte al fenomeno religioso. L'imparzialità delle istituzioni scolastiche pubbliche di fronte al fenomeno religioso deve realizzarsi attraverso la mancata esposizione di simboli religiosi piuttosto che attraverso l'affissione di una pluralità di simboli, che – come si osservava giustamente nell'ordinanza emessa nel 2004 dal giudice Montanaro, di Ofena in Abruzzo – non potrebbe in concreto essere tendenzialmente esaustiva e comunque finirebbe per ledere la libertà religiosa negativa di coloro che non hanno alcun credo.

7. Identità collettive e diritti degli individui. – L'espressione identità europea fa riferimento alla nozione di identità collettiva. Occorre riconoscere che non pochi problemi nascono, per l'attuazione del metodo della laicità, dalla continua ricerca di identità sociali e collettive, e dalla pretesa che ad esse vengano riconosciuti diritti e, talora, privilegi, se si tiene presente che da sempre la scena del mondo è dominata da conflitti tra soggetti collettivi che identificano “sé” e “gli altri” in base a (pseudo) categorie etnico-cultural-religiose; l'impegno prioritario, per chi crede nei valori della laicità, consiste nel reagire alla tentazione di “pensare per gruppi”, per identità collettive, rivestendo di (presunte) divise etiche o, peggio, etico-etniche, singoli individui, dei quali il pensiero laico deve invece sempre proporsi di promuovere l'emancipazione, di proteggere l'indipendenza morale, di garantire l'autonomia e di disciplinare la responsabilità (Bovero, 2004).
Se si considera la differenza tra il principio del pluralismo istituzionale e il principio del pluralismo individuale, si devono quanto meno ricordare le difficili questioni che riguardano la concreta possibilità per gli individui di operare liberamente all'interno delle formazioni sociali organizzate nella società.
Il rischio di perdere di vista l'obiettivo della garanzia dei diritti individuali si presenta soprattutto quando si riconoscono diritti e garanzie a soggetti collettivi, si assicurano per esempio le libertà – e non soltanto la libertà religiosa – alle comunità, anche se queste al proprio interno, con l'organizzazione delle strutture e con l'azione delle persone che vi esercitano l'autorità, sono spesso intolleranti e oppressive nei confronti degli individui che ne fanno parte.
La questione è resa più complicata per quelle particolari formazioni sociali che si definiscono confessioni religiose, perché non si può dimenticare che tutte le fedi monoteiste tendono a imporsi sulle altre e a credere che le loro verità siano le uniche verità e i loro testi siano i soli testi universali.
In proposito occorre riconoscere che le parole nascondono troppo spesso la realtà e che la realtà è assai diversa da quella chi ci si propone di offrire. Le molte parole pronunciate in occasione di alcuni convegni interreligiosi presentano talora una uniformità rappresentata dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle confessioni religiose che, senza esclusione alcuna, esprimono la convinzione che la loro è una religione di pace e che il male, la cui esistenza nel mondo è certamente impossibile negare, rappresenta tuttavia qualcosa di estraneo all'ambito della rispettiva confessione. L'esperienza storica e la valutazione di quel che avviene realmente insegnano invece che tutti – cristiani, ebrei, musulmani – hanno fatto nei secoli e fanno la guerra, uccidendo spesso in nome di Dio. La verità dunque è che da sempre si sono fatte guerre in nome della religione, anche se molti tendono a dimenticarlo e sperano che gli altri lo dimentichino (C. Pasolini, 2004).

8. Il contributo del diritto. – Se è impossibile prevedere che le varie religioni rinuncino a imporre i loro testi come verità assolute, dovrebbe trarsi la conclusione che regole comuni per la loro coesistenza vadano ricercate e trovate al loro esterno. È questa una delle funzioni del diritto, soprattutto negli ordinamenti che garantiscono la regola dello stato di diritto che si fonda sui tre pilastri fondamentali della divisione dei poteri, della supremazia della legge, dei principi di libertà e uguaglianza (Bin, 2004; Bin, Chessa, 2019).
È importante qui ricordare che il concetto dello “stato di diritto” è stato menzionato, nell' art. I-2 della costituzione europea, come uno dei valori sui quali si fonda l'unione europea e che, nel preambolo, la prima affermazione è quella che esprime la consapevolezza che gli abitanti dell'Europa

hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell'umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione.

Si tratta di novità molto importanti se si considera che, come si è giustamente osservato, l'ideale laico comporta l'attuazione concreta dello stato di diritto e quindi il perfezionamento delle nostre democrazie (Pegna, 2004).
Se si tiene presente l'evoluzione multi-culturale e multi-etnica delle società europee contemporanee, nelle quali tende ad accrescersi il rischio delle tendenze disgregative, è necessario riaffermare

la necessità di una più attenta realizzazione del principio di certezza del diritto, inteso in senso procedurale e sostanziale, come garanzia dei canoni minimali di regolazione dei modi della coesistenza civile (Rimoli, 2000).

Come ogni giurista sa bene, le norme giuridiche sono fatti che hanno pesanti conseguenze, nel senso che le parole usate e le formule adottate nelle norme medesime hanno un peso notevole perché esse, al di là delle intenzioni dei proponenti delle varie disposizioni normative, portano sempre a risultati concreti, positivi o negativi: ed è proprio per questa ragione che deve accogliersi con giustificata soddisfazione la conclusione del lungo dibattito che nel nostro paese ha riguardato l'inserimento delle radici religiose nel preambolo della costituzione europea; si comprende infatti quali fossero le ragioni e i timori di coloro che, giustamente, hanno evitato di inserire nella costituzione europea il riconoscimento delle radici cristiane. Indipendentemente dalle intenzioni, è assai breve il tragitto che da questo riconoscimento avrebbe condotto a quello della sopravvivenza di tali radici e dunque all'affermazione che l'Europa è un'entità cristiana, con l'inevitabile conseguenza che una condotta di vita non cristiana o l'approvazione di una norma, per esempio in materia di aborto o di matrimoni di omosessuali, contrastante con le aspettative di una chiesa cristiana sarebbero state ritenute una violazione della costituzione europea. Giustamente ha osservato in proposito Emanuele Severino che è un'affermazione dello spirito critico che l'Europa non abbia i suoi patti lateranensi (Severino, 2004).
Per quanto riguarda le costituzioni d'Europa, è necessario ricordare che, a differenza di altre costituzioni, il principio di laicità come elemento fondante dello stato, non è espressamente contemplato nella costituzione italiana del 1948, così come il principio di laicità non è espressamente contemplato nelle costituzioni europee diverse da quella francese, nella carta dei diritti approvata a Nizza nel 2000 e nella costituzione europea del 2004; si osserva talora che il “valore” della laicità è richiamato espressamente dalla costituzione italiana, ma tale affermazione richiede un'attenta valutazione e pone non pochi dubbi, considerando che indubbiamente la costituzione italiana, nell'art. 7, comma 1, prevede il principio dell'indipendenza tra stato e chiesa cattolica ma la previsione del richiamo dei patti lateranensi, con gli elementi di confessionalità che essi contengono, non consente purtroppo di aderire alla tesi della piena laicità dell'ordinamento costituzionale italiano.
E tuttavia il principio di laicità, soprattutto se inteso nella sua accezione originaria come separazione della sfera dello stato da quella propria delle chiese, può essere dedotto dal sistema di democrazia pluralista previsto in molte delle costituzioni europee. Lo stesso può dirsi per la convenzione europea dei diritti dell'uomo sottoscritta a Roma nel 1950, per la carta dei diritti approvata a Nizza il 15 dicembre 2000 e per la costituzione europea del 19 giugno 2005: testi costituzionali che non prevedono espressamente il principio di laicità e che tuttavia fanno riferimento a regole e principi dai quali si può dedurre la pratica applicazione dei valori di laicità.
Non mi posso dilungare sul punto, ma è certamente opportuno ricordare che le disposizioni che prevedono l'uguaglianza e le libertà dei cittadini e la doverosa osservanza del diritto nel sistema giuridico dell'unione europea consentono di parlare di un “patrimonio costituzionale” comune il cui rispetto rappresenta la migliore garanzia per assicurare lo stesso principio di laicità: principio che può oggi essere inteso come principio generale degli ordinamenti e si riferisce a un modello di neutralità attiva dello stato laico che

impone a quest'ultimo, non solo in campo religioso, di favorire l'espressione di tutte le possibili istanze (ideologiche, politiche, religiose, culturali), impedendo tuttavia l'affermarsi – non già l'esprimersi – di quelle che, per la loro intrinseca natura, abbiano uno scopo di prevaricazione derivante da un atteggiamento di integralismo esclusivo (Rimoli, 1990b).

9. L'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo. – La valutazione delle questioni riguardanti la tutela di ogni diritto e dunque anche dei diritti civili nei sistemi di garanzia esistenti nei paesi europei si collega direttamente con il problema consistente nell'esigenza di uniformare il più possibile tali sistemi in modo che i diritti e gli interessi dei cittadini europei siano tutelati con la stessa efficacia in tutto il territorio della comunità (Panunzio, 2005a, 2005b).
In questo scritto, è necessario richiamare l'attenzione sull'art 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, che garantisce a tutti la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (Lariccia, 2001b). Durante i lavori preparatori che hanno preceduto l'approvazione di tale norma, molte difficoltà derivarono dall'esigenza di tenere conto delle diverse situazioni esistenti nei vari stati, che al diritto di libertà religiosa e al diritto di manifestazione del pensiero apportavano intense limitazioni collegate alle ragioni storiche che le avevano determinate (Margiotta Broglio, 1967, p. 13).
Con riferimento alla formula adottata nell'art. 9, che, a prima vista, ha un contenuto identico a quello dell'art. 18 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (Morviducci, 1990), la commissione europea per i diritti umani e la corte unica europea, dopo che la commissione è divenuta non più operante in virtù dell'adozione del protocollo n. 11 entrato in vigore nel novembre del 1998, hanno definito l'ambito specifico di ciascuna delle libertà riconosciute nella disposizione e hanno stabilito il principio, in essa espressamente contemplato, che la suddetta disposizione assicura anche la libertà di cambiare religione o convinzione e tutela il diritto di esercizio del culto (Margiotta Broglio, 1967, 1995, 1997; Musselli, 1975; Morviducci, 1988; Belgiorno De Stefano, 1989; Starace, 1992; Martinez Torron, 1993, 1994; Scovazzi, 1994, 1997; Cannone, 1996; Carobene, 1998; De Salvia, 1998; Parisi, 1999; Ceccanti, 1999).
Per una corretta interpretazione dell'art. 9 conv. occorre tenere presente il I protocollo addizionale firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (ratificato in Italia con la stessa legge che ha reso esecutiva in Italia la convenzione: legge 4 agosto 1955, n. 848): l'art. 2 del protocollo prevede il seguente principio:

Il diritto all'istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell'esercizio delle funzioni che assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento in modo conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche (Morviducci , 1990, p. 6).

Le possibilità di porre limiti alle libertà indicate nella disposizione sono stabilite nel secondo comma dell'art. 9. Può essere soggetto a limitazioni soltanto il diritto di manifestare la propria religione o il proprio credo e, come vedremo, sono espressamente indicati i motivi delle eventuali limitazioni.
La convenzione stabilisce, nell'art. 14, che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella convenzione medesima deve essere assicurato senza alcuna distinzione di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni politiche o di altra natura, origine nazionale o sociale, fortuna o nascita, appartenenza a una minoranza: è questa una disposizione di grande importanza nella prospettiva di una maggiore tutela delle libertà di religione, in quanto in essa viene espressamente garantita l'eguaglianza giuridica, con la conseguenza che il diritto di libertà religiosa è fondato su due principi di carattere generale: il principio generale e fondamentale, contenuto nell'art. 14, della non-discriminazione e dell'eguaglianza giuridica di tutti gli individui senza alcuna distinzione e il principio, affermato in particolare nell'art. 9, della piena libertà di pensiero, di coscienza e di religione (Margiotta Broglio, 1967, p. 29; Parisi, 1999, p. 244). È anche da considerare l'art. 11 della convenzione, che riconosce la libertà di riunione e di associazione, garantendo dunque anche le manifestazioni collettive del culto.
Un'ulteriore garanzia a tutela di eventuali distinzioni di religione è individuabile nella versione consolidata del trattato che istituisce la comunità europea, il cui art. 13 (ex art. 6 a) prevede che fatte salve le altre disposizioni del trattato medesimo, e nell'ambito delle competenze da esso conferite alla comunità,

il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età e le tendenze sessuali.

L'art. F del trattato sull'unione europea del 7 febbraio 1992 stabilisce, nel § 2, che l'unione europea rispetta tutti i diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea del 1950, come risultano dalla tradizione costituzionale degli stati membri, in quanto assurgano a principi generali di diritto comunitario.
La garanzia contemplata nell'art 9 conv. è stata giustamente considerata dalla corte europea dei diritti dell'uomo come uno dei fondamenti di una “società democratica” (cfr. corte, 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia, Serie A, n. 260: la sentenza è pubblicata in “Rivista diritto internazionale”, 1993, p. 785 ss. e in “Quaderni dir. e politica eccl.”, 1994, p. 734 ss.). In proposito la corte ha sottolineato che la dimensione religiosa considerata nell'articolo costituisce uno degli elementi più vitali per la identità e la concezione di vita dei credenti in una fede religiosa, ma che, al contempo, l'art 9 rappresenta una tutela di grande rilevanza per atei, agnostici, scettici e disinteressati. Il pluralismo, necessario in ogni società democratica, dipende dalla previsione e dall'attuazione del principio indicato nell'art 9.
Con l'esplicito riconoscimento della libertà del pensiero, gli stati della convenzione si sono imposti il divieto dell'indottrinamento, considerato quest'ultimo nel senso di un insegnamento o condizionamento a carattere obbligatorio nei confronti della popolazione, inclusa la gioventù. La previsione di religioni che uno stato intendesse imporre obbligatoriamente nei confronti dei suoi cittadini costituirebbe una violazione dell'art 9. La corte di giustizia, nella sua fondamentale decisione emessa a proposito dell'educazione sessuale a scuola, ha dedotto il divieto dell'indottrinamento nelle strutture scolastiche dal combinato disposto degli art. 8, 9 e 10 della convenzione europea per i diritti umani (sull'art. 10, Zanghì, 1969). La garanzia della libertà di pensiero, che è il primo diritto di libertà contemplato nell'art. 9, rivela con chiarezza l'intento di esprimere una valutazione favorevole nei confronti di ogni stato che non imponga al suo cittadino alcuna convinzione (“Weltanschauung”) o religione positiva. La convenzione europea per i diritti umani non contiene un esplicito divieto della “chiesa di stato”, ma l'interpretazione della disposizione in tema di libertà religiosa induce a escludere con certezza che lo stato possa imporre ai suoi cittadini l'appartenenza a una particolare confessione religiosa. Attraverso la libertà del pensiero è tutelata la libertà di fede negativa dell'ateo, del libero pensatore e del nonconformista: come ha precisato la commissione europea per i diritti dell'uomo nel 1978, è anche protetto il pacifismo, ritenuto una filosofia rientrante nel concetto di “belief” (commissione, rapporto 12 ottobre 1978, Arrowsmith c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 19, pp. 5-64). La commissione ha anche deciso che l'art 9 tutela i cittadini degli stati da ogni indottrinamento religioso nella scuola e che devono essere create possibilità di esenzione da insegnamenti con carattere religioso (commissione, dec. 3 dicembre 1986, Angeleni c. Svezia, in “Décisions et rapports”, 51, pp. 41-61).
La libertà di coscienza, definibile come

la libertà per l'individuo di agire, nella propria condotta esterna, rilevante ai fini della regolamentazione normativa, in conformità ai dettami della propria coscienza (Margiotta Broglio, 1967, p. 32),

impegna gli stati aderenti alla convenzione a non esercitare alcuna costrizione della coscienza individuale, ritenendosi unicamente ammissibile un'eventuale limitazione che trovi un suo fondamento nell'art. 9, comma 2 o in altri articoli della convenzione medesima.
Non risulta che vi siano state decisioni che abbiano espressamente applicato l'art. 9 della convenzione, con specifico riferimento alla libertà di coscienza. La commissione ha tuttavia ritenuto giustificata la punizione nei confronti di alcuni obiettori del servizio militare che, per motivi di coscienza, avevano rifiutato il servizio sostitutivo, poiché l'art 4, comma 3, lett. b) riconosce esplicitamente l'obbligatorietà del servizio sostitutivo (commissione, dec. 5 luglio 1977, X. c. Repubblica federale di Germania, in “Décisions et rapports”, 9, pp. 196 -205). La previsione del servizio sostitutivo al servizio militare come mera facoltà per gli stati ha indotto la dottrina a negare l'esistenza di un “diritto” all'obiezione di coscienza (Jacobs, 1975; Ergec, 1992, p. 11). In due occasioni l'assemblea parlamentare del consiglio d'Europa, con la risoluzione n. 337 del 1967 e con la raccomandazione n. 816 del 1977, ha affermato che la libertà di coscienza garantita dall'art. 9 implica il diritto di rifiutare la prestazione del servizio militare, invitando il comitato dei ministri a includere espressamente tale diritto nel sistema della convenzione; e il parlamento europeo ha adottato il 7 febbraio 1983 una risoluzione nella quale si chiedeva agli stati membri della CEE di adeguare le legislazioni nazionali al rispetto di tale principio.
Nel caso riguardante alcuni detenuti nell'Irlanda del nord, i quali sostenevano che, essendo prigionieri politici o di guerra, la coscienza vietava loro di indossare la divisa carceraria, la commissione ha osservato che dall'art 9 della convenzione non si deduce alcun diritto a uno status speciale in carcere (commissione, dec. 15 maggio 1980, McFeeley et al. c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 20, pp. 44-160, spec. pp. 76-7, 133-134): la commissione non ha ritenuto di precisare se nella fattispecie si trattasse di un problema riguardante la coscienza individuale, ma, come giustamente si è osservato, la decisione deve essere interpretata nel senso che la commissione non deduce dall'art. 9 alcun diritto a privilegiare colui che, in base a una decisione di coscienza, rifiuta un obbligo di carattere esteriore, come quello di indossare la divisa carceraria (in tal senso, cfr. Frowein, 1995, p. 354).
In numerose circostanze la commissione ha ritenuto di dovere ricorrere al principio della libertà di coscienza per valutare leggi riguardanti gli obblighi di voto, dovendosi ritenere che nessuno possa ritenersi obbligato a votare in un determinato senso in contrasto con la sua coscienza. La possibilità di obiezione fiscale per motivi di coscienza è stata chiaramente negata da parte della commissione (dec. 14 maggio 1984, E. & G.R. c. Austria, in “Décisions et rapports”, 37, pp. 42-49).
Particolare importanza assume in proposito l'affermazione della commissione nel caso Arrowsmith, con riferimento al quale essa ha precisato:

Article 9 primarily protects the sphere of personal beliefs and religious creeds, i.e. the area which is sometimes called the forum internum. In addition, it pretects acts which are intimately linked to these attitudes, such as acts of worship or devotion which are aspects of the practice of a religion or belief in a generally recognised forum (rapp. 12 ottobre 1978, Arrowsmith c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 19, pp. 5-64).

Con riferimento a tale affermazione della commissione, van DIJK ha osservato che la frase “acts which are intimately linked to these attitudes [ ... ]” probabilmente si riferisce all'ultima parte dell'art. 9, comma 1, che garantisce la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero, mentre la frase “the sphere of beliefs and religious creeds, i.e. the area which is sometimes called the forum internum [ ... ]” si ricollega alla prima parte della disposizione, che prevede e tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e la libertà di mutare la propria religione e il proprio credo: questo significa che, nell'orientamento seguito dalla commissione, la libertà di coscienza attiene soltanto a una garanzia del forum internum e della libertà “interiore” di coscienza (van DIJK, 1998, p. 540).
Qualunque sia l'opinione sostenuta dalla commissione, è comunque da ribadire che le esigenze di tutela di quella specifica libertà che si definisce come libertà di coscienza, richiedono che sia al massimo grado assicurata la libertà per l'individuo di “agire”, di porre dunque in essere atti e comportamenti, in conformità ai dettami della propria coscienza: per valutare quindi entro quali limiti la libertà di coscienza possa essere fatta valere nei confronti di divieti delle autorità pubbliche e private, occorre precisare che la garanzia contemplata nella disposizione della convenzione qui considerata deve essere idonea a ricomprendere ogni possibile atteggiamento dell'individuo imputabile alla sua coscienza (per una precisazione di alcuni problemi e concetti qui esaminati cfr. Lariccia, Tardiola, 1999).
La libertà di religione contenuta nella prima parte dell'art 9, comma 1 considera unicamente il diritto di avere una religione, nonché il diritto di professarla, mentre il suo esercizio è disciplinato nella seconda parte del comma medesimo. Lo stato non deve né prescrivere religioni né vietarle: evidentemente l'espressione “religione” non può essere interpretata nel senso di riferirla soltanto alle grandi religioni. La religione tuttavia deve essere identificabile come tale: infatti la commissione non ha considerato come violazione dell'art 9 il rifiuto, da parte di una amministrazione carceraria, di registrare un detenuto con la religione Wicca, osservando che l'interessato non aveva spiegato quali possibilità di esercizio religioso egli volesse ottenere con tale registrazione (dec. 4 ottobre 1977, X. c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 11, p. 55-57).
Nel caso Darby, esaminando una fattispecie nella quale l'interessato doveva pagare le tasse alla chiesa di stato svedese, pur non appartenendo ad essa, la commissione ha sottolineato in particolare il significato della libertà di religione “negativa” riconosciuta dall'art 9 e ha affermato che tale disposizione garantisce anche che nessuno venga direttamente coinvolto in attività religiose, se non lo desidera e non é membro della comunità religiosa in oggetto (corte, 23 ottobre 1990, Darby c. Svezia, Serie A, n. 187, par. 19). La corte di giustizia tuttavia ha ritenuto superfluo, nel caso, un esame riguardo alla eventuale violazione dell'art. 9, essendosi limitata ad accertare una violazione degli art. 1 e 14 (cfr. in proposito Frowein, 1995, p. 356, il quale ritiene giustamente che condizione fondamentale della libertà di religione è che lo stato escluda ogni coinvolgimento obbligatorio nelle attività religiose).
In applicazione delle norme contenute negli art. 9 e 14 conv., lo stato non deve fare discendere dall'appartenenza a una religione privilegi o svantaggi che determinerebbero una ingiustificata discriminazione dei soggetti interessati e un'inammissibile violazione delle due indicate disposizioni: la commissione e la corte di Giustizia hanno stabilito questo principio in una fattispecie (caso Hoffmann), nella quale alcuni tribunali austriaci avevano concesso il diritto di tutela personale dei figli, dopo il divorzio, a una donna appartenente alla confessione dei testimoni di Geova. La corte suprema austriaca aveva dichiarato inammissibile la soluzione adottata dai tribunali, considerandola in contrasto con la legge sull'educazione religiosa dei figli, che in questo caso erano cattolici, e contraria all'interesse dei figli, per i rischi che questi avrebbero potuto subire a seguito di un eventuale rifiuto, da parte della madre, di sottoporsi a una trasfusione del sangue che si rendesse eventualmente necessaria. La corte costituzionale austriaca aveva sostenuto la tesi che non si potesse concedere il diritto di tutela personale a un testimone di Geova se i figli non fossero appartenenti a questa religione. La commissione ha ritenuto tale principio in contrasto con l'art 8, che prevede il rispetto della vita privata e familiare, in connessione con l'art 14, in quanto la decisione contraria al diritto di tutela personale da parte della madre sarebbe stato presa esclusivamente in base alla sua religione, in assenza di un ulteriore e sufficiente giustificazione, anche in considerazione del fatto che in Austria è ammesso , in quanto conforme alla legge, l'esercizio della religione dei testimoni di Geova. La corte ha confermato questa interpretazione della commissione (corte, 23 giugno 1993, Serie A, n. 255-C, § 36).
Uno dei problemi tradizionalmente più complessi della materia riguardante i diritti di libertà, e, in particolare, l'esercizio delle libertà di religione, è quello consistente nel precisare se la libertà di religione comporti un obbligo per lo stato anche nella c.d. tutela “positiva”. In proposito la commissione ha assunto un orientamento favorevole. Quando la “Church of Scientology” denunciava il fatto che, secondo il diritto svedese, la chiesa non poteva procedere autonomamente contro le offese subite, la commissione ha sottolineato che in tali ipotesi la legge svedese prevede la decisione del pubblico ministero, la quale, nel caso specifico, sarebbe stata presa in base a motivazioni obiettive (commissione, dec. 14 luglio 1980, Chiesa di Scientology e 128 suoi membri c. Svezia, in “Décisions et rapports”, 21, pp. 109-115). La motivazione della commissione induce a ritenere che, l'ipotesi di una eventuale mancanza di qualsiasi tutela legale nel caso dell'offesa di sentimenti religiosi potrebbe costituire una violazione dell'art. 9. Opinione condivisa dalla dottrina, la quale ha rilevato che, soprattutto in uno stato pluralista dal punto di vita confessionale, l'art 9 conv. obbliga i pubblici poteri ad assicurare la tolleranza religiosa e cioè a mantenere la pace religiosa. La corte ha applicato coerentemente questo principio nel caso del Otto-Preminguer-Institut, ritenendo ammissibile, nella sentenza del 20 settembre 1994 (citata infra in questo paragrafo), il riconoscimento di tutela delle convinzioni religiose altrui come base per la previsione di limitazioni della libertà di opinione (Frowein, 1995, p. 372).
L'espresso riferimento normativo alla libertà di manifestare “collettivamente” il proprio credo e al carattere pubblico del fenomeno religioso induce a ritenere garantiti anche i gruppi religiosi collettivi e non solo gli individui (Margiotta Broglio, 1967, p. 40); d'altra parte, la tutela del diritto di associarsi per finalità religiose e della garanzia dei gruppi religiosi, oltre che degli individui, è generalmente riconosciuta nei paesi dell'unione europea: sono in particolare da ricordare gli art. 8 e 19 della costituzione italiana, 137 della costituzione tedesca, 6 della costituzione olandese, 67 della costituzione danese, 26 della costituzione lussemburghese, 41, comma 3, della costituzione portoghese.
La tesi favorevole alla garanzia dei gruppi religiosi è stata in un primo momento respinta dalla commissione, che ha ritenuto la disposizione della convenzione sulla libertà religiosa applicabile soltanto nei confronti degli individui, e ha esaminato il ricorso presentato dalla chiesa o comunità religiosa considerando i ricorrenti nella loro qualità di fedeli impegnati a rappresentare e difendere gli interessi della confessione religiosa (dom. 3798/68, Chiesa di X. c. Regno Unito, in “Yearbook”, 1969, p. 306 ss. e 7865/77) (sulla rilevanza e la “rappresentanza” degli interessi dei fedeli negli ordinamenti statali, cfr. Lariccia, 1967a); in un secondo momento, è stata accolta la soluzione di ritenere tutelato anche il gruppo religioso, in se stesso considerato, sul fondamento del presupposto che il diritto alla libertà di religione come tale tutela anche l'associazione di persone in una chiesa o comunità religiosa (nel caso, si trattava della chiesa di Scientology), e che queste ultime possono dunque difendere le proprie ragioni anche a prescindere dal loro ruolo come rappresentanti dei rispettivi membri (dom. 7805/77, Pastore X. e Chiesa di Scinetology c. Svezia, in “Yerbook”, 1979, p. 244 ss.; v. anche dec. 14 luglio 1987, A.R.M. Chappel c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 53, pp. 241-53; dec. 11 aprile 1996, Finska Foramlingen di Stoccolma e Hautaniemi c. Svezia, in “Decisions et rapports”, 85-A, p. 94 ss.). (Sulle confessioni religiose nell'unione europea cfr. Castro Jover, 1999; Jansen, 1999; Margiotta Broglio, 1997, 2000).
Contro la chiesa, anche una chiesa di stato, il diritto alla libertà di religione non è applicabile per quanto riguarda l'obbligatorietà delle regole di battesimo da osservare dal sacerdote: in questo senso può ricordarsi la decisione della commissione nel caso di un ricorso di un sacerdote danese contro la chiesa di stato danese (commissione, dec. 8 marzo 1976, X. c. Danimarca, in “Décisions et rapports”, 5, pp. 157-60; Frowein, 1995, p. 372). Tuttavia, l'esistenza di una chiesa come chiesa di stato, in un sistema nel quale gli organi statali abbiano determinate competenze, per esempio l'attribuzione di poteri in ordine all'esercizio di sanzioni disciplinari nei confronti dei sacerdoti, non deve in alcun modo significare l'obbligo dei cittadini di appartenenza alla chiesa medesima o di esercizio del culto di tale chiesa. In un caso, verificatosi in Norvegia, del ricorso di un sacerdote, che era stato licenziato per il rifiuto di adempiere doveri di ufficio, e che per motivare il suo rifiuto aveva citato la legislazione norvegese sull'aborto, in contrasto con le sue convinzioni religiose, la commissione ha sottolineato che il sacerdote non veniva ostacolato nel professare la sua fede (commissione, dec. 8 marzo 1985, Borre c. Norvegia, in “Décisions et rapports”, 42, pp. 247-68; Frowein, 1995, p. 372).
Per quanto riguarda la libertà di cambiare religione o credo di fede, è da ricordare che, a differenza della maggior parte delle costituzioni europee (cfr., ad esempio, l'art. 19 cost. italiana), la convenzione europea per i diritti umani assicura esplicitamente il diritto di cambiare religione o convinzione, considerandolo un aspetto fondamentale per la garanzia dell'effettivo esercizio delle libertà di religione. In Svezia, dove fino al 1950 la presenza di una chiesa di stato rendeva impossibile l'abbandono della chiesa se non a seguito di un'adesione a un'altra comunità di fede cristiana, il principio è mutato nel 1951, proprio in conformità alla disposizione contenuta nella convenzione europea.
È qui da notare che se la versione inglese dell'art. 9, con le parole “religion or belief”, può fare pensare che il diritto di cambiare sia esplicitamente assicurato soltanto nel caso di religione e “fede religiosa”, la versione francese, che usa le espressioni “de religion ou de conviction”, dimostra che inclusa nella garanzia è anche la “convinzione” non religiosa. È dunque da ritenere che, ove una chiesa o una confessione religiosa non prevedano l'ipotesi dell'abbandono, deve essere il diritto statale a prevederne la possibilità, in quanto, come giustamente si è osservato, dal diritto di cambiare religione deriva un dovere di garanzia da parte dello stato (Frowein, 1995, p. 373, il quale critica il modo in cui la commissione nel 1976 aveva trattato il ricorso di un detenuto britannico, che aveva espresso il desiderio di abbandonare la “Church of Scotland”, al quale sarebbe stato detto di parlarne con il sacerdote del carcere e di presentare eventualmente un ricorso alla Visiting Committee, organo incaricato di esaminare i reclami interni del carcere, che avrebbe potuto decidere in ultima istanza sul suo desiderio: la commissione non aveva approfondito il punto e aveva invece preso in esame un rifiuto, lamentato precedentemente, di registrare il cambiamento della religione nella documentazione del carcere).
A proposito di un ricorso, respinto dalla commissione nel 1965, senza addurre i motivi del diniego, in cui un islandese protestava contro l'appartenenza alla chiesa, stabilita nel battesimo infantile all'età di pochi mesi (dom. 2525/65, “C.D.”, 22, p. 33 ss.) giustamente osserva Frowein (1995, p. 373), che, esistendo in Islanda, come in altri stati della convenzione, un sistema di chiesa di stato, sarebbe stato necessario approfondire gli effetti del battesimo e le ipotesi di concreta possibilità di abbandonare una chiesa. La validità giuridica del battesimo infantile può rappresentare infatti un problema di libertà della religione, nel caso di persone che, in seguito, si allontanano completamente dalla chiesa o che scelgono una chiesa diversa. La decisione dei genitori al momento del battesimo non rappresenta una giustificazione sufficiente per contrastare la successiva decisione contraria dell'interessato; in applicazione della libertà di religione garantita dalla convenzione, che riconosce il diritto di abbandonare la religione ove lo si desideri, dovrebbe ritenersi attribuito il potere di correggere, in base al diritto statale e in maniera retroattiva, l'atto del battesimo, con la possibilità anche di chiedere la cancellazione del riferimento alla persona battezzata che in età adulta dichiari di volere eliminare l'indicazione del proprio nome nell'atto di battesimo.
Per quanto riguarda il diritto di manifestare la propria religione o il proprio credo, l'art 9, comma 1, nella seconda parte della disposizione, garantisce il libero esercizio della libertà di religione o convinzione, individualmente o in comunità con altri, in privato, cioè nelle case e abitazioni, e in pubblico, riconoscendo evidentemente alla libera decisione del singolo la scelta fra le diverse forme di esercizio. Nella disposizione vi è un esplicito riferimento a quattro diverse forme di esercizio: il rito religioso o il culto, mediante la cui tutela viene protetta la forma tipica di venerazione e predicazione religiosa; l'insegnamento delle tradizioni religiose, che equivale all'insegnamento dei principi di convinzioni ideali (una violazione di tale principio, come vedremo, è stata ravvisata nella condanna, in Grecia, di alcuni testimoni di Geova per aver pubblicizzate le loro convinzioni religiose); l'osservanza di usanze e riti religiosi, come ad esempio la partecipazione a processioni ma anche l'uso di indossare abiti religiosi, come il turbante (commissione, dec. 12 luglio 1978, X. c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 14, pp. 234-35); le pratiche religiose, a proposito delle quali si pone il dubbio se la disposizione protegga anche l'esercizio di pratiche che costituiscano espressione di convinzioni non religiose; al riguardo è da ricordare che la commissione, nel già ricordato caso Arrowsmith, con riferimento a una distribuzione di volantini da parte di una pacifista, ha ritenuto che anche la pratica di convinzioni non religiose può essere tutelata dall'art 9, comma 1: il pacifismo sarebbe da considerare una convinzione, e manifestazioni come il volantinaggio potrebbero senz'altro rappresentare l'esercizio di convinzioni pacifiste. Tuttavia, in questo caso, non si ritenne sufficiente il fatto che la distribuzione fosse motivata da convinzioni pacifiste, si attribuì valore decisivo al contenuto dei volantini come espressione di tali convinzioni e si negò nel caso concreto la sussistenza reale di tali convinzioni (commissione, rapp. 12 ottobre 1978, Arrowsmith c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 19, pp. 5-64).
Anche a proposito del caso di alcuni detenuti nell'Irlanda del Nord, che avevano rifiutato di indossare la divisa carceraria, la commissione non ha respinto il ricorso con riferimento alla garanzia contenuta nell'art 9, comma 1, ma ha motivato la decisione, osservando che questo tipo di manifestazione non era tutelato in quanto, in carcere, non esiste il diritto di indossare abiti propri (commissione, dec. 15 maggio 1980, McFeeley et al. c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 20, pp. 44-160, spec. p. 76). Se ne può dedurre che anche la manifestazione di concezioni non religiose attraverso determinate pratiche risulta garantita dall'art 9, ma che non ogni azione motivata dalla religione o dalla convinzione (“Weltanschauung”) sia protetta dall'art 9, comma 1 e che l'espressione della convinzione deve manifestarsi in un comportamento chiaramente riferito ad essa (Frowein, 1995, p. 375).
Secondo l'art 9, comma 2 può essere limitato soltanto il diritto all'esercizio (manifest/manifester) di una religione o convinzione, e non il diritto generale alla libertà di religione e di pensiero, né il diritto di cambiare religione o convinzione (“Weltanschauung”). Sono rare, e non sempre convincenti, le decisioni che riguardano le cause di limitazione dei diritti di libertà religiosa, secondo l'art 9, comma 2: oltre a un caso nel quale si sono ritenuti giustificati i motivi addotti per vietare a un ebreo convertitosi al buddismo di lasciarsi crescere la barba, come prescritto dalla sua religione, e di possedere un “rosario” buddista (motivi consistenti nella necessità di una più facile identificazione del detenuto e nell'esigenza di mantenimento della sicurezza e della disciplina) (commissione, dec. 18 maggio 1976, X. c. Regno Unito, in “Decisions et rapports”, 5, pp. 100-2), può ricordarsi che è stato giustificato con l'esigenza di tutela della salute l'obbligo del motociclista di portare il casco (commissione, dec. 12 luglio 1978, X. c. Regno Unito, in “Décisions et rapports”, 14, pp. 234-37), anche se successivamente, nella legislazione britannica, l'obbligo del casco nel caso dei sikh è stato annullato, dopo che in numerose occasioni si era discusso della possibile violazione di diritti di libertà riguardanti la coscienza individuale.

10. La giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo. – Una valutazione complessiva dell'interpretazione delle garanzie riguardanti le libertà di pensiero e di religione e verso la religione da parte degli organi previsti per assicurare il rispetto della convenzione europea consente di rilevare che la commissione ha generalmente respinto i ricorsi sottoposti al suo esame (Morviducci, 1990, p. 6 ): alla sua attenzione sono stati posti soprattutto problemi relativi alla titolarità del diritto di libertà religiosa, all'individuazione dei soggetti tenuti al rispetto della libertà stessa, ai limiti posti all'esercizio della libertà religiosa: nella maggior parte dei casi risulta evidente l'intento della commissione di accogliere le ragioni addotte dagli stati.
Notevole importanza assumono in proposito le sentenze della corte europea dei diritti dell'uomo, nelle quali si è evidenziata la difficoltà di una definizione dei confini del diritto di libertà religiosa garantito nell'art. 9. Una prima sentenza è quella riguardante l'affare, già ricordato in precedenza, Kokkinakis c. Grecia (sent. 25 maggio 1993). In Grecia, la cui costituzione vieta l'attività di proselitismo, attività sanzionata anche penalmente, un testimone di Geova, condannato perchè aveva svolto propaganda religiosa, si era rivolto alla corte europea, la quale afferma nella sentenza che il tribunale greco aveva violato l'art. 9 della convenzione. La sentenza è stata giustamente criticata, perchè in essa si afferma una pericolosa distinzione tra proselitismo (lecito) e abuso di proselitismo (illecito), consistente quest'ultimo nell'offerta di vantaggi materiali o sociali, nell'esercizio di indebite pressioni su persone in stato di difficoltà o di bisogno, in violenze fisiche o psichiche al fine di ottenerne la conversione. La corte persegue l'obiettivo di prevedere una distinzione fra i movimenti per i quali è giusto garantire la libertà di religione e quelli che sfruttano tale libertà per perseguire altri fini, e nella sentenza non sono fornite convincenti indicazioni a proposito di tale distinzione e si ricorre, oltre che al concetto di “proselitismo di cattivo gusto” utilizzato dalla giurisprudenza greca, a un documento del consiglio ecumenico delle chiese, in cui si parla di “attività” che comportino

vantaggi materiali o sociali “al fine di ottenere adesioni a una chiesa” oppure esercitando una “pressione abusiva” e un “lavaggio del cervello” (Martinez Torron, 1994, p. 68; Ferrari, Iban, 1997, p. 19; Ceccanti, 1999, p. 156).

Giustamente nell'opinione concorrente del giudice Pettiti si pongono in rilievo i limiti di tale sentenza, osservando che di per sé il proselitismo è legato alla libertà di religione anche nei confronti di credenti di quella che è per tradizione storica Chiesa di Stato o “religione dominante” e che, per proteggere i minori, si possono adottare precise disposizioni penali, mentre per la protezione dei maggiorenni occorre utilizzare le legislazioni fiscali e sociali e il diritto comune in materia di pubblicità ingannevole.
La seconda sentenza, emessa l'anno dopo (20 settembre 1994, Otto-Preminguer-Institut c. Austria, in “Riv. dir. int.”, 1995, p. 413 ss.; Margiotta Broglio, 1995), ha stabilito la superiorità della libertà di religione sulla libertà di espressione, ritenendo ammissibile la repressione, da parte di uno stato, delle espressioni vilipendiose nei confronti di una religione. La vicenda ha inizio dopo la proiezione, in una sala cinematografica di Innsbruck, di proprietà dell'Istituto Preminguer, di un film del regista Schroeter dal titolo Das Liebeskonzil (Il Concilio d'amore), tratto da un libro di Oscar Panizza: il film era vietato ai minori di diciassette anni e veniva proiettato nelle ore serali. La diocesi cattolica di Innsbruck aveva denunciato l'Istituto Preminguer per vilipendio delle dottrine religiose, ai sensi dell'art. 188 del codice penale austriaco, e la pellicola era stata sequestrata. Nel ricorso presentato dall'istituto che ne aveva promosso la visione si osservava che il film rappresentava gli eccessi cui conduce la fede religiosa, attraverso immagini caricaturali che mettevano in evidenza le relazioni tra credenze religiose e sistemi di oppressione temporale e si concludeva che il sequestro della pellicola aveva violato l'art. 10 della Convenzione europea, perchè il libro da cui era tratto il film non era vietato in Austria e perchè, indipendentemente dal messaggio del film, non esistevano gravi ragioni per giustificare una misura così radicale. Il governo austriaco obiettava che il sequestro era stato disposto per motivi di ordine pubblico e per garantire diritti altrui, in questo caso la tutela del sentimento religioso. La corte europea, richiamandosi alla precedente sentenza sopra ricordata, afferma che esiste la libertà di convinzioni, tutelata dall'art. 9, della quale la libertà religiosa è uno degli aspetti più rilevanti: i giudici introducono però

una pericolosa distinzione tra esercizio dell'opposizione ad una religione o del diniego di esso e il modo in cui la critica viene esercitata (Margiotta Broglio, 1995, p. 371):

ma la libertà religiosa non presuppone che i credenti non siano esposti alle critiche. A mio avviso pienamente giustificate sono le perplessità che la sentenza ha suscitato: in proposito, voglio qui ribadire il giudizio negativo da me espresso subito dopo avere conosciuto la decisione emessa dalla corte:

È per me difficile nascondere i sentimenti di disagio e di inquietudine di fronte a una sentenza che, se non altro per l'autorità del soggetto decidente, inevitabilmente attribuisce alla censura una dignità morale e culturale che risulta preoccupante, anche per la consapevolezza di quanto avviene negli stati islamici, che regolarmente vietano film non in linea con le interpretazioni più integraliste dell'Islam (Lariccia, 1994a, p. 406).

Le preoccupazioni suscitate dalla sentenza non sono soltanto giustificate per le conseguenze della possibilità di irrigidimento di posizioni integraliste delle religioni, ma anche perchè dalla sentenza avrebbe potuto derivare l'effetto di una tutela della religione in base al luogo nel quale essa era diffusa e del recupero di principi inaccettabili, come quello che prevede una protezione privilegiata nei confronti della maggioranza di una popolazione che pratica una religione (Margiotta Broglio, 1995, p. 377; per una valutazione dei problemi connessi alla tutela penale della religione cfr. Lariccia, 1988, 1989, p. 81 ss.).
La sentenza emessa dalla Corte europea il 24 febbraio 1998, nel caso Larissis ed altri c. Grecia (pubblicata in “Dir. eccl.”, 1999, II, p. 211 ss.) trae origine dai ricorsi inoltrati contro la repubblica ellenica da tre cittadini greci, ufficiali dell'aeronautica militare, condannati, ai sensi dell'art. 4 della legge greca n. 1363 del 1938, per la loro attività di proselitismo esercitata, in diverse occasioni, nei confronti di tre aviatori, loro subalterni, avvalendosi dell'influenza derivante dalla loro superiore condizione gerarchica, e nei riguardi di un intero nucleo familiare e di diversi civili. I ricorrenti sostenevano che il divieto legislativo delle attività di proselitismo dovesse ritenersi in contrasto con il disposto dell'art. 9, comma 1, della convenzione, dovendosi considerare la proibizione del proselitismo religioso un ostacolo al godimento della libertà individuale e collettiva di religione. Il governo greco ribadiva l'opinione tendente a porre una netta distinzione tra le attività di “testimonianza cristiana” e quelle di “proselitismo illecito”, consistente quest'ultimo nell'utilizzazione di mezzi ingannevoli indegni e immorali, come, ad esempio, lo sfruttamento della povertà, della fragilità intellettuale e dell'inesperienza altrui, al fine di ottenere l'adesione dell'interlocutore a un determinato messaggio religioso. Con riferimento agli art. 7, 9 e 10 della convenzione, la sentenza stabilisce il principio che le esigenze di salvaguardia dell'ordine pubblico non possono violare i principi consacrati nella convenzione, per i quali, tra l'altro, soltanto la legge può qualificare un fatto quale reato e comminare la relativa pena, e che deve essere garantita e tutelata la libertà religiosa, senza alcuna discriminazione di religione, opinioni politiche o appartenenza a minoranze.
La corte europea ha ritenuto di non potere emettere una condanna del proselitismo in senso assoluto e ha considerato prioritaria l'esigenza di garantire la libertà di coscienza di coloro che sono i destinatari delle attività di proselitismo; la corte di Strasburgo, aderendo sostanzialmente al punto di visto espresso dal governo greco e confermando l'opinione accolta in precedenza nel caso Kokkinakis, ha ritenuto ammissibile che le attività di proselitismo configurino l'ipotesi di un illecito penale e di una violazione del diritto individuale alla libertà di religione, allorquando l'opera di divulgazione delle proprie convinzioni religiose superi i confini della semplice volontà di testimoniare la personale adesione al messaggio cristiano, per tradursi in proselitismo “abusivo”.
La corte, in particolare, afferma l'infondatezza delle doglianze sollevate dai ricorrenti in merito a una presunta violazione degli art. 9 e 14 della CEDU, osservando che essi non avevano prodotto alcuna prova relativamente all'ipotesi di un diverso, e più benevolo, atteggiamento dei giudici greci nell'eventualità in cui un ufficiale delle forze armate tentasse di convertire i suoi subordinati, nonché alcuni civili alla fede ortodossa, e non ritiene possa giudicarsi sulla compatibilità della legislazione greca con la disposizione della convenzione sulla libertà religiosa: la tesi accolta nella sentenza conferma la tendenza dei giudici di Straburgo a non esprimere astratte valutazioni in merito alla conformità di un provvedimento legislativo nazionale rispetto alle disposizioni convenzionali (Starace, 1992, p. 55), a meno che non possa ravvisarsi l'ipotesi di violazione della convenzione come diretta conseguenza di un determinato testo normativo. La sentenza suscita perplessità non soltanto per la sottigliezza, direi la labilità e l'evanescenza, della distinzione tra “testimonianza cristiana” e “proselitismo illecito”, nonché per i dubbi sulle concrete modalità di applicazione di tale distinzione, ma anche per le possibile conseguenze che tale orientamento della Corte potrebbe determinare: nel giustificare eventuali interventi e interferenze dei pubblici poteri negli aspetti più intimi della coscienza religiosa degli individui soggetti alla giurisdizione delle autorità statali (Martinez Torron, 1994, p. 69); nel favorire la legittimazione, in alcuni stati come l'Italia e la Spagna, e l'irrigidimento, in altri come la Grecia, del principio che riconosce una posizione di privilegio alla religione professata dalla maggioranza della popolazione, con inevitabili ripercussioni sui principi di laicità dello stato e della eguale libertà delle confessioni religiose; nel legittimare eventuali orientamenti giurisprudenziali e politici volti a non fornire alcun tipo di tutela ai soggetti condannati dai tribunali confessionali per il reato di vilipendio della religione nazionale (cfr. sul punto le giuste osservazioni di Parisi, 1999, p. 281 ss.).
Per quanto riguarda la sentenza emessa il 3 novembre 2010 nel caso Lautsi c. Italia, i fatti sono noti. La ricorrente, signora Soile Lautsi, ha chiesto che la CEDU riconoscesse la violazione dei diritti di libertà di pensiero e di religione (art. 9 CEDU) e del diritto a un'istruzione e a un insegnamento conformi alle sue convinzioni religiose e filosofiche (articolo 2 del primo protocollo). La ricorrente ha ricordato che i suoi due bambini frequentavano una scuola pubblica nella quale in tutte le classi figurava il crocefisso. Una riunione scolastica di genitori, il 22 aprile 2002, si era conclusa con la dichiarazione, espressa dalla maggioranza dei genitori presenti alla riunione, che il crocefisso dovesse rimanere nelle aule frequentate dai suoi due bambini; il 27 maggio 2002 era seguita la decisione dei dirigenti della scuola di non accogliere la richiesta della signora Lautsi di rimozione del simbolo religioso e di conservarne dunque la presenza in tutte le aule della scuola.
La signora Lautsi ha presentato ricorso al tar del Veneto per violazione degli artt. 3, 19 e 97 della costituzione italiana e 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo. Con ordinanza del 25 gennaio 2004 il tar del Veneto ha sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni normative, emanate con regolamenti del 1924 e del 1928, che prevedevano la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche (Bin, Brunelli, Pugiotto, Veronesi, 2004). La corte costituzionale, con ordinanza n. 389 del 2004, ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata dal tribunale amministrativo del Veneto, in quanto le disposizioni normative più sopra ricordate non sono leggi dello Stato, ma regolamenti che non hanno forza di legge.
Con decisione del 17 marzo 2005, il tar del Veneto ha respinto il ricorso della signora Lautsi, ritenendo che il crocefisso sia allo stesso tempo il simbolo della storia e della cultura italiane, e quindi dell'identità italiana, e il simbolo dei principi di uguaglianza, di libertà e di tolleranza come pure della laicità dello stato. La signora Lautsi ha presentato ricorso al consiglio di stato, che, con decisione del 3 novembre 2006, ha respinto il ricorso affermando che il crocifisso è divenuto uno dei valori laici della costituzione italiana e rappresenta i valori della vita civile.
La signora Lautsi ha proposto ricorso alla corte europea dei diritti dell'uomo che, il 3 novembre 2009, ha emesso la sentenza con la quale ha accolto il ricorso:. Come risulta dalla lettura di tale sentenza, la corte di Strasburgo ha accolto il ricorso della signora Lautsi in quanto,

l'esposizione obbligatoria del simbolo di una fede particolare, nell'esercizio del servizio pubblico, in particolare nelle aule, restringe il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni, e il diritto degli scolari a credere o a non credere.

Contestando la decisione della corte, Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, Monaco, Romania, Russia e San Marino hanno depositato delle memorie alla corte, che, nel corso dell'udienza del 30 giugno 2010, ha ascoltato i rappresentanti di tali stati. In seguito, anche i rappresentanti di Albania, Austria, Croazia, Ungheria, Macedonia, Moldova, Polonia, Serbia, Slovacchia e Ucraina hanno aderito alla contestazione. Secondo una versione che è stata resa nota nei giorni successivi all'udienza davanti alla corte di giustizia di Strasburgo, questa posizione critica nei confronti delle conclusioni accolte nel giudizio di primo grado della corte si spiega con l'alleanza determinatasi il 30 maggio 2010 tra il metropolita responsabile per le relazioni estere del patriarcato ortodosso di Mosca, per conto del patriarca Cirillo I, e il papa Benedetto XVI. Le chiese separate, cattolica e ortodossa, secondo questa interpretazione, avrebbero deciso di unire i loro sforzi per reagire contro la tendenziale secolarizzazione delle società europee.
La sentenza della corte europea è stata impugnata dal governo italiano e il ricorso del governo è stato esaminato dalla grande chambre nell'udienza del 30 giugno 2010; il 18 marzo 2011 la Grande Chambre ha riconosciuto che la normativa regolamentare italiana dà alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell'ambiente scolastico ma che tale circostanza non sia di per sé sufficiente a giustificare un processo di indottrinamento da parte dello Stato con conseguente violazione della norma contenuta nell'art. 9.
Il problema della legittimità della presenza dei simboli religiosi nelle aule scolastiche, discusso davanti alla Grande Chambre di Strasburgo nell'udienza del 30 giugno 2010, riguarda temi che coinvolgono direttamente gli interessi di coloro che partecipano come docenti alla vita della scuola.
Come rivela con evidenza la storia della scuola italiana, le associazioni nelle quali sono da tanti decenni impegnati maestri e insegnanti di ogni ordine e grado di scuola, rappresentano importanti luoghi di elaborazione pedagogico-culturale condivisa, nell'interesse generale della scuola e a tutela del diritto di apprendimento di ogni ragazzo, nello spirito dell'art. 3, comma 2, della costituzione italiana. Tali associazioni hanno assunto un ruolo essenziale nella prospettiva di evoluzione in senso democratico della scuola italiana negli anni successivi all'entrata in vigore della costituzione repubblicana del 1948 e della convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950.
Chi partecipa con assiduità a incontri, convegni e iniziative collettive di persone impegnate nella scuola, ha modo di constatare quanto spesso si tratti di occasioni preziose per chiunque intenda lavorare nella prospettiva dell'evoluzione della società democratica. La democrazia, ricordava Piero Calamandrei, un intellettuale di grande prestigio, protagonista di importanti interventi riguardanti l'esperienza concreta della vita scolastica (Calamandrei, 2008b) è come l'aria, della cui mancanza ci si accorge quando manca. In questa prospettiva le carte costituzionali sono un riferimento fondamentale per la vita di ogni cittadino e per l'obiettivo che ha ogni società civile di favorire l'esistenza di una scuola, pubblica e laica, all'altezza dei compiti che le assegnano le carte costituzionali.
Naturalmente, per portare un buon contributo alla valutazione dei problemi relativi ai compiti della scuola nella vita democratica di un paese è necessario non soltanto essere attenti all'attuazione delle norme giuridiche, agli studi teorici, ai libri e alle ricerche scientifiche, ai puntuali riferimenti culturali in un determinato momento storico ma anche prestare costantemente attenzione all'attualità, agli svolgimenti concreti delle esperienze di vita quotidiana nelle scuole, al manifestarsi di problemi e all'insorgere di ostacoli che spesso incidono pesantemente sull'esercizio dei diritti degli alunni e dei docenti.
In una bella giornata di ricordi e di testimonianze, il 26 aprile del 2004, è stato ricordato, nella sala Igea dell'Enciclopedia italiana, Guido Calogero, un filosofo del diritto particolarmente attento ai problemi della scuola (Calogero, 2003). A Calogero si deve, poco dopo l'entrata in vigore della carta costituzionale italiana del 1948, il primo commento giuridico dedicato alle norme della costituzione in materia di scuola, insegnamento, istruzione (Calogero, 1950). Aveva ragione Guido Calogero nei suoi libri ed articoli, nelle pagine del suo splendido e ancora attualissimo volume in tema di laicità, dedicato alla memoria di Ernesto Rossi (Calogero, 1967a), quando dedicava un appassionato e rigoroso impegno di studio e di ricerca alla valutazione di tutti gli aspetti più significativi della formazione scolastica della personalità dei giovani.
Il problema considerato dai giudici di Strasburgo è di grande importanza per la vita della scuola italiana e lo dimostrano il forte interesse e il grande favore che, negli ambienti della scuola, ha incontrato l'accoglimento del ricorso presentato dalla signora Lautsi alla corte europea dei diritti dell'uomo.
Quando si parla della scuola nel testo della costituzione italiana si fa riferimento, di solito, a pochi articoli della carta costituzionale, agli art. 33 e 34 e, dopo il 2001, anche all'art. 117, così com'è stato modificato dalla riforma costituzionale del 2001. Ma vi è un numero elevatissimo di disposizioni normative della legislazione ordinaria e costituzionale, di carte europee dei diritti, di leggi, di decreti legislativi, di decreti legge, di ordinanze, di regolamenti che regolano il mondo della scuola: e tuttavia nella costituzione italiana gli articoli riguardanti la scuola sono pochi e quindi, in definitiva, si può pensare che il compito di chi voglia valutare i problemi della costituzione nella scuola e della scuola nella costituzione sia limitato all'esame, alla considerazione delle tre ricordate disposizioni costituzionali.
Eppure il problema si presenta assai complesso, se si considera che il diritto non è soltanto il diritto scritto: una grande importanza assume anche il cosiddetto diritto vivente.
Il diritto vivente è composto non soltanto da disposizioni scritte ma anche da decisioni di corti e di tribunali dei singoli stati e delle organizzazioni sovranazionali, da orientamenti di partiti politici; il diritto in materia scolastica è costituito da istanze giudiziarie e da comportamenti di privati e di organi amministrativi e giurisdizionali; l'attenzione al diritto e ai diritti e doveri richiede la continua ed attenta valutazione di quanto avviene nelle dinamiche reali della vita quotidiana.
Il diritto è quello che descriveva Rudolf von Jhering, nel suo libro La lotta per il diritto (von Jhering, 1960); un diritto per la cui attuazione si richiede l'impegno costante e rigoroso dei cittadini, sia come singoli sia nelle formazioni sociali nelle quali operano per il migliore sviluppo della loro personalità e degli insegnanti della grande varietà di scuole esistenti in un determinato momento storico; un diritto che esige l'opera appassionata di persone consapevoli del fatto che talora si rendono necessarie e urgenti iniziative intese a contestare la legittimità di provvedimenti amministrativi e di ordinanze ministeriali; iniziative che richiedono la preventiva valutazione di complesse questioni, come, nel diritto scolastico, sono quelle che riguardano i crediti degli studenti, la disciplina normativa dell'ora di religione, la presenza dei simboli religiosi nelle aule scolastiche, i giudizi espressi dagli insegnanti di religione nei consigli scolastici, le pressioni esercitate dai genitori degli allievi, le interferenze di organi confessionali, le delibere della conferenza episcopale italiana e di ogni associazione e confessione religiosa. Si tratta di valutazioni molto più difficili e complesse di quelle che si riferiscono alla considerazione e all'interpretazione di poche e consolidate disposizioni costituzionali.
Inoltre sarebbe sbagliato pensare che, per comprendere i problemi della scuola nella carta costituzionale del 1948, ci si possa limitare a considerare le poche, già ricordate, disposizioni che parlano di scuola, di insegnamento e di istruzione. Vi sono infatti molte altre disposizioni costituzionali che assumono grande importanza: quelle contenute negli art. 1, 2 e 3, innanzi tutto, ma anche le disposizioni degli art. 4, 7, 8, 9, 17, 18, 19 e 21 della costituzione italiana, le norme della convenzione europea dei diritti dell'uomo e dei suoi protocolli, le disposizioni delle carte dei diritti in Europa e nel mondo. Si tratta di disposizioni normative che mi limito qui a citare con dei semplici numeri, ma che assumono grande importanza per lo svolgimento della vita scolastica e per un buon risultato del lavoro didattico svolto dagli insegnanti (Lariccia, 2006b).
Considerando gli ostacoli costituzionali che impediscono una dichiarazione di illegittimità costituzionale emessa dal giudice italiano delle leggi nei confronti dei regolamenti contrari a costituzione, è opportuno auspicare, con riguardo al problema dell'ostensione dei crocefissi nei luoghi pubblici, ripetute azioni in giudizio presso i giudici ordinari e presso la corte di giustizia per la tutela dei diritti umani in Europa; ed è necessario dunque fare affidamento sull'impegno e la tenacia di cittadini, singoli e associati, e di organizzazioni consapevoli della grande importanza che nel nostro paese assumono il principio di laicità e il rispetto dei diritti di libertà e di pluralismo in materia religiosa.
Vi sono oggi in Italia circa tre milioni di immigrati e tale numero è previsto che giunga nel prossimo decennio ai sei milioni; nella scuola di ogni ordine e grado il numero di bambini e di ragazzi di religione diversa rispetto a quella cattolica è in vertiginoso aumento e in aumento sono i casi in cui viene ritenuta inaccettabile, nella comune sensibilità, la presenza di simboli religiosi nei locali delle istituzioni scolastiche pubbliche.
La corte di Strasburgo, con la sua sentenza del 3 novembre 2009, poi contraddetta, due anni dopo, dai giudici della Grande Chambre, aveva sostanzialmente stabilito che lo stato laico non può imporre identità precostituite e omnicomprensive, e deve offrire un ambiente includente a tutti, specialmente a chi è più vulnerabile, come i bambini. E per questo non può dare adito al sospetto di preferire una religione rispetto alle altre o all'assenza di religione, attraverso l'affissione di simboli che, per lo meno plausibilmente, possono essere ad essa associati.
Fede nel diritto è il titolo di uno scritto del 1940 di recente pubblicato (Calamandrei, 2008a): il significato di questa espressione assume una grande importanza per coloro che auspicano una soluzione positiva di una questione che riguarda da vicino la concreta esperienza di vita e di lavoro degli insegnanti italiani; fede nel diritto, un'espressione che assume rilievo soprattutto oggi che i cittadini sono costretti ad assistere a una continua svalutazione e spesso irrisione del diritto, della legalità, delle esigenze di rispetto delle regole di ogni genere.


11. Conclusioni. – Democrazia pluralista, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di coscienza e di religione per tutti, eguaglianza davanti alla legge di tutti gli esseri umani e di tutti i gruppi sociali, eguale libertà delle confessioni religiose, imparzialità dei poteri pubblici di fronte al fenomeno religioso, neutralità delle istituzioni civili nei confronti delle scelte individuali dei cittadini, rispetto della ragione e del diritto: a questi principi fanno riferimento il riconoscimento costituzionale che

L'Unione si fonda sui valori di rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto e rispetto dei diritti dell'uomo

e l'affermazione che

Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società fondata sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla non discriminazione:

su questi principi è fondata la speranza che possano realizzarsi in Europa le condizioni per una piena laicità.
Non mancano i timori e i dubbi per il futuro, soprattutto se si considera che nella costituzione europea, pur non figurando alcun richiamo alle radici cristiane, è tuttavia prevista una disposizione, quella dell'art. 52, n. 1, che, stabilendo che

L'Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri,

sostanzialmente ribadisce anche i regimi concordatari vigenti in alcuni sistemi giuridici dell'Europa.
E tuttavia l'opinione che, in conclusione, vorrei qui esprimere riguarda la fiducia che si può riporre in un sistema, come quello europeo, che stabilisce la supremazia del diritto: senza il diritto non c'è libertà ma arbitrio; e sempre più si afferma l'esigenza che le costituzioni, quella europea non meno di quelle dei singoli stati d'Europa, con le loro disposizioni, i loro principi consolidati e i loro valori, siano fonti di garanzia per tutti. Più che di solidarietà abbiamo tutti bisogno di più diritti.
Pietro Rescigno, nella prefazione pubblicata nel primo volume dei miei Tutti gli scritti, osserva, con riferimento ai miei lavori pubblicati negli anni 1959-2015:

Di due personaggi della nostra storia culturale, e non solo per le frequenti citazioni testuali di Sergio, conviene qui ricordare l'importanza che hanno avuto così nella generale materia come nella specifica formazione di Sergio. Mi riferisco a Jemolo e a Lelio Basso, testimoni di una tensione spirituale e di una riflessione dove i toni della sincerità, della intransigenza e della speranza hanno sempre prevalso sui compromessi, i cedimenti, le tranquillanti mediazioni (Rescigno, 2015, p. IV).

Per fare conoscere meglio l'opera di Arturo Carlo Jemolo, a distanza di tanti anni dalla sua scomparsa, ho scritto un piccolo libro, che descrive il lavoro e i tormenti di un giurista del secolo scorso, impegnato, nell'ultimo periodo della sua lunga vita, nel definire il significato e l'importanza della coscienza laica nell'Italia democratica (Jemolo, 1956; Lariccia, 2015).
Il tema della laicità dello Stato, insieme alla rilevanza dell'esperienza religiosa, sono stati al centro della riflessione e dell'impegno di Lelio Basso per tutta la sua vita: dall'articolo La religione dello stato (Basso, 1923), nella tesi di laurea in filosofia (sul teologo Rudolf Otto), nell'attenzione particolare alla “questione cattolica”, nella valorizzazione della “teologia della liberazione”; e – da ultimo, nell'intervento al Senato, sulla revisione del Concordato, del 7 dicembre del 1978. Si tratta di un tema che, nel contesto italiano, mantiene tutta la sua rilevanza istituzionale e politica, per la perdurante tensione che esiste tra gli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della nostra Costituzione e per le profonde trasformazioni che la cultura del nostro Paese ha conosciuto negli ultimi decenni, anche in seguito all'incremento dei processi migratori e alla diffusione di tradizioni diverse.
L'esistenza di costituzioni e istituzioni nazionali e sovranazionali fondate sul principio di laicità rappresenta tuttora un obiettivo di difficile realizzazione; la consapevolezza di questa sconsolante realtà mi induce a riportare qui le parole finali, e l'interrogativo, di Lelio Basso nell'ultimo suo discorso in Parlamento:

È forse utopia lottare ( … ) per preparare un'umanità in cui essere cattolici o protestanti, cristiani od ebrei, musulmani o buddisti, credenti o atei non debba più costituire per nessuno nè motivo di persecuzione, nè titolo di privilegio? (Basso, 1978).

Si potrebbe obiettare che, per valutare questioni riguardanti il futuro delle società europee del secolo ventesimo, è quanto meno singolare ricorrere a una citazione che riporta le parole di un discorso parlamentare pronunciato in Italia più di quarant'anni fa.
Oggi la situazione in Europa è notevolmente peggiorata, soprattutto nella più recente produzione normativa e nelle prassi amministrative che, a seguito di nuovi equilibri politici via via emergenti, hanno introdotto in molti Paesi restrizioni e divieti in tema di aborto, coppie di fatto, fecondazione assistita, matrimonio e adozione per coppie dello stesso sesso, testamento biologico, eutanasia e hanno previsto una sempre maggiore soggezione degli ordinamenti statali rispetto ai precetti religiosi (Capriccioli, 2019, p. 171).
E dunque ora, ancora più che in passato, occorre credere nella necessità di impegnarsi per la realizzazione di un ambizioso progetto di civiltà: senza porsi troppe domande riguardanti il carattere utopistico o meno di molti nostri propositi, opinioni e comportamenti. Considerando che non sempre raccoglie chi ha seminato, è necessario ribadire che soltanto un radicale e urgente mutamento di rotta nelle politiche europee potrà garantire la sopravvivenza dei capisaldi della civiltà europea, fondata sullo Stato diritto, il rispetto della democrazia e le garanzie delle libertà individuali e collettive.


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Fonte: di SERGIO LARICCIA